“C ome operaio, come parte integrante della classe operaia cerco di cogliere, di guardare quotidianamente dentro alle contraddizioni, ai duri travagli, agli sforzi immensi che [la poesia] compie oggi nello scontro cruento col capitale. La poesia diventa così per me e per i miei compagni un momento di riflessione, di arresto per poi ripartire subito con più chiarezza, con più forza, […] parte viva della lotta che milioni di sfruttati, emarginati portano avanti nel mondo contro lo strapotere despota”.
Così scriveva nel 1975 Ferruccio Brugnaro, quarant’anni prima che il figlio Luigi, all’epoca adolescente, diventasse sindaco di Venezia; di tutte le città italiane, probabilmente la più sfiancata, vilipesa e castrata dallo “strapotere despota” del mercato. Il legame tra poesia e territorio, in un territorio così complesso come il triangolo tra Venezia (il miraggio nell’acqua), Padova (l’unica metropoli veneta) e Treviso (la cristallizzazione di un sentire), rimane un tema cruciale.
Un triangolo che Francesco Targhetta ha iniziato a esplorare con Perciò veniamo bene nelle fotografie, romanzo in versi sul precariato a Padova e dintorni, continuando con Le cose sono due, raccolta di poesie ambientate nella sua campagna trevigiana, fino ad arrivare a Le vite potenziali, un romanzo ambientato nella terraferma intraducibile, il mistero che si allarga da Porto Marghera allo sprawl di cui sono fatte Mestre e Marghera, e dopo di loro le periferie che poi sono paesi, le strade provinciali tra i campi. Ovvero, si perdoni la digressione, la terra che mi ha cresciuto.
Ogni giorno 55 milioni di italiani si caricano sulle spalle esistenze per lo più ignorate dai due centri di produzione culturale del Paese, Milano e Roma. Centri dai quali si irradiano, a cadenze più o meno regolari, apologie della vita di provincia che lasciano una scia di prima antropologia; l’esplorazione cattedratica all’ombra di un panama, nei casi più impavidi la trasferta nel borgo dove, guarda!, la gente non sembra così triste. Solo un po’.
La mia patria, che oggi viene chiamata Città metropolitana di Venezia, è la stessa di quasi un milione di persone che negli ultimi decenni non sono state ignorate da esperienze letterarie spesso diffuse dalle vampe acide di Porto Marghera. Un esempio, uno dei più luminosi dal dopoguerra, è l’eredità dell’operaio-poeta-attivista Brugnaro sr. Le mani che lavorano i polimeri sono le stesse che scrivono poesie:
L’ansia crescente | che minuto per minuto ti accompagna | e ti porta l’anima fuori | della vita, è la mia.
[…]
Dei miei compagni, di me, | non dimenticate, | tutto è stato aperto disteso come al sole.
[…]
Siamo pronti a soccombere | sino in fondo | senza alcun gesto di protesta.
Si è poi passati dalla resa degli operai a quella dei loro figli, gli impiegati, i rappresentanti, o agenti di commercio come uno dei protagonisti di Resoconto su reddito e salute (2002, Nuova Dimensione) di Igor De Marchi, poeta consigliatomi da Targhetta stesso in un’intervista del 2015 – una raccolta scritta nel dialetto di Vittorio Veneto (TV), a distanza di una mezz’ora d’auto che già la rende esotica nella campagna sotto Mestre:
al mal che no pasa | le stornère come de na giòstra | che te ride sempre manco | e no te pol smontar do.Il dolore che non cessa,
i capogiri come di una giostra
dove si ride sempre meno
e non si può scendere.
Poesie che si chiamano verso Chioggia o l’ingorgo di Mestre, dove l’io è bloccato in tangenziale ed empatizza con i maiali ingrumati nei camion, dove l’io si sente meno solo dondolato dal sesso delle coppie lì a qualche metro dalle pareti, sterile come i personaggi di Targhetta, stipati negli spazi riconvertiti di quella Porto Marghera dove la poesia di Brugnaro, secondo Zanzotto, “tende anche a far sentire che lo iato disumanizzante in cui operaio e fabbrica si trovano proiettati è appunto causato da strutture generate dalla mancanza di amore, […] assenza che maschera a sua volta i febbrili automatismi di un certo apparato socio-economico e insieme favorisce la dissoluzione della realtà in essi”.
Nella profezia di Zanzotto si anticipa la dissoluzione di tutto ciò che sembrava solido, i legami dell’impiego e degli affetti, i frammenti di un mondo del lavoro che tutto è tranne un rifugio d’amore – già solo stendere questa frase, purtroppo, si propone come esercizio di alienazione. Un mondo che negli anni Zero raccontavano in tempo reale i Poeti dell’A27, cioè De Marchi, Sebastiano Gatto e Giovanni Turra, così auto-definiti perché residenti lungo le uscite dell’autostrada che da Mestre porta a Belluno, una pista lucida che ricorda la Baviera. (Da L’apolide di Giovanni Turra: “Mio padre l’apolide, | gravato nel petto per l’angina, | ben conosceva tutti i duty-free | del Norico, della Pannonia.”)
Poi si è passati dalla resa dei primogeniti allo spaesamento dei loro fratelli minori, i cottimisti al computer, le menti nascoste nei feudi dell’e-commerce come la Albecom raccontata ne Le vite potenziali, dove si intrecciano le biografie di Alberto il presidente (o: CEO), Giorgio il commerciale (o: pre-sales) e Luciano il programmatore (o: developer). Da subito va riconosciuto un lavoro calcolato sulla lingua, come ci si può aspettare da un poeta, che qui riesce a ibridare l’italiano più alato al gergo d’agenzia (come per il Vietnam: solo chi ci è passato può capire davvero) al lessico della programmazione.
Quanti sono in Italia i romanzieri che parlano di codice? Java e Python non sono guarnizioni ma i piloni su cui regge l’Idea del libro, la compenetrazione di due piani – l’analogico e il digitale – che si manifesta a ogni livello dell’esistenza, ricablando il nostro stare al mondo.
Incrociò con lo sguardo un foglio A4 appeso a una colonna piena di foto e cartoline. Vi erano elencate, con tipico senso dell’umorismo nerd, le venti migliori scuse di un programmatore. Le aveva lette mille volte, ma si fermò a rileggerle: 1) ieri funzionava.
La prima scusa sembra l’epigrafe di una terra che, nelle giornate oblique almeno, sembra avere smesso di credere in se stessa. Chi si è arrogato il dovere di rappresentarla in politica, Brugnaro jr per primo, sembra essersi bloccato allo “ieri funzionava”. Si nasconde un bug. È una terra dove non c’è balance tra work e life, come lamenta Luciano, e non c’è equilibrio tra uomini e donne: la programmazione informatica poi, come campo di forze, amplifica il divario che si può creare tra i sessi, un divario più codificato rispetto alla città, ma non per questo sempre misogino o tradizionalista.
Alternative non ce n’erano, ma Alberto [il CEO di Albecom] nemmeno le voleva: accettava le battute sul culo di Patrizia, le interruzioni per giocare in massa a Call of Duty, le gare di rutti cercando di scandire i nomi dei competitors, le serate al pub lanciandosi le patatine. Molto meglio delle coltellate alle spalle, delle invidie sulle gerarchie, delle gare a rubarsi le amanti.
Le teste dei CEO non sono posti piacevoli certo, ma cosa si può aspettare Alberto, il ritratto della Responsabilità (“a vent’anni sapeva già compilare un 730”), da una schiatta di ragazzi arrivati a trent’anni vivendo in cameretta? Certe cose non si imparano su internet.
Tiziano [30+ anni] a scuola aveva acume, rapidità di pensiero, capacità di analisi, senso di responsabilità, umorismo. Perché era finito così male, a tenere corsi di informatica per conto di enti locali, ancora nella casa dei suoi, chiuso in cameretta con i poster dei Kyuss, a provare nuovi fraseggi prog?
Come se il fondale delle vite potenziali promesse dalla ricchezza, dall’intelligenza e dal presunto coraggio del Nordest di fine Novecento si fosse lentamente richiuso, intrappolando nei suoi lembi ragazzi come Tiziano o Matilde, e con loro una schiera di erasmus che da Musano di Trevignano si trasferiscono a Kreuzberg, e poi tornano indietro, nell’anossia, e su questi ritorni andrebbe scritto un altro libro. “Io mi arrangio a difendermi, pensava Alberto, sorretto da una protervia che talvolta diveniva hybris: io mi arrangio, ma altri soccombono”. Alberto Giorgio e Luciano cercano di arrangiarsi, sono tre biografie che andavano raccontate prima della loro estinzione, prima di una generazione di nativi digitali che cambierà il mondo alternando miracoli e tragedie, come ogni generazione. Raccontare lo sfasamento temporale del’e-commerce significa raccontare la sospensione delle loro vite, come quelle slide pallide sul muro che “stavano parlando del futuro, ma sembravano già parte del passato”. Gli scrittori, i fisici teorici e i depressi vivono fuori dal tempo. Stanno sulle sponde del fiume di ferro.
Insomma, Le vite potenziali restituisce a chi ne è escluso la vita di un uomo nella provincia veneta nel 2018, il suo tempo diviso tra Lavoro, pub fotocopiati e videogiochi invecchiati come i vini, o taverne allestite da sale prova, o il calcetto. Sì ci sono pagine in cui viene voglia di aprire una finestra e fare entrare un po’ d’aria, perché in provincia, lo dico per i potenziali 5-10 milioni di cittadini all’ascolto, c’è poco da fare, e se c’è da fare è sempre lo stesso, e se – come nel caso dei protagonisti – ti trovi a fare un lavoro che per annose e sconfortanti ragioni politiche e socio-economiche è ancora prettamente destinato a uomini, la tua visione del mondo – come si direbbe lontano dalla provincia – si restringe. Così si può almeno inquadrare la subalternità delle figure femminili nel libro, Paola che è la Moglie o la sicurezza – ma non per questo non si fa rispettare, Bea che è l’Amante o la libertà – ma non per questo non si diverte, Matilde che è la Ragazza Madre o l’abbandono – ma non per questo non respinge il primo uomo solo che passa.
L’uomo solo, fra tante cose strambe, il “coso con due gambe” di Gozzano, poeta da sempre stella polare di Targhetta. Gli uomini de Le vite potenziali sono dei cosi con due gambe che vagano da un progetto all’altro, persi nelle vie cattive di Porto Marghera, via dell’Azoto, via della Pila, via dell’Elettrotecnica. Nel romanzo Targhetta indica questi cosi, dandogli nome e sostanza, in un continuo lavorio di ricostruzione delle tre dimensioni di una storia schiacciata ai margini del Paese, tra la Schadenfreude di chi assiste alla rovina di Venezia senza muovere un dito e l’epica della Macroregione, del capannone, che come ogni epica canta una schiera di morti.
La letteratura non descrive la realtà, la trasfigura, la prefigura, la configura. Il 5 aprile, a una settimana dall’uscita de Le vite potenziali, ho visto Targhetta leggerne dei passi accompagnato da un fondale noise. Occupava l’unico angolo illuminato di un open space che ospita la stessa azienda raccontata dal romanzo, una realtà mestrina che si occupa di e-commerce, in continua crescita. La penombra si faceva più densa a ogni lettura. Venivano letti passaggi come
“L’e-commerce, ti spiego, si basa sulla delocalizzazione e sulla de-sincronizzazione, cioè: rende possibili acquisti immediati di oggetti lontani che non puoi avere tra le mani subito. Ti fa pagare all’istante, ma lasciandoti godere solo in un secondo momento di quanto hai comprato. […] E così accumuli ipotesi e opzioni di consumo, dicono, ammucchi potenzialità, mica altro, possibilità di esperienza, perché poi finisce quasi sempre che ti manca il tempo per godere davvero di quello che hai comprato, e allora si crea quel vuoto che ti spinge a comprare ancora, e intanto in cambio hai la sensazione di una vita ricca, una vita pronta a diventare più intensa, sempre sul punto di esplodere, di farsi più vasta e desiderabile. Vedi, noi diamo soprattutto questo, a prescindere dal prodotto specifico che vende il nostro cliente: diamo la sensazione di avere una vita che merita in continuazione, anzi, sempre di più, di essere vissuta. C’è di peggio, no?”
E mentre Targhetta leggeva i dipendenti si guardavano tra loro, sorridevano, si avvicinavano, alcuni annuivano.