L a prima cosa che salta all’occhio leggendo Le maestose rovine di Sferopoli, l’ultimo lavoro di Michele Mari nonché quarta raccolta di racconti dello scrittore milanese, è la varietà di soluzioni formali (dove per formali intendo soprattutto narrative) di cui si avvale questo breve libro. Mari non è solo uno stilista raffinatamente erudito ma anche, e forse soprattutto, un inesauribile poligrafo, uno sperimentatore (uno dei pochi rimasti, verrebbe da aggiungere, in Italia), ed è proprio nella dimensione breve che questa rigogliosa capacità inventiva si misura in tutta la sua estensione. La libertà espressiva con cui esplora forme e maniere sembrerebbe contraddire una paletta tematica invece molto più limitata, quella delle “ossessioni” dello scrittore, dei temi che non ha smesso di scandagliare ossessivamente, appunto, fin dal suo esordio nell’ormai lontana fine degli anni Ottanta. Ma a ben vedere (e come ha sottolineato lui stesso a più riprese) è più corretto l’inverso, vale a dire che proprio la fissazione su temi invariabili spinge lo scrittore alla continua variazione di modi e dei trattamenti. Non a caso uno dei racconti presenti nel libro prende il titolo dalle “Variazioni Goldberg” e si configura come una sorta di celebrazione di questo procedimento dalle vaste potenzialità generative, e meta-generative: perché la variazione può essere a sua volta variata (“Glenn Gould, pianista eccelso, variò le variazioni”).
Le cocciute rimostranze che lo scrittore sembra opporre a qualsiasi tentativo di spostarlo dal suo asse determinano la necessità di giocare con regole ogni volta nuove. E così, senza fare l’elenco di tutti i modelli da lui adottati nei libri passati, basterebbe scorrere quest’ultimo per trovarvi una proliferazione quasi compulsiva di invenzioni retoriche e narrative: racconti tradizionali in stile romanzesco, pezzi autobiografici diversamente declinati, biografie, allegorie, dialoghi, monologhi, scenette, il racconto epistolare, il falso storico, il centone e varie altre scritture “di seconda mano” (per usare la vecchia espressione di Compagnon), palinsesti, aforismi, allegorie, apologhi, e non credo di avere esaurito la lista. Non che simile proliferazione vada peraltro attribuita al carattere diacronico della raccolta, visto che solo una parte delle novelle qui presenti risalgono, presumibilmente, al passato (la più vecchia, tra le non inedite, è del 1995). È un tratto davvero peculiare di Mari quello di attingere sistematicamente, e con tutte le competenze del caso, al patrimonio delle forme letterarie senza alcuna soggezione nei confronti del passato per poi manipolarle, mescidarle, abbassarle con elementi più effimeri e moderni, in un’inesausta ruminazione ludica della tradizione, o meglio delle tradizioni.
Come se il modo più opportuno di rifarsi ai vecchi fasti fosse quello di un paradossale rispetto nella profanazione, di una serietà ironica. In uno dei racconti (ripescati da una pubblicazione minore), il leopardiano “Dialogo tra Leopold Mozart, Wolfgang Amadeus Mozart e un venditore di formaggi”, il gorgonzola (croconsuelo, nella versione di Gadda) viene ironicamente esaltato dal formaggiaio come “il punto di arrivo della tradizione e insieme la sua ironizzazione”. Tale ironizzazione, come ben sanno i lettori di Mari, non accompagna nessuna intenzione riduttiva: al contrario intensifica la dimensione patetica, e pateticamente nostalgica, da cui muove quel recupero del pregresso. L’ironia esprime l’ambiguità edipica dello scrittore di fronte ai suoi nobili predecessori: angoscia dell’influenza, ammirazione, provocazione, omaggio.
Se ai lettori di sempre piacerà ritrovare in questo libro la voce e il mondo dello scrittore, per i nuovi sarà un’ottima occasione di farsi un’idea del “catalogo” mariano.
La tensione tra gli opposti è spesso in Mari il meccanismo che accende la scrittura e la carica di una temperatura imprevista: l’artificiosità convive con la spontaneità, il vezzo con la tragedia, l’orgoglio con la vergogna, l’orrore con il sublime, la forma con l’informe, eccetera. Da questa dialettica derivano esplorazioni visionarie di stati di coscienza estremi, onirici, liminari, allucinati. La lettura inedita del panopticon (nel racconto “Panopticon”) è eseguita dalla parte del guardiano, colui che vive racchiuso nella torretta centrale per sorvegliare i detenuti, e si traduce in un’inquietante allegoria di un’identità scorporata, angosciosamente immersa in se stessa: “Non più visto da tempo immemorabile, non ho più viso: se mi imbattessi in me stesso non mi riconoscerei. Sono arretrato in me fino a perdere i miei contorni: nemmeno dei miei occhi ho coscienza perché tutto è rappresentazione mentale, sovranamente libera dai sensi. Loro, i novantanove reietti, sono in me, inscritti nella mia entelechia come larve oniriche, pallide modulazioni dell’essere”. Non mi sentirei di escludere che, in barba al carattere disimpegnato e iperletterario dello scrittore, sia possibile trovare in questa interpretazione idiosincratica del dispositivo benthamiano qualche discreto apporto alla biopolitica.
Se ai lettori di sempre piacerà ritrovare in questo libro la voce e il mondo dello scrittore, per i nuovi sarà un’ottima occasione di farsi un’idea del “catalogo” mariano: angosce infantili, orrori lovecraftiani, sociopatie e nevrosi plasticamente rappresentate da mostri interiori ed esteriori, fantasie di morte, ma anche fantasie linguistiche, etimologie bizzarre, glossolalie e linguaggi regressivi, scorci filosofici, preclusioni amorose e struggenti romanticismi. In tutto ciò, sempre presente, la tensione costante alla riflessione metaletteraria: cosa vuol dire scrivere, quale la sua origine, il suo senso. Tra i pezzi di bravura che merita menzionare metterei il primo racconto “Strada provinciale 921”, dove un testo apparentemente informativo, sul modello di una guida turistica, si trasforma (fin nei toponimi) nella rappresentazione agghiacciante di un malessere personale.
L’itinerario turistico conduce al disastro esistenziale, cosa che, incidentalmente, esprime bene un frequente rapporto di Mari con la lingua: la sua neutralità tecnica, retorica, piegata (anche brutalmente, con tutti gli effetti umoristici che ne derivano) al servizio dell’intimo. Come se la letteratura implicasse un certo disprezzo dei propri mezzi, una protesta dell’artista contro la necessità di avvalersi di uno strumento così eminentemente sociale come il linguaggio; o come se, al contrario, scrivere fosse l’ultima occasione per l’amaro solipsista di trovare un qualche legame con il resto dell’umanità:
Tornati da Senni Scalo, imboccare la SP 963 in direzione Guazzese, e rimanerci per ottocento chilometri attraverso le Lande Vetrate. Indispensabile un rifornimento a Calcinate Ustiario. Escursioni consigliate: nessuna. Subito dopo Bulicame, prendendo la meta-via 55, vi ritroverete soli con voi stessi senza poterlo sopportare.
Notevole anche il successivo “Argilla”: parabola pseudo-ebraica che narra di una competizione tra rabbini creatori di Golem, dove sembra di trovarsi di fronte a un Borges in versione pulp. Altro e ultimo pezzo di bravura da segnalare è il racconto intitolato “Oniroschediasmi” (già pubblicato in un volume di Humbolt insieme a disegni di Gianfranco Baruchello): tentativi di penetrazione del sogno (Goya, Füssli, Lovecraft, Kafka), esercizi spirituali, meditazione in forma diaristica sui rapporti del narratore con una dimensione onirica che si manifesta sotto forma di case, come una sorta di ars memoriae rinascimentale salvo che, a differenza di quella tecnica antica, colui che abita queste case, ovvero colui che le sogna, non sembra avere alcun controllo delle sue creazioni. Per la cronaca, ho cercato sul Mortara-Garavelli una spiegazione del titolo ma non ho trovato nulla. Qualche glossario di retorica e stilistica on line riporta il termine: “autoschediasma o autoschediasmo [s.m.]: costruzione evanescente basata su un’invenzione aneddotica”; oppure “Improvvisazione, affermazione non documentata con cui un grammatico o un biografo o un commentatore intende fornire la soluzione di un problema reale o immaginario”.
Unica piccola delusione del libro: quelle maestose rovine che, al contrario di quanto si aspetta il lettore, ammiriamo solo fugacemente in una svolta dell’itinerario turistico sopra citato (“Sulla sinistra, dopo il chilometro 1.087, le maestose rovine di Sferopoli con i loro bastioni colossali di mica a basalto (visita senza ritorno)”). È però anche questa, a ben vedere, solo l’ultima (o la prima) invenzione narrativa con cui l’autore, questo ingegnoso manipolatore, ci seduce e ci tiene avvinti al suo mondo: una falsa aspettativa, creata da una copertina che allude a una storia che nel libro non c’è, e che lo prolunga nello spazio di un’intertestualità immaginaria: uno spin-off, un altro libro possibile.