M olti ricorderanno quella stranissima sensazione che si provava (o prova) entrando nelle famose “case degli specchi” e in cui ci si trova circondati da infinite immagini di noi stessi distorti: alti, bassi, grossi, gobbi, spilli. Noi al centro e attorno una molteplicità di oggetti inanimati capaci di renderci immagini così diverse di noi stessi da farci quasi sospettare la qualità della nostra stessa percezione.
Questa sensazione l’ho provata leggendo Lotte e metamorfosi di una donna (in uscita in Italia per La Nave di Teseo a metà ottobre), ultimo sforzo dell’enfant prodige della letteratura francese, Édouard Louis. Non perché mi sentissi io al centro della stanza degli specchi, quanto perché, al quarto libro sulla sua vita e le persone che la abitano, si fa forte l’impressione che Louis stia costruendo una collezione di riflessi di se stesso, alcuni belli e slanciati, altri distorti e poco gradevoli, complice forse un sistema che al raggiungimento di una certa notorietà indebolisce la voce di chi parla.
L’esordio di Louis risale al 2014 con Il caso Eddy Bellegueule (Bompiani, 2014), romanzo autobiografico incentrato sulla violenza e discriminazione vissuta da Louis all’interno della famiglia operaia e da parte della comunità omofoba di un piccolo paese nella Piccardia francese. L’oppressione e la violenza sono descritti con dettaglio e crudezza: il padre alcolizzato e violento, compagni di scuola che lo bullizzano e gli sputano in faccia, una madre succube del padre, insegnanti che invece di favorire l’emancipazione attraverso lo studio cercano di tagliare qualunque possibilità di crescita. Il romanzo crea uno shock in Francia – che coraggio Louis a parlare apertamente di tanta violenza – ma anche numerose polemiche legate alla rappresentazione dell’ottusità del sottoproletariato francese. (Nota: negli stessi anni esce Return a Reims di Didier Eribon, che pur parlando da una prospettiva e generazione diversa rispetto a quella di Louis, di fatto racconta un percorso simile: l’emancipazione sociale e culturale che vivono alcuni giovani omosessuali nati in periferia e in classi sociali inferiori attraverso gli studi e l’abbandono del paese d’origine. Eribon, dalla sua posizione di filosofo e storico, arricchisce la narrazione di annotazioni storiche e sociologiche che danno spessore e contesto all’esperienza di Louis, pur non condividendone l’intensità drammatica. Non solo Eribon è mentore di Louis ma è autore anche, tra altre opere, di un’autobiografia su Foucault – Michel Foucault: Il filosofo del secolo. Una biografia, Feltrinelli, 2021, trad. Lorenzo Alunni –, che a sua volta, una generazione prima di Louis ed Eribon aveva lasciato la provincia per la vita accademica parigina, denunciato l’oppressione sociale a favore della liberazione sessuale).
Nel 2016 esce Storia della violenza (Bompiani, trad. Fabrizio Ascari) dove si racconta un nuovo abuso: lo stupro subito da Louis da parte di un uomo incontrato una sera a Parigi. L’uomo che Louis stesso aveva invitato a casa e con cui aveva condiviso una notte di chiacchiere e risate, dopo averlo minacciato con una pistola, lo stupra e se ne va. Il libro ripercorre, attraverso la voce della sorella di Louis, la storia di questa violenza che si intreccia a sua volta a tematiche quali razzismo e immigrazione, povertà e discriminazione. (Il caso vero finì anche in tribunale).
Presa nel suo complesso l’opera di Louis è una trilogia della famiglia, ma una trilogia che come in una casa degli specchi invece di raccontare tre vite, racconta tre proiezioni di sé.
Seguono nel 2018 Chi ha ucciso mio padre? (Bompiani, trad. Annalisa Romani), e appunto Lotte e metamorfosi di una donna. I due libri, contrariamente ai precedenti, risentono dell’influenza che l’avvicinamento al mondo del teatro e della drammaturgia hanno avuto su Louis in seguito alla trasposizione teatrale delle sue prime opere. I due testi raccontano rispettivamente la vita del padre e della madre, e cercano in qualche modo di riscattarli dallo sguardo di accusa imposto su di loro dalla società e da Louis stesso durante l’adolescenza. Se il padre infatti è vittima prima di un incidente sul lavoro che lo obbliga all’infermità e successivamente del progressivo sgretolarsi del sistema assistenziale francese che lo lascia senza mezzi e una progressiva crescente rabbia, la madre è vittima del padre, della sua violenza e oppressione, ma anche in un certo senso della “famiglia” in senso lato, essendo la sua salvaguardia formale a imprigionarla in una gabbia di infelicità nutrita a più riprese dai figli e da Louis stesso, che a fronte della sua insofferenza non le concedono un istante di spensieratezza.
Presa nel suo complesso, l’opera di Louis, ad eccezione di Storia della violenza, è una trilogia della famiglia – figlio, padre, madre – ma una trilogia che come in una casa degli specchi appunto invece di raccontare tre vite, racconta tre proiezioni di sé. Louis si rifrange prima nella sua adolescenza e poi nei genitori. Lo fa in istanti diversi della vita e del suo percorso di emancipazione e l’immagine complessiva che offre ai lettori è complessa, basata su un palinsesto di percezioni che variano col posizionamento di Louis nel tempo. Le tre storie riunite danno forma a un Louis che cambia: dalla rabbia del primo romanzo, al paternalismo dell’ultimo.
L’Édouard Louis di Bellegueule è un ragazzo omosessuale, vittima di un passato di discriminazione omofoba, violenza e abuso che riesce a trovare la forza di raccontare la sua esperienza personale per denunciare uno status quo troppo invisibile per essere pubblicamente affrontato. L’Édouard di Chi ha ucciso mio padre? è invece un giovane che in seguito alla notorietà ottenuta dal romanzo precedente ora può sollevare la voce e condannare lo stato francese, nella persona di Macron in particolare. Il processo del trauma e la maturazione che viene inevitabilmente con l’età permettono a Louis di distanziarsi dall’esperienza giovanile per capire le radici del problema: lui è vittima del padre, quanto il padre è vittima dello stato sociale. È giusto accusarlo perché di abuso si è trattato, ma è necessario comprendere il contesto in cui questo abuso si è realizzato. Su questo tema può far luce il testo illuminante di Sarah Schulman Conflict is not abuse, in cui si teorizza la necessità di un dialogo tra le parti al fine di comprendere qual è il limite tra conflitto e abuso: certo non è possibile minimizzare o escludere l’esistenza di un abuso, ma è importante anche capire il contesto in cui esso si realizza, chi sono le parti coinvolte e che storia hanno alle spalle. Questo è esattamente quel che fa Chi ha ucciso mio padre?: Louis processa il trauma riconoscendo l’esistenza di una situazione di conflitto sociale. Questo certo non perdona il padre, ma sicuramente ne riscatta in parte la figura e permette, se non una risoluzione, una sorta di riconfigurazione dei rapporti. È per questo che forse questo testo, ad oggi, è il più interessante di Louis perché viene messo in scena in maniera drammatica e performativa il difficile processo di riconciliazione col trauma. Quel che ne risulta alla fine non è tanto l’immagine del padre, ma in filigrana quella di Louis, un Louis che attraverso l’empowerment prodotto dalla sua emancipazione e dall’aver parlato pubblicamente, ora è in grado di riconciliarsi col padre. È un processo difficilissimo e vederlo manifestarsi ha un effetto apotropaico.
Non è più possibile per Louis continuare a guardare il mondo come prima. Pur contro la sua volontà, il successo editoriale lo ha privato dell’innocenza, il suo sguardo è stato contaminato dal “sistema”.
L’Édouard di Lotte e metamorfosi è un giovane ormai affermato, che beve cocktails in alberghi lussuosi, che vive tra Parigi e New York, che continua la sua lotta contro le discriminazioni sociali, che racconta con dolcezza la storia della madre. Si intravede ancora qui il tentativo di comprendere i propri errori nel definire il rapporto con la madre, ovvero errori di giudizio commessi nel passato nei suoi confronti, come era stato per il padre. C’è una grande tenerezza nei confronti della madre, e stima per il suo processo di emancipazione che allude a quello vissuto da lui stesso anni prima. Ora quando la madre arriva a Parigi la porta nei ristoranti altolocati per poterle far esperire “cosa significa vivere al di fuori della propria classe” e, in una scena molto tenera, dà il suo numero a Catherine Deneuve perché si possano incontrare (e la Deneuve davvero la chiama e la incontra).
Louis nel testo cerca di posizionarsi con e accanto alla madre, di allinearsi al suo sguardo di outsider sul mondo intellettuale e altolocato parigino, ma il salto di classe che ha fatto negli ultimi anni ne ha complicato lo sguardo. Leggendo il testo infatti si percepisce che non è più possibile per Louis continuare a guardare il mondo come prima. Pur contro la sua volontà, il successo editoriale lo ha privato dell’innocenza, il suo sguardo è stato contaminato dal “sistema”. Per quanto possa pensare di sentirsi “estraneo” al mondo intellettuale e radical-chic parigino come la madre e con lei osservarlo etnograficamente, questo mondo lo ha risucchiato privandolo del suo status di outsider reale in cambio di uno equivalente, ma acriticamente estetizzato.
È per questa ragione che uno degli estratti più citati del libro, riproposto per frammenti con grande ardore da tanta stampa ammaliata, suona tutto sommato, piuttosto spiazzante.
Mi hanno detto che la letteratura non deve mai cercare di spiegare la realtà, solo illustrarla, e io scrivo per spiegare e comprendere la sua vita [nda vita della madre].
Mi hanno detto che la letteratura non deve mai ripetersi, e io non voglio scrivere che la stessa storia, ancora e ancora, ritornarci finché non lasci percepire alcuni frammenti della verità, scavarla sempre più a fondo fino al momento in cui ciò che si nasconde dietro comincerà ad emergere.
Mi hanno detto che la letteratura non deve mai sembrare un vetrina dei sentimenti, e io non scrivo che per far uscire i sentimenti che il corpo non riesce ad esprimere.
Mi hanno detto che la letteratura non deve mai assomigliare a un manifesto politico, e io affilo ogni frase come affilassi la lama di un coltello.
Perché ora lo so, hanno costruito quel che chiamano letteratura contro le vite e i corpi come i suoi. Perché ora so che scrivere su di lei e sulla sua vita significa scrivere contro la letteratura.
[trad. mia]
Stando a Louis la letteratura, o questa cosa chiamata “letteratura”, non deve spiegare e ripetere. Ma che vuol dire esattamente? Chi gliel’ha detto? È una frase priva di senso, come può esistere un “contrario della letteratura” quando si dà per postulato che si sta facendo “letteratura”? Uno dei punti di riferimento letterari di Louis, Annie Ernaux, sono decenni che scrive la stessa storia over and over again. Quando si decide di parlare di sé e di entrare nella “casa degli specchi” non si può che vedere la propria immagine in continuazione, non si può che raccontare se stessi attraverso le molteplici rifrazioni degli specchi. Scrivere significa necessariamente spiegare, non illustrare solamente, perché certo i puntini sono uniti dal lettore, ed è il lettore che alla fine coglierà il senso che per lui ha un’opera, ma questi puntini sono forniti dall’autore implicitamente per spiegare. Chi gli ha detto che la letteratura non debba spiegare la realtà, non essere politica, non mostrare i sentimenti, chi?
Sembra che in questo passaggio Louis impersoni più un ruolo che gli è stato confezionato su misura a partire dalle opere precedenti, quello dell’uomo che si erge contro, piuttosto che esprimere un reale posizionamento politico. Ci dice che visto che racconta la vita del sottoproletariato e degli emarginati allora sta scrivendo contro la letteratura. Ma la letteratura ha da sempre raccontato queste storie, basta guardare a Zola (se vogliamo rimanere in Francia), Ernaux, Ponthus (sul contemporaneo), a tanti autori e autrici decoloniali, alla letteratura russa, la letteratura operaia inglese, italiana e di ogni dove. Semmai è il sistema editoriale, inteso come industria economica, che non ha dato a queste storie abbastanza spazio perché “non vendevano”.
In un passaggio pomposo come quello sopra citato purtroppo cade l’intero palco messo in piedi da Louis e la storia della “liberazione” della madre perde totalmente l’afflato emancipatorio che un testo dal titolo così sexy come Lotte e metamorfosi di una donna sembrava promettere dall’inizio. Ecco stagliarsi il problema di un libro come Lotte (che purtroppo è il destino di molti testi): non importa più il contenuto reale, perché lo statuto e il riconoscimento pubblico di Louis lo mettono automaticamente al di sopra di ogni critica. Il libro venderà, è una delle uscite più anticipate dell’anno, non importa quel che ci sarà scritto. I passaggi verranno citati come sentenze magniloquenti, seppure a scavarli bene non risultino che vuoti spropositi. Certo la storia della madre è genuina, la tenerezza grande, la disamina del proprio comportamento giovanile sincera, ma il retrogusto è amaro. Sembra vedersi manifestare in questa pubblicazione quel processo descritto da vari intellettuali, e discusso anche in un recente articolo su Micromega da Martina Testa, che è l’abbassarsi progressivo della barra della critica a favore del compiacimento del pubblico lettore. Portato un autore dal margine alla luce della ribalta, poco importa scandagliare il valore dell’opera. Diventa trend. Certo, non tutte le opere escono bene, e la scrittura ha una dimensione drammaturgica interessante, ma Lotte è un testo pieno di contraddizioni, un testo narcisista che pretende di “fare l’archeologia della distruzione della madre per parlare degli effetti della violenza di classe e della povertà su di lei” quando in realtà non fa che estetizzare l’emancipazione di una donna. Forse è un giudizio eccessivamente amaro questo, ma di fronte ad altri autori e autrici che hanno portato avanti un percorso coerente, come Ernaux stessa appunto, che di libro in libro ha esplorato la sua vita e la condizione della classe popolare, Louis sembra qui insistere nel voler parlare del sottoproletariato tramite la storia della madre, quando in realtà non offre che un ritratto narcisista e distorto di sé.
Rimane importante che Louis con la sua opera si faccia portavoce di una lotta, che racconti una classe sociale particolare, ma il sistema ne ha contaminato la voce, e ora non può che parlare a chi non lo capisce.
Eppure c’è un elemento estremamente interessante in questa distorsione, che è forse la nota più genuina di questo libro, ovvero pone luce sulla difficoltà di raccontare la lotta di classe quando si è al di là del muro. Che parte prendere? Il legame con l’origine rimane forte, c’è alleanza col proprio “gruppo” (anche se contaminata da una passata vergogna), eppure la nuova posizione rappresenta quel contro cui si è lottato eppur sempre desiderato. Nel raccontare una lotta per l’emancipazione, si racconta anche un passaggio al “nemico”, un passaggio che in questo mondo neoliberalista è solitario ed eccezionale, non un movimento comunitario e collettivo. L’imbarazzo del far parte della nuova classe sociale viene mascherato dietro al tentativo di raccontare con empatia la classe di provenienza, perché se ne era parte, ma col passaggio l’innocenza è perduta, l’individualismo ha vinto. È per questo che Chi ha ucciso è più sincero, denuncia lo stato attraverso la storia del padre. In Lotte l’urgenza collettiva manca, c’è un Louis solitario che si erge contro la letteratura da oltre il muro. Ma non c’è colpa. Non c’è colpa in Louis: è colpa di un sistema che quel che tocca rovina. Si è innocenti fino ad un certo punto, quando si è toccati dalla notorietà si perde anche credibilità, volenti o nolenti.
Rimane importante che Louis con la sua opera si faccia portavoce di una lotta, che racconti una classe sociale particolare, ma il sistema ne ha contaminato la voce, e ora non può che parlare a chi non lo capisce, a chi leggendo parole a caso si commuove perché la realtà dura di quella frangia sociale che Louis racconta i nuovi lettori non la conoscono. Louis è di fronte agli specchi, è sempre lui, col suo passato e con la sua storia, ma lo specchio che lo ritrae è fatto di un materiale corrotto e l’immagine che rimanda non può che essere deformata, al di là di ogni buona intenzione e sincera volontà di cambiamento.