S
embrava che la stanza nella torre si fosse rimpicciolita intorno a lui mentre dormiva, così la misurò di nuovo ma scoprì che le sue dimensioni non erano cambiate. Irrequieto, la misurò una seconda volta e poi una terza, camminando tra le pareti della stanza nella torre. «Sto misurando la mia bara» si disse bisbigliando mentre osservava attento le pietre chiazzate del pavimento.
Esaminò di nuovo ogni angolo della cella spoglia. Poi andò a una porta bassa e, appoggiando la guancia al legno pesante, scheggiato, sbirciò tra le sottili fenditure della griglia di ferro, verso il corridoio circolare della torre. Prima guardò da una parte e poi, appoggiandosi al lato opposto della griglia, dall’altra. In entrambe le direzioni la vista era la stessa: porte e porte di celle, accanto a ciascuna una guardia armata, ciascuna sempre più piccola nella prospettiva circolare del corridoio. Era il piano più alto della torre più svettante del castello, un posto tranquillo quando tutti i prigionieri riposavano. Poi un gemito a denti stretti ruppe il silenzio e lo svegliò per la seconda volta da un secondo sonno. Di nuovo misurò le dimensioni della sua cella, esaminandone ogni angolo, e perlustrò il corridoio circolare oltre le fessure della griglia di ferro.
Per amor di varietà si spostò alla finestra ad arco della cella. Quest’apertura, unica via di fuga a parte la porta bassa, era costruita in modo da includere quattro paia di aguzze punte di metallo: due paia spuntavano dal lato destro e sinistro e due si protendevano dall’alto e dal basso. Insieme, queste quattro paia di punte di metallo formavano una croce le cui parti, però, non si toccavano. E anche superati questi ostacoli aguzzi, rimaneva una pericolosa discesa verso terra. Le mura esterne del castello non parevano offrire appigli o appoggi indispensabili all’arrampicata, né c’era alcuna possibilità di trovare un nascondiglio, nemmeno nelle più buie notti di guardia del castello. Di giorno la finestra ad arco si affacciava su montagne inondate di sole, con il cielo azzurro e una foresta rigogliosa, un paesaggio che in altre circostanze si sarebbe potuto considerare sublime. Nelle attuali circostanze, le montagne e la foresta, persino il cielo, sembravano pullulare di nemici umani e ostacoli naturali, e vanificavano anche soltanto il sogno della fuga. Eppure, lui sognava spesso di compiere l’impresa.
Qualcuno lo strattonava, e lo svegliò. Era il cuore della notte. Fuori dalla finestra una luna crescente luminosa era immobile nell’oscurità. Nella stanza c’erano due guardie e una figura incappucciata, con una lanterna. Una guardia inchiodò il sognatore a terra mentre l’altra gli frugava sotto la maglia lisa, privandolo dell’arma nascosta che di recente aveva ricavato da un frammento di muro di pietra nella stanza della torre. «Non temere» disse la guardia «ti abbiamo tenuto d’occhio.» Poi l’incappucciato indicò la porta con la lanterna e il prigioniero fu portato fuori, i piedi trascinati sulle pietre scure del pavimento.
Dalla stanza della torre scesero – attraverso un’infinità di scale di pietra e lunghi corridoi illuminati da torce – nella parte più nascosta del castello, nel profondo della terra. Era un complesso di grandi sale, ciascuna dotata, dal pavimento freddo e di terra al soffitto altissimo, quasi invisibile, di un incredibile sistema di macchinari. A parte l’eco incessante di un’infiltrazione glaciale che gocciolava dall’alto, l’unico rumore distinguibile era il cigolio di questo formidabile schieramento di aggeggi, punteggiato dal ritornello di uno sbadiglio a bocca aperta.
Il suo corpo fu imbrigliato e sollevato, così che le punte dei piedi a malapena sfiorassero il pavimento. L’incappucciato, con una sequenza di segnali, diresse l’operazione. Durante una pausa dall’agonia, il prigioniero tentò di nuovo di spiegare ai persecutori il loro errore: lui non era colpevole di nulla.
«Ne sei sicuro?» chiese l’incappucciato, in tono quasi gentile. «Non sei nemmeno certo delle dimensioni della tua cella, tante sono le volte che la misuri, ogni sera. Fossi al tuo posto farei lo stesso. Niente è certo, figlio mio. Domani al tuo posto potrei esserci io. Tutto ciò che conta è la sentenza. Altrimenti impazziremmo e regnerebbe la carneficina, fino a quando non resterebbe nessuno a dire cos’è vero e cosa no. Accetta la tua sentenza e, così facendo, salvati. È l’unico modo per restare saldi in questo mondo dove nulla è certo. Capisci cosa dico? Il fortunato sei tu.»
A queste parole, apparve sulla faccia del prigioniero un’espressione di profonda confusione. Sembrava che dentro di lui si stesse tenendo un interrogatorio. E nonostante non fossero state applicate ulteriori manipolazioni, il suo corpo si inarcò in una grottesca postura d’agonia, ed egli emise un solo e continuo urlo prima di piombare nell’incoscienza.
«Risvegliatelo» ordinò l’incappucciato.
Ci provarono, ma il suo corpo dondolava inerte dalle corde, rannicchiato e contorto nelle cinghie. Era già stato rianimato per l’ultima volta, e delle sue misure non c’era più bisogno. Tutto era certo e in equilibrio, adesso che si era perso in un’informe prigione di nulla.
[Nottuario è uscito in questi giorni per i tipi de il Saggiatore.]