“C on cuesta Guerra mi pare non piu una Guerra mi pare un teatro di non mai finirla pero speriamo he avesse di finire presto”. Faustino Cominelli, soldato, scrive a casa. La lettera ha cento anni: è datata 19 settembre 1917. La calligrafia è curata, la grammatica è incerta. Il soldato ha diciotto anni e sul suo foglio matricolare si dice che è ortolano, che sa leggere e sa scrivere. Parla un dialetto lombardo e ha studiato qualche anno alle elementari: è un semicolto, conosce l’italiano come lingua scritta, ma non sa scriverla correttamente. Scrive a quella che chiama cassina, la cascina dove vive la sua famiglia a Campazzo di Pontevico, un piccolo borgo nella pianura padana. Chiede della crescita del grano e dello stato dei bachi da seta e affida a pagine intere i suoi saluti.
Di lui si conservano 43 lettere e 25 cartoline sgrammaticate. Le sue sono solo un caso della massa di carta che fu scritta da un esercito di semicolti. La necessità profonda di restare aggrappati ai propri affetti e a se stessi, e i tempi morti che la trincea concedeva, costringeva a scrivere soldati che erano per la metà contadini, scarsamente scolarizzati e semianalfabeti. Fabio Caffarena in Lettere dalla Grande Guerra (2005) riporta queste stime: durante gli anni della guerra due miliardi e 137 milioni di lettere partirono dal fronte verso casa, un miliardo e mezzo dal paese al fronte, 263 milioni di lettere tra soldati. Quasi quattro miliardi di lettere: la Prima guerra mondiale fu un esperimento di scrittura di massa. I soldati scriventi, estranei all’uso quotidiano della scrittura, tracciano i propri segni di sopravvivenza.
Apparentemente monotoni e somiglianti, quando non redatti su canovacci ricorrenti, questi documenti mimano l’oralità e le forme del discorso in presenza e, come ricorda l’antropologo Pietro Clemente, la difficoltà a padroneggiare dei codici li costringe a trovare una codificazione diversa: gli esiti sono talvolta inaspettati e singolari, perfino letterari, specialmente quando tendono a restituire un racconto scarno della guerra. Dalle lettere di un soldato scrivente, Francesco Ferrari – raccolte e studiate dallo storico Federico Croci – troviamo un curioso scarabocchio simile a una serie di m, un espediente grafico per sostituire le parole morte, trincea e guerra, e, in qualche modo, scrivere l’indicibile: “Pensieri non ceneò più e tutti i giorni si avvicina la……mmmmmm”. Anche il nostro Faustino Cominelli prova con una stentata sintassi dialettale:
Carissimi Gienitori, Con cuesta cuerra le (l’è) finouna Schiferia di non terminar mai pero speriamo he venga la fine di poter ritornare un cualhe giorno a casa tutti in sieme.
Eppure, come possiamo leggere, queste lettere restano fogli mal scritti, tutti pieni di errori. Il soldato scrivente divide le parole e scrive in sieme, unisce l’articolo al nome e scrive lindirisso (l’indirizzo) così come quando Totò dettava la lettera a Peppino in Totò, Peppino e… la malafemmina (1956) e diceva: “veniamo con questa mia a dirvi… addirvi, una parola: addirvi”. Lo scrivente individua la sua, propria grafia: scrive gienitori e ricievuto, cuale, cuatro, cuestanno. Non scrive la h per ho, ma la usa per ch: scrive he per che, e dunque anhe, perhe, cualhe. Alla lettura di queste carte ingiallite gli errori di ortografia sono immediatamente riconoscibili, mancano i punti, gli accenti, gli apostrofi. Ma le lettere non sono soltanto ortograficamente scorrette. Il soldato scrive “o ricievuto la vostra Cartolina il Cuale sento he siete tutti di buona Salute”, sbaglia i pronomi come “cuando ci (a lui) scrivete”, “digli ai miei compagni he mi scrivono”. I pronomi, i verbi, l’ordine della frase, sono errati. “Il zio Giuseppe lera meglio he fosse stato a una sesione (sezione) pesante”. Si moltiplicano i che: quando che, mentre che, dove che. Tutte le lettere dei semicolti riportano casi simili, errori ricorrenti.
Quali errori riconosciamo? E cosa riconosciamo come errore? Esiste una evidente distanza tra quello che leggiamo in queste carte, quanto diciamo o scriviamo abitualmente, quanto la scuola insegna. Eppure alcuni di questi errori si possono ancora riconoscere nel nostro parlare quotidiano, alle volte frequentissimi. “A me mi” è uno di questi, come il gergale “quando che”. Ma a tendere bene l’orecchio, proliferano nei nostri discorsi altri casi di questo famoso che polivalente: “in quel posto che ci siamo andati ieri”, un esempio che troviamo anche in queste lettere. Sono, in generale, deviazioni dalla norma che sanzioniamo con varia forza, ma che siamo anche soliti produrre, spesso senza rendercene conto. Di queste deviazioni, le lettere dei semicolti possono disegnare una parziale storia.
Errori di scritto, eterografie
Giovanni Minozzi, cappellano militare racconta in Ricordi di guerra (1956) che ai soldati “ogni foglio di carta da lettera, ogni cartolina, ogni matita apparivano tesori da fiaba”. Tesori da fiaba, questi documenti lo sono stati anche per lo studio della lingua. I carteggi, oltre che testimoni della resistenza umana e della necessità della scrittura, sono la traccia dell’impatto tra gli scriventi semicolti, che parlavano dialetto, e la lingua nazionale. Fu il linguista austriaco Leo Spitzer, primo a occuparsi di queste lettere in Lettere di prigionieri di guerra italiani: 1915-1918 (1921), a dire: “la lettera popolare non dà tanto un’immagine del dialetto quanto piuttosto della lotta del dialetto con la lingua scritta”. Allora giovane filologo, Spitzer era censore per conto del ministero della guerra austroungarico. Esaminava gli scritti dei prigionieri di guerra italiani per ragioni di stato, ma di quelli fece una raccolta, annotandone le peculiarità linguistiche. Nelle lettere – segnava – il dialetto-lingua madre è una rara emersione in superficie, è usato in pochi casi: chi abitualmente parla in dialetto non lo sa scrivere. Ma resta solido come lingua di partenza. Per gli scriventi la lingua target è invece quella appresa nei pochi anni di scuola, la lingua nobile: l’italiano, di più, l’italiano scritto.
Chi scrive, però, non sa scrivere. Allora plasma, anzitutto, la grafia ai suoni. Faustino Cominelli nella sua lingua madre non ha doppie e allora scrive sulla forma del dialetto, mama. Comprende d’altra parte che l’italiano scrive e pronuncia le doppie e allora a volte corregge sulla stessa riga, mamma, o scrive frattelllo, con tre elle – quello che si dice ipercorrettismo. Così – riporta Spitzer – gli italiani della Dalmazia scrivono in un italiano venetizzante con grafia serba: “Karo mijo fratelo Tefaco šapere kešon šano”. Sotto questa lente gli errori ortografici si ricompongono come ammassi di scritture autonome, che ogni scrivente si sforza di individuare con fragile regolarità. Lontane dall’ortografia, sono quelle che il linguista Iannaccaro ha chiamato eterografie.
Alcuni semicolti, sotto l’eterografia, nascondono persino la comprensione di regole linguistiche. Tullio Cavalli riporta il caso di uno scrivente che scrive pavese al posto di paese e duvello per duello. Come si spiega questa regolarità? Nel suo dialetto la v tra due vocali cade, mentre nell’equivalente italiano resta. Egli intuisce la differenza tra le due lingue e così se il dialetto dice paes lo scrivente ricostruisce la v e scrive pavese. C’è il caso di un altro soldato che nel proprio dialetto settentrionale non pronuncia le zeta e che allora distingue il carattere z per il suono sonoro di casa, “caza”, e il carattere s per il suono sordo di cassa, “casa”.
Questi errori ci riportano una traccia di come i semicolti pronunciassero il proprio italiano, spesso adeguandolo ai suoni del dialetto. Un incontro che si sviluppa agli inizi del Novecento e di cui oggi conserviamo in eredità le varietà locali di dire l’italiano. Nelle lettere persiste tuttavia la coscienza che una norma esiste: gli scriventi si scusano con i familiari del proprio “mal scritto”.
Errori di italiano, italiano popolare
Tullio De Mauro lo ha battezzato italiano popolare unitario. È la lingua delle classi subalterne, degli incolti che si appropriano del parlare e dello scrivere nazionale. Con la Prima guerra mondiale, lo scontro repentino si consuma nello spazio personale della lettera e nel contatto con soldati di tutta Italia, parlanti lingue altre. L’apprendimento personale di una lingua che era quasi straniera avviene per contatto col proprio dialetto, con altri dialetti e con le varietà formali dell’italiano. Dopotutto il mondo dei semicolti non era estraneo all’italiano scolastico e formale, all’italiano dei giornali e dei fogli di propaganda, dei bollettini di guerra. Una lingua comunque percepita come più prestigiosa e da apprendere.
“Cui e (qui è) sempre dietro a piovere” scrive Cominelli per dire “piove sempre”, traducendo un costrutto lombardo. Nelle ultime sue lettere cominciano invece ad apparire forme di passato remoto, sconosciute ai dialetti settentrionali e fin lì mai rintracciabili nel suo epistolario. Sono forme apprese forse per contatto con altri parlanti, forse per emulazione con forme percepite come di un italiano più aulico, forme storpiate e ricomprese.
Carissimi Gienitore, da cualhe giorno he aspettavo vostre notisie oggi stesso ricievette una vostra lettera.
È in questo movimento dal dialetto verso la lingua nazionale e viceversa, dalle varietà formali in giù, che si viene a costruire un italiano fortemente semplificato che ha forme spesso simili da Nord a Sud. Gli errori sono errori di apprendimento, risultato ancora di un impatto, varietà di un italiano che si sta imparando. Gli scriventi scrivono potiamo, mandono. Costruiscono per analogia o regolarizzano esattamente come si fa imparando una lingua straniera o una lingua da bambini: io ando. Semplificano sostituendo gli imperfetti ai congiuntivi, come il film con Paolo Villaggio, Io speriamo che me la cavo (1992). Sono tratti indipendenti dalla provenienza regionale degli scriventi, ma, secondo Gaetano Berruto, dipendono invece proprio dal retroterra e rivelano qualcosa di più: sono evoluzioni spontanee della lingua che i dialetti in forme diverse avevano già raggiunto, per così dire “iscritte nel programma”.
Chi può fare errori?
Se riuscissimo a pensare a una lingua in un certo momento del tempo come a uno complesso strato di roccia o di terra, sottoposto a contrazioni, erosioni, spostamenti e continue stratificazioni di materiale, allora gli errori di queste lettere sono tracce per archeologi. Sono segni di fondamenta, faglie di mutamento, a volte fughe in avanti poi non realizzate dalle varietà odierne di italiano. Eppure, se abbiamo un’idea di ciò che è giusto e sbagliato, ciò che è o non è grammaticale, siamo più soliti considerarli come retroguardie della lingua. Le regole esistono ed esistono, non scritte, pure nei dialetti che i semicolti parlavano. Ma una lingua nazionale dispone di una scuola e, come afferma Nicola Grandi in una raccolta di saggi proprio dal titolo La grammatica e l’errore (2015), la scuola esplicita la conoscenza di regole che in realtà utilizziamo da tempo. Impedisce da un lato la fuga di varietà locali, costruendo uno standard. Noi spesso, però, ci costruiamo così una percezione ingenua della lingua, quella del si dice o non si dice così.
Questa percezione è del tutto ribaltata dall’affermazione di Giorgio Cardona, secondo cui, nessun parlante commette errori nella propria lingua. Certo, esistono lapsus linguistici, sviste di cui ci accorgiamo, che riconosciamo immediatamente e autocorreggiamo. Ed esistono gli errori del semicolto, come l’errore del bambino o di chi impara una lingua straniera, errori che di fatto sono errori di apprendimento, errori che in verità seguono ‘regole’, regole costruite per astrazione a partire da un input, come i passati remoti ricostruiti del nostro scrivente. Sono regole di un proprio sistema linguistico. Il punto cruciale è che, scrive Grandi, queste non coincidono con quelle sviluppate dagli altri parlanti della stessa comunità. La regola e l’errore, dunque, stanno dentro la trama sociale della lingua e delle sue relazioni di potere. In una varietà informale si può dire “la ragazza che ci uscivo”, in una varietà formale di italiano si può dire “egli si reca”, in una varietà regionale “sono andato” nell’altra “andai”. Esistono registri e varietà socio-geografiche di una stessa lingua. Per dirla con Massimo Cerruti, se la variazione di registro è una dimensione più “costruita”, la varietà socio-geografica è intimamente connessa all’identità del parlante.
Gli errori stanno ai margini, di sopra e di sotto. “Questo piuttosto che quello”, nato come tratto settentrionale e di classi medioalte, è considerato errore nel grosso della penisola e tuttavia dilaga perché sentito come prestigioso. Viceversa, “a me mi” procede dai contesti meno formali e sorvegliati della lingua, verso l’alto.
Dove vanno a finire gli errori?
Il soldato scrivente, Faustino Cominelli, muore in un campo di prigionia ungherese. Di quel periodo restano due cartoline, spedite da un luogo dalla grafia improbabile, Ostffyasszonyfa. “Mandatemi del Pane e cualhe pahhetto di Sigarette Maciedonia”. Muore di febbri a guerra finita, restano le sue lettere sgrammaticate. Parte di questa sua lingua, alcune forme scritte dai semicolti sono rimaste lì, sparse tra tutte le carte, cristallizzazioni di un apprendimento personale in atto e così di un contatto interlinguistico tra lingue e persone. Sono fughe in avanti di un mutamento che avveniva sulla lingua nazionale, mosso dal sostrato dialettale, e per noi rimaste irrimediabilmente errori. Ma altri errori, altri fenomeni di questo processo di interferenza sono oggi parte di alcune varietà sociogeografiche di italiano, fatti che riconosciamo negli usi meno sorvegliati, da parte di fasce della popolazione abituate a vivere tra italiano e dialetto.
Infine altri errori ancora, tracce nelle lettere, sono oggi usi diffusi nelle varietà di italiano colloquiale, usi che siamo disposti o meno a riconoscere, come il che polivalente. Varietà colloquiali e peculiari di un luogo e lì accettate; odierni dialetti dell’italiano. Esattamente come sottolineava Edward Sapir quando diceva che non appena i vecchi dialetti sono cancellati da soluzioni di compromesso, o scacciati dalla diffusione e dall’influenza del dialetto culturalmente dominante, una nuova fioritura di dialetti fa la sua comparsa e distrugge l’opera di livellamento.
Eppure, notava Berruto, allargando lo sguardo ad altre lingue neolatine o persino all’italiano antico, questi tratti, innovativi rispetto alla norma, sembrano essere piuttosto una riemersione di fenomeni condivisi. “Egli” ed “ella”, che spesso leggiamo sui libri e che usiamo nello scritto più sorvegliato, sono sostituiti da “lui” e “lei” nelle lettere dei soldati e nel nostro parlare. Ma questo era un uso che già nel Quattrocento il grammatico e umanista Pietro Bembo stigmatizzava.
Se il controllo sociale si attenua, o il contatto linguistico costringe a misurarsi con altre varietà o altre lingue, può accadere che il rapporto tra errore e regola si inverta e che ciò che stava al margine, l’errore, diventi nuova regola. Lo si intravede sull’Appendix Probi, la lista di errori degli allievi con relative correzioni, redatta da un maestro attorno al 300 d.C.: calida, si scrive, non calda, columna non colomna, auctor non autor. Gli errori degli studenti sono però più simili a quelle che diventeranno le corrispettive forme nelle lingue neolatine. Sono storie di errori segnati e trascritti, che ci suggeriscono un’idea diversa di errore, come frontiera della lingua, là dove la lingua è messa in tensione e dove a volte muta, là dove più lingue o più varietà di una lingua entrano in contatto. Nelle lettere dei semicolti, sono impronte vive di una scrittura che tentava di essere conversazione a distanza e che dobbiamo riconsiderare, oggi che scritto e parlato tornano a mimetizzarsi con forza e con codici nuovi. L’ultima cartolina del soldato scrivente Faustino finisce così:
Altro non so he dirvi vi mando
I miei piu cari saluti tutti in famiglia
e anhe il babbo tutti i parenti e tutti gli altri
e sono vostro figlio Cominelli Faustino
Saluti e baci tutti in famiglia