C hiunque abbia avuto tra le mani una foto di classe risalente a prima degli anni Cinquanta, o un ritratto fotografico dei nonni o dei bisnonni ventenni, ha notato la medesima cosa: gravi, solenni, paludati, come nati vecchi, o passati senza soluzione di continuità dall’infanzia all’età adulta, i giovani un tempo non sembravano giovani affatto.
Lo stadio dell’infanzia è sempre esistito, così come l’età adulta e la vecchiaia, più o meno breve a seconda dalla speranza di vita. Ma il passaggio intermedio della giovinezza – quel limbo di sperimentazione, irrequietezza, desiderio, speranze, edonismo e inquietudine che costituisce la giovinezza – sembra ritagliarsi uno spazio, da allora via via più considerevole e prolungato, soltanto negli anni Cinquanta. O quantomeno, negli anni Cinquanta per la prima volta la giovinezza venne percepita e rappresentata come tale, o come è poi arrivata a noi. E per la prima volta costituì un problema.
Non era forse mai successo, infatti, che l’Occidente fosse alle prese con una generazione che presumibilmente non andava incontro alla decimazione nell’ennesima guerra, e che oltretutto si affacciava su un periodo di ripresa economica, di benessere generale, di beni prodotti industrialmente per il consumo di massa, di aumento del tasso di vita. Chi, in passato, sarebbe stato chiamato molto presto a dover sostituire i genitori col lavoro, la riproduzione della specie e ogni altro genere di responsabilità generazionale, ora, in uno scenario senza precedenti, era semplicemente ‘giovane’: svagato, spesso sfaccendato, curioso, desideroso di divertimento, piaceri e distrazioni.
Un mondo che si ritrovava vecchio tutt’a un tratto non sapeva quindi come gestire la giovinezza. Come con gli dèi, la guardava con timore e adorazione, con paura e meraviglia. In fin dei conti, stando al Bhāgavata Purāṇa, gli dèi hanno eternamente sedici anni. Oltretutto, sembra uno di quei casi in cui fu la vita a imitare l’arte, e in quel che segue si tenterà di ricostruirne qualche passaggio partendo da lontano, dal più noto libro di Nabokov.
La ninfolessia, scienza esatta
Nabokov ha sempre categoricamente respinto l’idea che Lolita (1955) avesse alcunché di autobiografico. Oltre che dal suo amore per la lingua inglese, raccontò che lo spunto di partenza gli era stato offerto da un curioso fatto di cronaca: la storia di un primate allo zoo che, messo a disegnare, aveva tracciato una serie di linee verticali parallele. Erano le sbarre della sua gabbia. Allo stesso modo, anche Humbert Humbert, il narratore di Lolita, racconta la storia della sua prigionia, questa volta mentale: la sua ‘ninfolessia’. Scrive, dunque, “to fix once for all the perilous magic of nymphets”.
Nabokov ha sempre categoricamente respinto l’idea che Lolita avesse alcunché di autobiografico.
Ma, come nel romanzo Dolores Haze alias Lolita è preceduta da Annabel Leigh (eco, a sua volta, di una poesia di Poe), così Lolita il romanzo è preceduto da L’incantatore. Risalente all’autunno del 1939, scritto in russo a Parigi e definito dall’autore stesso “una specie di pre-Lolita”, fu poi tradotto in inglese dal figlio Dmitri e pubblicato soltanto una cinquantina di anni più tardi. È la storia di un esteta, interiormente scisso tra il desiderio erotico per le bambine e lo scrupoloso autocontrollo, che concupisce una dodicenne “protoninfetta”, come la definisce Nabokov figlio, mentre l’autore arrivava a dire che “La ninfetta era più o meno la stessa ragazzina” che prenderà poi il nome di Lolita. Ma quel che è significativo è che ne L’incantatore la parola ‘ninfetta’, invece così importante in Lolita, non compaia affatto. Al di là della trama, che fino a un certo punto è del tutto analoga a quella del capolavoro successivo, ne L’incantatore manca completamente la speculazione che circonderà poi il termine, e la conseguente condizione della ninfolessia. Se le due hanno la stessa età e sembrano esteriormente imparentate, non potrebbero essere più diverse. Scrive D. Nabokov: “In realtà qui la bambina è molto diversa: perversa soltanto agli occhi del folle; del tutto incapace, nella sua innocenza, di un intrigo come quello perpetuato da Lolita con Quilty; fisicamente e sessualmente immatura”. Dopotutto, stanno cambiando i tempi, e soprattutto i giovani. Per qualcuno forse non sarà un’ovvietà, ma una dodicenne degli anni Trenta non ha nulla a che vedere con una dodicenne degli anni Cinquanta. Lolita non poteva venire al mondo che allora.
È il portato mitico e fiabesco della ninfolessia – una “scienza esatta”, secondo Nabokov – a collocare Lolita oltre qualsiasi meschina riduzione al realismo. Basti pensare che la trama de L’incantatore termina in una notte d’albergo analoga, almeno fino a qualche pagina dall’epilogo, a quanto in Lolita avviene, verso la fine della prima parte, all’Enchanted Hunters (i ‘cacciatori incantati’, nomen omen come pochi altri). Fin dalla descrizione di quest’ultimo, però, percepiamo di trovarci in tutt’altra dimensione, tanta è l’apparente inverosimiglianza. “Reality”, come dirà Nabokov, “is a very subjective affair”.
La ninfolessia, dal greco antico, è il termine tecnico per indicare la possessione delle Ninfe. Plutarco, nell’Aristide, parla di un oracolo che un tempo sorgeva nei pressi dell’antro delle Ninfe, “e molti abitanti del luogo erano posseduti, ed erano chiamati ninfolettici”. Si tratta di uno stato alterato di coscienza, talvolta una forma di follia, ma è sempre una follia di origine divina, esaltata da Platone nel Fedro, che sembra contenere in sé i tratti di tutte e quattro le ‘manie’ discusse da Socrate – mantica (o profetica), telestica (o rituale-iniziatoria), poetica ed erotica –, pur non essendo riducibile a nessuna di queste. E per l’Aristotele dell’Etica eudemia è anche uno dei cinque tipi di felicità. Ritroviamo il termine in Inghilterra, con Byron (“The nympholepsy of some fond despair”), De Quincey, Shelley e il suo circolo, per indicare ora l’amore dell’ideale, ora – sulla scia del racconto di Ila e le Ninfe – il nesso fra arte, desiderio erotico e impulso di morte. Così la descrive Edward Bulwer-Lytton: “the saddening for a spirit that the world knows not”, legandolo indissolubilmente al genio, inattuale e insoddisfatto dal mondo circostante. L’OED del 1933, per questo, la definisce “a state of rapture supposed to be inspired by nymphs; hence, an ecstasy or frenzy of emotion especially inspired by something unattainable” [“uno stato di rapimento che si suppone essere ispirato dalle ninfe; quindi, un’estasi o una frenesia di emozione ispirata soprattutto da qualcosa di irraggiungibile”], facendone, in questo senso, l’ennesima sfaccettatura dell’animo romantico.
In un tempo sempre meno “mitico”, quale è quello della pax americana, in cui l’irrazionale viene tacciato, appunto, di irrazionalismo e relegato ai margini, esso emerge, per la persona comune, solo – e forse – nel sovrappiù dell’esperienza amorosa, dove nelle forme di passione e desiderio, per quanto contestualizzate, si riaffacciano sopravvivenze antiche. Non si tratta di “archetipismo”, di essenzialismo metastorico immutabile, quanto di riconoscere una traccia, un ritorno, una continuità, pur intermittente, nell’esperienza e nella rappresentazione dell’eros.
Un misto di ingenuità e di inganno, di incanto e di volgarità, di malinconici bronci e di rosee ilarità.
Oltre a essere strettamente appena pubescenti, le ninfette nabokoviane non sono definite dalla loro bellezza, anzi: “la volgarità […] non compromette necessariamente certe caratteristiche misteriose, la grazia torbida, il fascino elusivo, mutevole, struggitore e insidioso che distingue le ninfette dalle loro coetanee” (dalla traduzione di B. Oddera). Tutti “indizi ineffabili” che solo il ninfolettico sa riconoscere.
Una ninfetta così come delineata in Lolita, poi, ha una duplice natura: da un lato, mostra “tender dreamy childishness”, dall’altro la “eerie vulgarity” di cui si è accennato. È quindi tanto vittima innocente quanto “un demone immortale travestito da bambina”, dotato di “malvagità ninfale che traspira da ogni poro”. Le menzogne, le omissioni mascherate da sbadataggine, il doppiogioco, la piena cognizione di causa celata sotto un’ostentata immaturità, il dolo che si finge spontaneità impulsiva – tutto ciò costituisce la sua magia. Questa ondivaga oscillazione tra l’accesso d’affetto e la “queer dullness” crea, nel lettore, il senso di un mistero insondabile che ammanta Lolita. La sua schietta reticenza è l’enigmatica formula caratteriale che si ritrova in pressoché ogni “lolita” successiva. Per citare ancora Nabokov: “Un misto di ingenuità e di inganno, di incanto e di volgarità, di malinconici bronci e di rosee ilarità”. Intrappolata nell’improbabile vita cui la costringe H.H., Lolita lo vessa con “crisi di noia disorganizzata” e lamentele spazientite. Il suo stile è “abbandonato, cascante, con occhi da morfinomane”. In un primo tempo, scapestrata com’è, Lolita entra nel cupo mondo di H.H. “con avventata curiosità”; dopo averlo “esplorato con una scrollata di spalle di divertito disgusto”, si decide ad allontanarsene non verso la libertà e non per odio, ma per tedio (“come una festicciola noiosa, come una piovosa merenda all’aperto alla quale abbiano preso parte solo i più tediosi scocciatori, come un esercizio monotono, come una crosta di fango disseccato che inzaccherasse la sua fanciullezza”). That’s the way things are, gli dice, e non sapremo mai se è detto con candore o insensibilità, per assoluto realismo o nella peggiore forma di autoinganno.
Un po’ reale, dunque, e un po’ fantastica: una creatura ibrida, come le sirene a cui, con le Ninfe del mito, viene spesso messa in relazione di parentela. Alcuni riferimenti sono ovvi, altri del tutto celati. Clare Quilty, per esempio, è detto un “ondinista” (undinist): secondo Havelock Ellis (1859-1939), medico inglese che si occupava di sessualità e soffriva della stessa deviazione, l’ondinismo è l’attrazione erotica per una donna nell’atto di urinare, perciò possiamo supporre che Nabokov voglia dirci che il doppio di H.H. è un pervertito. Ma le Ondine sono anche figure del folklore germanico, simili alle sirene, spiriti acquatici che conducono gli uomini alla rovina, e la fiaba Undine scritta da La Motte-Fouqué ebbe un successo spaventoso fra i romantici. “La conturbante ‘ondina’ dei tempi andati si chiama oggi ‘fantasia erotica’”, chiosa Jung. O ancora: H.H. afferma di aver sempre ammirato “l’oeuvre ormonde du sublime Dublinois”. Ora, il dublinese in questione è Joyce, ma è inutile cercare l’aggettivo ormonde su un dizionario francese, perché non esiste. È invece il nome dell’albergo – l’Hotel Ormond – dove si ambienta, nell’Ulysses, l’episodio delle sirene, e Nabokov, a sua volta, ne fa un calembour da hors [de ce] monde, ossia “fuori dal mondo”.
Non è che giovinette desiderabili non fossero mai esistite prima nella storia della letteratura o delle immagini, né legittimi casi di ninfolessia, per quanto isolati (uno su tutti, La morte a Venezia di Thomas Mann). Ma ridurre Lolita e le sue ninfette al turpe realismo di vicende perverse significa fraintendere non solo il romanzo, ma la letteratura tutta. D’altronde neppure gli dèi smisero di essere citati o dipinti nei secoli. Il fatto è che non basta menzionarli o raffigurarli per prenderne sul serio la potenza. Delle immagini, ad Aby Warburg non interessava tanto il significato quanto la loro “vita”, espressa – usando il lessico di Burckhardt, il maestro di Nietzsche al quale furono destinati alcuni biglietti torinesi della follia – in termini di “forza” (Kraft) o ‘potenza’ (Macht). Warburg si domandava come avesse fatto Niccolò dell’Arca a riprodurre nella Maddalena del Compianto sul Cristo morto (Santa Maria della Vita, Bologna) il panneggio ellenistico, quello, per esempio, della Nereide da Xanthos oggi al British Museum, pur non potendolo conoscere. Nelle due riconosceva una sola “formula di pathos” e, commenta Georges Didi-Huberman, ciò non significa tanto che gli artisti “hanno ben copiato i modelli antichi, quanto piuttosto che l’uomo moderno, che lo voglia o meno, si confronta ‘energeticamente’ con il mondo per il tramite di ‘impronte espressive’ […] che, per quanto sepolte, non sono mai scomparse dal suo terreno culturale o dalla sua ‘memoria collettiva’” (L’immagine insepolta).
Ridurre Lolita e le sue ninfette al turpe realismo di vicende perverse significa fraintendere non solo il romanzo, ma la letteratura tutta.
Non si cita Warburg per nulla: nei tempi moderni, fu uno dei più grandi ninfolettici. “Der Gegenstand meiner Träume” (l’oggetto dei miei sogni), così chiamava la sua Ninfa, e confessava di “vederla dappertutto, di non sapere chi fosse, di non capire mai esattamente da dove venisse, di aver perduto la testa per lei”. Tale è la potenza della follia che viene dalle Ninfe.
Dalle ninfette al ninfettismo
Nel 1960, ancora nel pieno del “caso Lolita” (e non poteva essere diversamente, poiché il romanzo aveva incontrato la censura in quasi tutti i Paesi e rovinato la carriera di Nigel Nicolson, il parlamentare conservatore ed editore che ne aveva voluto la pubblicazione britannica), i giornali riportarono un fatto curioso. Nabokov, si legge, era intenzionato a fare causa a una società cinematografica francese che voleva far uscire un film dal titolo Les nymphettes. Era in gioco il termine stesso, che, per Nabokov, portava con sé quanto abbiamo abbozzato poco fa: la parola ‘ninfetta’, spiega, “era completamente ignorata nel linguaggio comune prima della pubblicazione di Lolita. Era possibile trovarla in certi dizionari inglesi per designare una ‘piccola ninfa’. Io, invece, le ho dato un senso preciso e suggestivo, legato al personaggio stesso di Lolita: cioè la ragazzina che ha quella grazia equivoca, quel fascino esclusivo e mutevole, insidioso e talvolta sconvolgente che distinguono, appunto, la ninfetta”. Davanti all’Accademia di Francia, dodici adolescenti scritturate per il film in questione gli rinfacciarono di ignorare che la parola esisteva in francese dai tempi di Pierre de Ronsard, nelle cui Chansons c’è una “Petite Nymphe folâtre, / Nymphette que j’idolâtre”. Il film uscì l’anno seguente col titolo programmato.
La parola, per effetto del romanzo (pubblicato in Italia il 27 maggio 1959 da Mondadori), si era già diffusa come un agente patogeno, spesso l’equivalente di “lolita” (a cui nei primi tempi viene sempre accostata), perdendo rapidamente l’allusione mitologica, il “segreto palese” di Lolita, secondo Roberto Calasso. Oggi conserva solo il senso mondano di “ragazzina sessualmente precoce” o “adolescente che, con i suoi atteggiamenti provocanti, suscita desideri erotici, spec. in uomini maturi” (dal Vocabolario Treccani). Uso che ritroviamo identico, da allora, anche in francese e in inglese.
Se, pace Nabokov, il termine “ninfetta” era già presente col senso odierno nella lingua italiana (seppur rarissimo e limitato a casi oltremodo eruditi), è vero che fu proprio Lolita l’agente virale di una trasformazione non solo linguistica, ma anche, e soprattutto, antropologica. Il 28 maggio 1959, un giorno dopo l’uscita, il Corriere titola: “È approdata in Italia una pericolosa ‘ninfetta’”, assicurando che il romanzo di Nabokov sarà “argomento inesauribile per le prossime conversazioni da spiaggia”. E “ninfetta”, si dice ancora, “probabilmente resterà nel vocabolario della nostra epoca”. E così avvenne.
Il primo ad applicare il termine alla realtà extraletteraria fu forse Lorenzo Bocchi, corrispondente del Corriere da Parigi, che già il 16 giugno se ne servì nel riproporre la storia di Charlie Chaplin e Lita Grey, sua seconda moglie, conosciuta quando aveva sette anni e sposata che ne aveva pochi di più. Qualche settimana dopo, con dispiacere e snobismo il critico Ettore Allodoli attestò, nella rubrica Vocabolario, la diffusione del termine, pur rispolverandone le origini mitologiche e i precedenti letterari. A breve si parlerà di ninfette per indicare le soubrettes di riviste e varietà. A Milano, al teatro Alle Maschere che da poco proponeva anche strip-tease con i grandi nomi della scena parigina, attirava l’attenzione la “ninfetta” Gita Calypso. Nel corso dell’estate, gli Universitari Ventimigliesi Associati organizzarono un ballo di gala studentesco a tema “Ninfette e vampiri”. A Roma, le “ninfette” diventavano le aspiranti attrici che per un po’ di visibilità accettavano ruoli inconsistenti. Presto sarebbe stato un eufemismo per parlare di giovani escort o ragazze traviate. A Saint-Tropez, nel 1960, si tenne un concorso di bellezza per “ninfette”: da regolamento, le candidate non potevano avere più di quindici anni (anche se, stando alle cronache, si presentarono solo concorrenti decisamente fuori tempo massimo). Ancora verso la fine dell’estate 1959, l’arbitra elegantiae Camilla Cederna, in un ironico pezzo per il Corriere di informazione in cui distingueva tra cose “dentro” e cose “fuori”, deliberava che Lolita e le ninfette fossero decisamente out, il che dà l’idea di quanto inflazionata fosse già allora la nuova parola.
Se il termine “ninfetta” era già presente col senso odierno nella lingua italiana, è vero che fu proprio Lolita l’agente virale di una trasformazione non solo linguistica, ma anche, e soprattutto, antropologica.
“Triste fenomeno dei nostri giorni”, scrisse qualcuno a proposito di quello che prendeva il nome, non a caso, di lolitismo o ninfettismo. Si trattava di molte cose tutte insieme: un certo tipo di personaggio romanzesco o cinematografico, incarnato da – o ricalcato su – ora Lolita, ora Brigitte Bardot; una tipologia di corpo o di bellezza, adolescenziale e acerba, da loro promossa; una categoria sociale – le ragazze giovani e alla moda, che imitavano i suddetti personaggi, volevano piacere e si riversavano la sera nelle vie più frequentate. Una signora scrisse a La Stampa per lamentarsi di queste “ragazzine precoci”, questi “piccoli mostri”, e il giornale le rispose incolpando, appunto, Lolita. Il fenomeno, aggiunsero, “va a beneficio dell’industria e del commercio”, che in una moda come quella trovava “ulteriori fonti di guadagno”. Così, “da un giorno all’altro, le ragazzine né carne, né pesce”, fino a ora “trascurate dalla moda e confinate in una sorta di limbo dalla vita, hanno avuto una seducente etichetta per i loro corpi acerbi e un ruolo preciso sulla scena sociale: quello, fatalmente ambiguo, di apprendiste sirene”.
Era la nascita del “‘mercato’ delle teenagers”, per la prima volta soggetto e oggetto – e soprattutto bersaglio – di pubblicità, tendenze, costumi. In Francia, Cinémonde dedicò un numero speciale all’argomento. In un’interrogazione parlamentare, Lina Merlin, che già aveva dato il proprio nome alla legge che proibiva la prostituzione, ne lamentò l’immoralità. Persino le nuotatrici alle Olimpiadi di Roma furono descritte in questi termini. Un esordiente Giorgio Gaber ne fece una brutta canzone. In Italia, nel solo 1960, si cavalcò la tendenza con film a tema: Labbra rosse di Bennati, Il rossetto di Damiani, Le ninfette di Lattuada (che uscì col titolo meno sensazionalistico di Dolci inganni). Quest’ultimo lanciò la carriera di Catherine Spaak, la “ninfetta” per antonomasia dei primi anni Sessanta (La voglia matta, 1962; La calda vita, 1963; Cecilia ne La noia, 1963, dal romanzo di Moravia). Per l’adattamento (1965) di Un amore di Buzzati, fu sua sorella Agnès a interpretare Laide: senza alcun talento, ma più giovane di Catherine, il che era tutto ciò che contava. Le reazioni erano febbrili e nervose (‘ninfolettiche’, verrebbe da pensare), come se davvero la giovinezza, prima di allora, non fosse mai esistita.
Non solo in Occidente: al Festival di Cannes del 1960 Kon Ichikawa presentò La chiave, su un uomo anziano e la sua ‘ninfetta’, e l’anno seguente uscì il romanzo La casa delle belle addormentate di Yasunara Kawabata, su una casa chiusa per vecchi impotenti che pagano per passare caste notti a fianco di ragazzine nude, potentemente sedate e perciò incoscienti. Era un’idea antica – un’iscrizione latina riporta il caso di un uomo vissuto 115 anni puellarum anhelitu, e il medico olandese Herman Boerhaave (1668-1738), ossessionato dalla possibilità del ringiovanimento, tra i vari procedimenti alchemici suggeriva anche la pratica del ‘sulamitismo’ (dalla storia di re David e la Sulamita), arrivando a prescrivere al borgomastro di Amsterdam di dormire tra due ragazze per rallentare l’invecchiamento – che, vagamente ripulita e sublimata, sembrava riprendere piede. Sulle ninfette scrissero Buzzati, Indro Montanelli, Ennio Flaiano. Questa stregoneria collettiva, per Guido Piovene – il quale sosteneva che Lolita fosse “letteratura industriale perfetta”, un prodotto in serie fatto “con precisione da calcolatrice elettronica” –, altro non era che il “sogno dell’amore interamente irresponsabile, insociale, amorale, arcadico, che non produce nulla e non serve a nulla, perciò massimamente erotico”.
Nabokov, intervistato a Roma alla fine del 1959, si difese: la responsabilità non era sua, ma di Brigitte Bardot. “E Brigitte non è una ‘ninfetta’. Brigitte e Lolita sono due espressioni distinte che si compongono nelle interpretazioni bizzarre che vengono date della ‘ninfetta’ e che non hanno nulla a che vedere con Lolita”, la quale, ribadisce, è creatura “di pura immaginazione”. Il ninfettismo dominante gli ripugnava: “cose pazzesche, che col libro non hanno più nessun rapporto” – queste ragazze tutte “come la Bardot, tale e quale nel resto del mondo; ma è una moda che fra tre mesi sarà finita”. Si sbagliava.
All’Expo del 1958, a Bruxelles, il padiglione della Santa Sede conteneva una sala dedicata al Bene e una al Male, e Brigitte Bardot, danzante e tarantolata, era stata scelta come incarnazione della lussuria.
Che nel ninfettismo ci fosse più Brigitte Bardot che Lolita è probabile, ma di certo senza il romanzo di Nabokov sarebbero mancate le parole per descriverlo. Dopotutto, la carriera di BB era iniziata ben prima della pubblicazione del libro. Tuttavia, nei primi film il suo personaggio ancora non è fissato: spesso è sedotta e non seduttrice, è naïve, ingannata, inesperta. Solo con Roger Vadim, suo marito per alcuni anni, furono stabiliti i caratteri destinati a restare con lei fino alla fine della sua carriera insieme ai capelli biondi, tinti per interpretare Poppea in un peplum con Sordi e De Sica. Il suo personaggio, si può dire, nasce in E Dio… creò la donna (1956), esordio alla regia di Vadim: giovane, bella, al di là del bene e del male, libera e avida di libertà, incosciente, selvaggia (è sempre scalza e discinta se non del tutto nuda), seduttrice e maliziosa ma non affettata, screanzata, inquieta, anarchica, volubile, capricciosa, disinvolta, spensierata, gaudente, modernissima (balla il cha cha cha e inventa le mode, dal bikini alle avventure estive) ma anche antichissima, quasi eterna (primitiva, bacchica, ninfa fuor di metafora). Persino negli unici due film di valore artistico con BB di quegli anni – La ragazza del peccato (1958, di Claude Autant-Lara, da En cas de malheur di Simenon) e La verità (1960, di Henri-Georges Clouzot) il suo fascino magnetico sembra a volte condurre le pellicole più che la regia o la trama.
Su di lei scrisse Simone de Beauvoir (Brigitte Bardot and the Lolita Syndrome) con toni quasi encomiastici, che ne elogiavano l’ambiguità e l’inassimilabilità all’Ewig-Weibliche. Era una forma di canonizzazione, e BB era la “donna nuova”. Per una quindicina d’anni, infatti, fu l’idée fixe di un mondo intero, che fosse nello sguardo di chi la venerava e sognava, nei modi e nei vestiti di chi la imitava, nelle paure di chi, percependone la minaccia, come è sempre stato con le Ninfe di tutti i tempi, la deprecava, tentando inutilmente di contenerla con la censura e il buoncostume. Non esagera troppo chi sostiene che in qualche modo BB inventò la femminilità moderna e spalancò le porte alla rivoluzione sessuale. Tutti fenomeni di superficie, dirà qualcuno, e va bene: ma era una superficie che prima non era mai esistita, e che portava con sé i significanti di un mondo pagano sommerso. È difficile trovare una singola persona che, al di fuori dei palazzi del potere, abbia suscitato le ire, le apprensioni e il biasimo della DC e dell’apparato vaticano più di lei: basti pensare che all’Expo del 1958, a Bruxelles, il padiglione della Santa Sede conteneva una sala dedicata al Bene e una al Male, e BB, danzante e tarantolata, era stata scelta come incarnazione della lussuria.
Il bellunese Mario De Biasi, alla Mostra del Lido di Venezia dello stesso anno, realizzò una fotografia emblematica: BB è distesa sull’erba, di fronte a lei un muro di fotografi estasiati, e lui, a differenza loro, la cattura alle spalle. Non sta più ritraendo una donna, per quanto celebre; sta cogliendo un oggetto perlopiù invisibile: un mito. Che non riguardava solo il ‘pop’ cosiddetto. Nel 1961, Mondadori pubblicò Risata nel buio di Nabokov; sulla copertina figura quello che difficilmente non sembra un ritratto di BB. Che allo scrittore piacesse o no, it’s a match made in heaven: nel giro di qualche anno, lui e Brigitte Bardot avevano inventato la giovinezza.
Gioventù bruciata
Tutto questo, è ovvio, era il racconto degli adulti. Per Emilio Radus, sul Corriere, serviva una nuova, migliore educazione. “Non sappiamo più bene a quale età la creatura femminile cessi di essere bambina. Veniamo colti di sorpresa dalla realtà. Parliamo allora, con sgomento, di ninfette”. All’apprensione che questo suscitava, si aggiunse l’effetto pubblico dei rapporti Kinsey, i quali, nonostante tutti i limiti, avevano messo in luce la complessità dei costumi sessuali, toccato temi che fino a poco prima erano stati considerati tabù, messo in crisi un sistema costruito su una morale che non teneva più. La stessa Lolita appare come una ragazza moderna e, in questo, rappresentante di un’umanità del tutto diversa da quella di H.H. e della sua generazione. È smaliziata, è lei a sedurre H.H. nella stanza d’albergo e non il contrario, dimostrandosi già piuttosto navigata nelle vie dell’amore carnale. Per il suo amante è un segno dei tempi:
non rilevai una sola traccia di pudore in quella bella e quasi immatura fanciulla che le moderne scuole miste, i costumi giovanili, i furtivi maneggi intorno ai falò avevano depravato all’estremo e senza speranza. Ella riteneva semplicemente che l’atto puro e semplice facesse parte di un furtivo mondo di adolescenti, ignoto agli adulti.
Tutto in lei è “convenzionale fino al disgusto”. Lolita, Laide e le loro simili amano le riviste di cinema, film scadenti di successo commerciale, musica banale e tutto ciò che, quasi per cliché, le ragazze della loro età erano chiamate ad apprezzare. “A lei era dedicata la pubblicità, lei era il consumatore ideale, il soggetto e l’oggetto di ogni brutto manifesto”: è l’invenzione di un soggetto nuovo, un nuovo tipo di acquirente, di target, di prodotto.
È forse impossibile trovare un film con BB in cui non ci sia almeno un ballo – ballo che, in genere, è il cha cha cha, la musica giovanile del tempo. In E Dio… creò la donna, è una danza selvaggia e sensuale, bacchica, liberatoria ed estatica, a cui gli uomini, come Penteo, possono solo assistere sgomenti e impotenti. Quando invece partecipano, sono giovani come lei, hanno la giacca di pelle e i jeans, parlano lo stesso linguaggio. Ritroviamo il cha cha cha in un capitolo di Un amore di Buzzati, descritto come “la febbre spirituale della sera nelle boscaglie d’Africa”, una “vibrazione profonda della materia viscerale”, “un giocare fra un’onda e l’altra […] e l’acqua urtando impazzisce, diventa biscia, epilessia, arpa, perdizione ma lei sopra coi tacchi a spillo levita, fluttua, gioca e sorride con l’evidenza soverchiante di una sapiente bambina”.
Enrico Fulchignoni parlava di “droghe invisibili”, ossia fenomeni che nascono “dai sogni che al cinema si possono comprare con poca moneta”. Ansia, insofferenza e insoddisfazione nascerebbero per via della “suggestione e impulso dei giovanissimi e ricchi idoli portati alla celebrità dalle lettere, dal canto, dal cinema”. Un fenomeno imitativo, ma anche una forma di escapismo senza precedenti connessa al cinematografo e ai media, con serie ricadute nella realtà, che Wolfgang Koeppen, già nel 1953, aveva raccontato in Das Treibhaus come “l’inferno delle visite quotidiane al cinema dove il diavolo – nell’accogliente oscurità – scambia la vita con una una pseudovita”:
Andavano al cinema due volte a settimana; negli altri giorni, vi si incontravano di fronte. Aspettavano. Cosa aspettavano? Aspettavano la vita, e la vita che aspettavano non arrivò mai. La vita non si presentò al cinema come da appuntamento, e se anche si presentò non si mise al loro fianco, non la videro, e i partner che invece arrivarono e si fecero vedere non erano quelli attesi.
Per chi guardava queste cose sentendosene escluso, era qualcosa di mostruosamente sinistro. Già nell’immediato dopoguerra, in Paura alla Scala, Buzzati aveva immaginato la sua generazione barricata dentro il teatro mentre nel mondo esterno la nuova gioventù dava il via a una rivoluzione cruenta, tema che avrebbe ripreso, con maggiori dati alla mano, negli anni Sessanta, all’alba di una vera “contestazione globale”. Pressoché suo coetaneo, Roberto Bazlen annota: “E quando scoppia la rivoluzione io mi metto il mio smoking e mi accendo una sigaretta […] leggo un volume di Henry James e aspetto che il figlio della portinaia mi venga a prendere per portarmi alla ghigliottina saranno bei tempi speriamo che non diventerò vigliacco e non avrò paura”.
Alla fine degli anni Cinquanta, al braccio delle ninfette, nati dalla loro costola e non viceversa, comparvero infatti i teddy boys, espressione di cui si serviva la stampa italiana per parlare di delinquenza giovanile. Il termine, in realtà, era nato in Inghilterra qualche anno prima, e ‘teddy’ è probabilmente diminutivo di Edward e faceva riferimento al cosiddetto stile (neo)edoardiano in voga nell’abito sartoriale maschile d’oltremanica. I teddy boys inglesi erano adolescenti di periferia, di estrazione popolare o piccoloborghese, per la prima volta in grado di costruirsi un proprio codice estetico riconoscibile ed esclusivo. Era, nei fatti, la prima sottocultura giovanile. Recuperando vestiti dai mercati delle pulci, dalle svendite o dalle macerie della Londra postbellica, i teddy boys giustapponevano i capi d’abbigliamento con eclettismo e un certo gusto della provocazione che dava vita a qualcosa a metà strada tra il gentleman edoardiano, il gangster ed Elvis Presley. Per i commentatori britannici, che questi giovanotti se ne andassero in giro con completi fuori misura e panciotti vintage era un oltraggio inaccettabile, che minava le convenzioni sociali rimaste intatte per generazioni, qualsiasi idea di distinzione precedentemente esistita e, in un certo senso, persino lo stesso sistema di classi.
In Italia, il fenomeno aveva poco a che fare con la larghezza dei revers o la svasatura della giacca, e più con atti di teppismo e vandalismo, ma che ci fosse un nesso, almeno percepito, tra la nascita delle sottoculture, l’aggregazione giovanile e i comportamenti antisociali doveva essere evidente anche in origine, se si leggono The Destructors (1954) di Graham Greene e A Clockwork Orange (1962) di Anthony Burgess. E in ogni caso l’idea è la stessa: i giovani, questi giovani, che saranno poi il modello di tutti i giovani successivi, non sanno che farsene del mondo precedente. Non lo vogliono, preferiscono distruggerlo per rimpiazzarlo con qualcosa di completamente nuovo, incomprensibile per chi ha anche solo qualche anno più di loro, oppure, in un ritorno dello spettro del nichilismo, con il nulla tout court.
Mito o moda che sia ancora ci facciamo i conti, oggi forse più che allora, perché questi dèi in esilio e queste Ninfe si sono spostati in un regno ancora più subdolo e insidioso, quello della Rete.
Dopo il celebre film del 1955 con James Dean, il sintagma “gioventù bruciata” spopolava nella stampa, nell’editoria e nel discorso pubblico in Italia. A pochi anni di distanza, uscì una serie di saggi e inchieste di stampo sociologico, pedagogico e psicologico sul “problema dei giovani” che se ne serviva come titolo. Nello stesso periodo, in Inghilterra, i giovani artisti iconoclasti erano stati riuniti sotto l’etichetta degli “Angry Young Men”, cui appartenevano, tra gli altri, John Osborne, Colin Wilson e Kingsley Amis. Alcuni critici, nel maggio 1956, alla prima di Look back in anger di Osborne, elogiarono questa nuova generazione – la “post-war youth” – che si opponeva alla tirannia dei genitori. Portavano il dolcevita e i pantaloni di velluto a coste come segni identitari e si scagliavano contro i genitori, le restrizioni, il mondo borghese. Il personaggio di Alison Porter dice a suo padre: “You’re hurt because everything is changed”, mentre suo marito Jimmy soffre “because everything is the same. And neither of you can face it”.
Tutto ciò che verrà dopo, dalla Summer of Love californiana a Charles Manson, dal Maggio ’68 al terrorismo, fino all’edonismo consumista degli anni Ottanta in cui è ancora invischiato il presente, era già in qualche modo prefigurato nelle lolite, nelle BB e nei teddy boys di quegli anni. Fenomeno di costume nato dal mercato e per il mercato, dunque, o Nachleben der Antike? Entrambe le cose, si direbbe, e in ogni caso è qualcosa con cui – mito o moda che sia – ancora facciamo i conti, oggi forse più che allora, perché questi dèi in esilio e queste Ninfe si sono spostati in un regno ancora più subdolo e insidioso, quello digitale della Rete. Ogni epoca, diceva Warburg, ha la rinascita dell’antico che si merita.