A l diciassettesimo minuto del documentario La chasse à l’amour (regia di Esther Hoffenberg, 2013), la filologa Catherine Viollet mostra con evidente emozione i manoscritti di Violette Leduc. Sono quaderni scolastici, dalle righe sottili con le pagine indurite e ingiallite dal tempo. Viollet sfoglia le pagine con delicatezza quasi stesse mettendo a nudo la pelle di Leduc e racconta come il rapporto nel lavoro di editing fatto da De Beauvoir a Leduc fosse più affine a quello tra compagne che a quello tra editor e scrittrice. “Le correzioni di De Beauvoir sono più dirette, alleggeriscono lo stile barocco di Leduc” dice Viollet facendo scivolare il dito sull’inchiostro nero usato da Simone, “Leduc scriveva sempre con l’inchiostro blu. Simone con quello nero, per questo che si possono riconoscere i vari interventi”. Ed è questo punto che mostra un dettaglio (per me) indimenticabile.
Simone suggerisce un cambiamento a Leduc “On me prennait pour l’ami de Sacks” (mi si scambiava per l’amico di Sacks). Leduc aggiunge il simbolo di inserzione e una gambetta alla parola ami, così da farla diventare amie. La grammatica tiene, l’articolo non è da cambiare, ma cosa nasconde quel cambio di ami in amie? Forse niente, perché l’amore di Leduc per De Beauvoir è noto, eppure in un piccolo tratto d’inchiostro raccoglie una passione lunga quasi una vita.
Amie è una parola polisemica, può descrivere l’amica, la compagna, l’amata, l’amante. È una parola che nel corso della storia ha protetto amori clandestini, ma che allo stesso tempo ha finito spesso per relegarli all’invisibilità, in quella sisterhood che è esperienza radicale e resiliente, ma anche a tratti castrante. Quanta invisibile ambiguità si cela in un titolo come L’amica geniale? Quanto questa ambiguità garantisce l’imporsi di una lettura dominante sulle relazioni tra i personaggi? E se il primo romanzo della quadrilogia di Ferrante si fosse intitolato L’amante geniale? Che letture della relazione tra Lila ed Elena si sarebbero imposte? È davvero necessario che sia intercorsa un’esperienza fisica perché si possa parlare d’amore? Quanti dei romanzi contemporanei che raccontano “amicizie straordinarie” sono in realtà straordinarie storie d’amore?
Ma il punto qui non è fare polemica, anche se è innegabile che la nostra società soffra ancora un certa difficoltà nell’accogliere confortevolmente rapporti che non rientrano nella categoria di relazioni eterosessuali, fisiche e nucleari. Il punto è piuttosto vedere quante storie sono sotto i nostri occhi, scritte e incise sulla carta come messaggi segreti, destinati a chi abbia la pazienza e il desiderio di andare oltre il segno vergato sulla pagina. E soprattutto vedere come l’atto della scrittura possa esso stesso essere una manifestazione di questo amore più ampio. Potrei raccontare questa storia in modi infiniti, portando a sua evidenza infiniti esempi, ma per amore di sintesi lo farò in tre passi: Virginia Woolf, Carson McCullers, Simone De Beauvoir.
Virginia Woolf ha scritto il suo amore per Vita Sackville-West in due modi: nelle lettere e in un romanzo, Orlando.
Che Orlando sia Vita lo sappiamo, dal testo, attraverso due dettagli: una dedica e una foto di Orlando-Vita a fine libro. Non serve richiamare la teoria della fotografia per capire che un personaggio di finzione possa difficilmente lasciare una traccia sui sali d’argento. La fusione tra mondo diegetico (quello del romanzo) ed extra-diegetico (quello dell’autrice) avviene magicamente attraverso una breve didascalia: “Orlando on her return to England”.
Vita, destinataria dell’opera, si incarna attraverso la fotografia in Orlando e attraverso Orlando Virginia libera il suo desiderio. Come scrive nelle lettere: “Stasera Orlando mi eccita: stesa accanto al fuoco, scrivo l’ultimo capitolo”. E ancora:
Ma senti, supponi che Orlando si riveli essere Vita e che sia tutto su di te e la lussuria della tua carne e la seduzione della tua mente (il cuore non ce l’hai, tu che t’intrattieni nei vialetti con la Campbell) – supponi che ci sia quel luccichio della realtà che talvolta emana dai miei personaggi, come la lucentezza dell’ostrica – ti secca? Di’ sì o no.
(Scrivi sempre a mezzanotte. Lettere d’amore e desiderio, Donzelli Editore, 2019, a cura di Elena Munafò, trad. Nadia Fusini e Sara de Simone)
Se questi estratti non necessitano di commento e mostrano in maniera esplicita il rapporto consustanziale tra scrittura e vita per Virginia, non bisogna dimenticare che le lettere che le contengono sono state pubblicate solo negli anni settanta e che prima di allora, questo amore è stato vissuto solo negli inutili pettegolezzi di corridoio, quasi che il pettegolezzo fosse l’unico genere letterario appropriato ad una tale relazione, quasi fosse un succoso aneddoto sulla vita di Virginia: che avesse amato più persone, e di più generi. Come se questo la rendesse eccezionale, un po’ “speciale”. Ma eccezionale rispetto a cosa? Evidentemente rispetto a una norma che pretende di vedere nella parola amica un solo significato.
My darling, my beloved, my dearest creature. Mia cara.
Se la scrittura dell’amore da parte di Virginia è esplicita, più complicata è quella di Carson McCullers, che però grazie al lavoro di Jane Shapland viene alla luce in My Autobiography of Carson McCullers: A Memoir (Tin House, 2020, inedito in Italia). Spesso considerata, alla stregua di Flannery O’Connor, come una delle esponenti del southern gothic americano, Carson McCullers (1917-1967) visse la maggior parte della sua vita tra la Georgia e New York. Amica di Tennesse Williams e Truman Capote, raggiunse il successo con Il cuore è un cacciatore solitario nel 1940, a cui seguirono una serie di altri romanzi di più o meno di successo, tra cui La ballata del caffè triste, su cui ritorneremo.
Shapland è una tirocinante di un piccolo archivio universitario a Columbus (Georgia), quando nel riordinare l’archivio McCullers si imbatte nella trascrizione di una sessione terapeutica con la psicologa Mary Mercer in cui Carson racconta di quando il marito Reeve le chiese se per caso fosse lesbica (erano sposati da poco e Carson aveva 19 anni), domanda a cui Carson, dopo un silenzio imbarazzato rispose negando. È questo il punto di partenza per Shapland per un’indagine tra le lettere e i romanzi di Carson per capire se ci sia traccia di questo amore.
Naturalmente troverà le tracce, ma soprattutto ritroverà se stessa, tanto da far sì che quella che era nata come una ricerca storica finisca per diventare una autobiography (strizzatina d’occhio ad Autobiografia di Alice B. Toklas) e che il close reading dell’opera di Carson diventi il close reading della propria vita.
Di certo le storie sulle sue relazioni con le donne sono parziali, difficili da compilare. Per ricostruirle devi leggerle dal punto di vista di una persona queer, ovvero dal punto di vista di una persona che sa cosa significa vivere la propria sessualità in maniera nascosta e che è in grado di percepire i riflessi della propria esperienza nei posti più improbabili.
Ci sono molti modi di interpretare una vita. E se scegliessimo semplicemente lo scenario più probabile, la via più semplice, invece di cercare di negare l’ovvio? [trad. dell’autrice]
Shapland parte dalle trascrizioni delle sedute con la psicologa (che sarebbe stata l’amante di lunga data di McCullers), attraversa le lettere di Annemarie Schwarzenbach (a cui mancano le risposte di Carson), e arriva ai racconti e romanzi. Ed è qui che con lo stesso amore che Viollet mette nello sfogliare i manoscritti di Leduc spacchetta i romanzi come archivi preziosi, li legge con empatia e attenzione fino a trovare chiara di fronte a lei l’evidenza: in tutti i testi, da Ballata del caffé triste a Riflessi in un occhio d’oro e Invito a nozze, negli amori impossibili delle protagoniste per personaggi storpi o emarginati sociali si inscrive l’amore di Carson per le donne della sua vita.
Miss Amelia amava il cugino Lymon. Fin qui la cosa era chiara a tutti. Vivevano nella stessa casa e nessuno li vedeva mai separati. Stando alla signora MacPhail […], stando a lei e a certi altri, i due vivevano nel peccato. […] La brava gente invece pensava che se quei due avevano trovato insieme una soddisfazione della carne, la cosa non riguardava che loro e il Padreterno. […] Di che sorta era dunque questo amore?
Prima di tutto l’amore è un’esperienza comune tra due persone; ma l’essere un’esperienza comune non significa che sia simile. C’è chi ama e chi si lascia amare: due persone che vengono da regioni diverse. Spesso l’amato rappresenta solo lo stimolo per tutto l’amore represso che, fino a oggi e per tanto tempo ha atteso l’appello. E ogni amante in certo modo lo sa. In cuor suo sente che il proprio amore è solitario. Arriva così a conoscere una nuova, singolare solitudine ed è questa consapevolezza a farlo soffrire. Per lui ormai c’è una sola cosa da fare: albergare dentro di sé il proprio amore come meglio può, creargli un intero, nuovo mondo interiore, un mondo strano e intenso, completo in sé.
[La ballata del caffè triste, Einaudi, 2013, trad. Franca Cancogni]
Il lavoro filologico di Shapland, dicevamo, parte dalle lettere e dagli archivi, parte dalla vita ed entra nella scrittura, sonda gli spazi tra le parole, i silenzi, entra negli interstizi e mostra l’evidente, mostra che la scrittura si nutre della vita, che oltre ogni singola parola che leggiamo sulla carta si nascondono infiniti frammenti di una vita perché “nella finzione, come nel memoir, è impossibile rivelare interamente il proprio sé, come impossibile è non rivelarne almeno un po’”.
Anche Simone de Beauvoir ha scritto il suo amore in un romanzo, autobiografico e uscito postumo (il 7 Ottobre 2020): Les inséparables (Le inseparabili, Ponte alle Grazie, 2020, trad. Isabella Mattazzi). Di Zaza, altrimenti conosciuta come Elisabeth Lacoin, Simone aveva scritto brevemente in Memorie di una ragazza perbene, ma solo accennando alla loro amicizia. L’aveva incontrata a dieci anni e per molti anni, fino alla morte tragica a ventidue anni, l’aveva amata, nonostante le due nel frattempo frequentassero Merleau Ponty e Sartre. Come racconta Sylvie Le Bon de Beauvoir nell’introduzione a Les inséparables, Simone si era innamorata di Zaza sin dal loro primo incontro – “il suo sentimento era appassionato, la venerava, tremava all’idea di non piacerle. Nella patetica vulnerabilità dell’infanzia, Simone non si rendeva conto di essere stata colpita da una tale e precoce rivelazione […] Che cos’era d’altra parte quel sentimento innominato che sotto l’etichetta convenzionale di amicizia le prendeva il cuore con meraviglia e inquietudine se non l’amore?” [trad. dell’autrice].
La morte improvvisa di Zaza tormenta lungamente Simone tanto da indurla a cercare di iscriverne la storia più volte e senza troppo successo nelle sue opere. Solo nel 1954 riesce a dedicarle un intero romanzo, pur utilizzando nomi fittizi per celare le identità.
Il gossip letterario vuole che Sartre avesse letto il manoscritto e trovandolo imperfetto ne avesse sconsigliato la pubblicazione, indicazione che Beauvoir avrebbe seguito pur decidendo di conservarne una copia dattiloscritta. Non ci vuole molto perché questo aneddoto sia letto come una forma di censura dell’amore lesbico e come un chiaro esempio di dominazione patriarcale ed eteronormativa sulla vita di de Beauvoir. Lo dice chiaramente (e militarmente) Paul B. Preciado dalle pagine di Libération (e Internazionale, in Italia) chiedendosi “se davvero non voleva che fosse pubblicato, allora perché ha battuto il romanzo a macchina, con estrema cura, anziché distruggerlo?”. Per poi aggiungere, “qual è il rapporto, per Simone de Beauvoir, tra il flusso di parole e il silenzio, tra la scrittura e il controllo, tra l’archivio e la censura?”
La domanda che si pone Preciado è quella che dovremmo farci di fronte ad ognuna delle storie raccontate fin qui. Qual è il rapporto tra scrittura e controllo, tra archivio e censura, in Virginia Woolf, McCullers, Leduc e de Beauvoir? E come si manifestano il controllo e la censura? Spesso lo fanno nel modo più semplice: sovrascrivendo. Sovrascrivendo una vita come è stato per tanti anni nel caso di Virginia con le biografie ufficiali che le hanno tolto l’agency di soggetto desiderante per trattare il suo amore per Vita come un frivolo gossip. Lo hanno fatto gli editori e i detentori dei diritti delle opere non lasciando che certi lavori vedessero la luce perché scandalosi, come è stato il caso della psicologa di McCullers, Mary Mercer, che come racconta Shapland ha impedito che si sapesse della loro storia. Ma lo si fa anche ogni giorno preferendo slittamenti semantici che normalizzano le esperienze, relegando i sentimenti al silenzio con un semplice occhiolino d’intesa. Come dice Preciado a chiusura dell’articolo a proposito dell’introduzione di Sylvie Le Bon de Beauvoir che, pur parlando di amore, definisce quella tra Simone e Zaza “una grande ed enigmatica amicizia”: “No, non era un’amicizia. Era un amore lesbico.”
Dovremmo imparare ad avere la cura dei filologi, a vedere una storia intera nella gambetta di una vocale. Dovremmo imparare ad abbandonare il dizionario che normalizza il pensiero e a liberare le parole da significati socialmente imposti. Dovremmo fare come Monique Wittig e Sande Zeig in Appunti per un dizionario delle amanti (Meltemi, 2020, traduzione e cura di Onna Pas), cioè riprendere i termini che ci stanno a cuore e reimmaginarli, liberarli dal significato che gli hanno imposto “chi ci governa” perché come scrive Anne F. Garréta nell’introduzione agli Appunti:
i libri che si sforzano di raccogliere la lingua e il mondo sotto forma di collezione (dizionari, enciclopedie, antologie ecc.) non fanno altro che disporre di lacune al fine di far sparire quello che offusca o disturba il corso delle storie che il nostro governo racconta. Un dizionario, un’antologia recensiscono per censurare meglio; la raccolta delle descrizioni (del mondo, della lingua, della storia, delle opere) equivale a una iscrizione e a una istituzione; la direzione degli usi e dei valori così stabiliti prende forza di norma, le litoti preservano la forza delle origini; le elezioni svolgono canonizzazioni; le elisioni organizzano l’invisibilità.
E allora buona lettura mon amie, my dear friend, mia cara.