I n una lunga chiacchierata/intervista che gli feci quasi vent’anni fa Sandro Veronesi spiegava la sua vocazione al romanzo e la sua idea della letteratura. Di fatto, scrivere – l’arte, si può dire – è una forma di resistenza nei confronti del dolore, della valanga di merda che spesso mentre viviamo siamo costretti ad affrontare. Per chiarirla usava una serie di immagini. La prima era la distinzione, che faceva propria, di Carmelo Bene tra professionisti e dilettanti. Leggiamo questa lunga citazione:
“Io mi sento di poter dire che quando soffrono, i professionisti, smettono di scrivere, e i dilettanti si mettono a scrivere. Ovviamente alle volte ci son momentacci in cui si produce proprio un vento contro, doloroso. Allora lì il professionista – e non vuol dire che il professionista viene pagato, il professionista alla fine verrà pagato, per forza: è un professionista – ma il professionista questa cosa non la tocca: questa roba è la mia vita, è la mia professione addirittura, se perdo questo perdo tutto. Il professionista lì si ferma, lotta con questo vento, risolve, per quel che può, o vi è travolto, se non riesce a risolvere i problemi, poi, dopo, quando questo momentaccio è passato, scrive. Il dilettante, invece, bum, subito prende questo flusso di merda che gli arriva addosso, e, per terapia, per consolarsi, per reggere meglio l’urto e illudendosi addirittura che questo nobiliti il suo gesto, scrive. In quel modo tu dai un imprinting alla tua natura di scrittore che non ti rappresenta. E ti porti appresso, anzi addirittura ci lavori… è come lavorare con una penna con un macigno sopra e scrivere con ‘sto macigno. Ti porti dietro questo ingombro addirittura nella pagina, addirittura dai alla pagina che scrivi, e che chissà perché io dovrei leggere, gli dai addirittura il compito di guarirti, di farti star meglio, di lenire il tuo dolore, alla scrittura o all’arte, diciamo, terapeutica”.
E poi: “L’arte terapeutica c’è: è per i dilettanti, quelli che oggi lo fanno e domani non possono più farlo perché hanno vinto il concorso alle poste e non possono più scrivere, più recitare, più dipingere. Allora sì: scrivete quando state male. Se il vostro approccio alla letteratura è di tipo dilettantistico, ma ripeto… ci sono dei dilettanti straordinari in questo senso qua, proprio per la freschezza, la prontezza con cui trasferiscono nella loro arte quello che stanno vivendo. Il professionista si protegge, perché si deve proteggere, perché è oggi, è domani, dopodomani, è sempre. Non puoi permetterti di caricare su un momento molto difficile tutto lo stress che consegue a un lavoro letterario. Perché, ok, scrivi, ti alleggerisci del peso perché l’hai trasformato in scrittura, l’hai trasformato in una storia, ti sei preso le tue rivincite, hai mescolato le cose – come diceva Sartre: «la letteratura è dove chi perde vince» – chi perde vince, e uno già sta meglio. Te lo puoi permettere dopo quello che stavi passando mentre scrivevi, quello che stai forse ancora passando, con una speranza aggrappata a questo manoscritto – te la puoi permettere tutta l’altra merda che ti arriva per il fatto che hai scritto? O ti spazza via?”.
La storia biografica di Veronesi, almeno quella che condivide in pubblico, la storia biografica che svela di aver trasfigurato nei romanzi, spesso è assomigliata a questa autoprofezia; questa mantica è padroneggiata a tal punto da essere dichiarata nel suo racconto, Profezia, che sembra una matrice del suo ultimo romanzo. Molto spesso, viene da dire, naturalmente, ci assomigliano anche le storie dei suoi libri.
Di Sandro Veronesi ho letto per intero dodici libri: Per dove parte questo treno allegro, Venite venite B52, Gli sfiorati, Caos calmo, Superalbo, Brucia Troia, XY, Il Vangelo di Marco, Baci Scagliati Altrove, La forza del passato, Terre rare; nel mucchio ci sono libri splendidi, la maggior parte, altri meno riusciti, pochi, il che mi fa effettivamente arrivare a sostenere che Veronesi è uno dei migliori romanzieri italiani viventi, uno dei più indiscutibilmente bravi, con più strumenti, più dotato, più attrezzato.
Da circa un mese è la Nave di Teseo ha pubblicato Il colibrì, che sta riscuotendo plausi unanimi, spesso sperticati, ed è effettivamente un romanzo notevolissimo, con qualche limite, anche questo tipico di Veronesi; del resto i romanzi perfetti non esistono, e i migliori romanzi sono quelli pieni di imperfezioni. Come sintetizza bene Alessandro Piperno sul Corriere di qualche settimana fa, gli inizi di vari suoi romanzi hanno una matrice:
C’è un tizio (di solito un borghese di origini toscane, belloccio, ammodo, benestante, ingenuo, fragile, irreprensibile, professionalmente e sentimentalmente soddisfatto) che un giorno, nel mezzo della sua bella prospera vita, va a sbattere il muso su una verità che. non solo manda in frantumi ogni cosa ma che lo induce a rivedere e rettificare il giudizio fin troppo benevolo che fin lì ha voluto dare di sé e dei suoi cari.
Per esempio, Ennio Miraglia, Gianni Orzan, Pietro Paladini, Marco Carrera (i protagonisti di Venite venite B52, La forza del passato, Caos calmo, Terre rare e Il colibrì) sono fratelli: hanno avuto un’infanzia felice, spesso vagheggiata da loro stessi adulti, hanno raggiunto una posizione invidiabile dal punto di vista professionale, e ora all’improvviso, gli succede un vero casino, un casino complicatissimo: non è tanto la scoperta del tradimento della moglie amata (nel Colibrì) o la sua morte (in Caos calmo), quanto il passato che con la sua forza di slavina li travolge lasciandogli al massimo un coccio per grattarsi la testa. Ma al contrario di Giobbe, questo personaggio seriale di Veronesi, il suo Zuckerman anche se multinimico, non sfoga la rabbia per la mole delle sorti avverse: in Terre rare in un solo colpo all’inizio Pietro Paladini perde i documenti e il lavoro, mentre sua figlia scappa di casa.
Marco Carrera, detto il Colibrì, non solo non deraglia sotto il peso dei dolori schiaccianti, ma tiene botta, resiste, applica una strategia zen di sopravvivenza, un’attitudine che persino nella bandella viene definita con il brutto lemma di resilienza. Come ribadisce quel motto di Samuel Beckett, lo stesso identico, che Veronesi appone come epigrafe ai suoi libri, compreso Il colibrì: Non posso continuare. Continuerò. Il colibrì è la storia di questa tenuta, come lo era Caos calmo. Con il suo premio Strega, condivide anche la decisione di descrivere il movimento del romanzo scegliendo un punto fisso: la tempesta si può raccontare solo stando nell’occhio del ciclone.
Nella prima scena arriva un angelo travestito da psicanalista della moglie, il dottor Carradori, e annuncia – fuori da qualunque deontologia professionale – al protagonista Marco, il disastro, il tradimento della moglie Marina che evocherà e darà la stura a tutte le altre tragedie: una serie di morti, di epifanie nere, di atti mancati, di amori struggenti e forse completamente sbagliati, a cui Carrera, quasi imprevedibilmente per sé stesso sopravvivrà, in una condizione che lo fa essere orfano da ogni parte, degli affetti familiari più stretti, di amici, di persone a cui potersi affidare, a parte – anche qui imprevedibilmente – l’angelo psicanalista.
Il colibrì è il soprannome-amuleto che serve a Marco Carrera a resistere, ma che anche lo condanna al suo destino. Affibbiatoglielo da bambino perché ha una struttura gracile, a causa un problema con l’ormone della crescita, gli nasconde il karma della sua esistenza: la sua impossibilità di diventare adulto. Il romanzo di Veronesi ha questo di veramente tragico: nonostante la cornucopia di sventure che contempla, non si trasforma mai in un romanzo di formazione, nessun dramma segna il solco di una linea d’ombra.
Nel disastro del contemporaneo, l’unico compito che abbiamo è riuscire a garantire la sopravvivenza di una nuova generazione migliore della nostra.
Veronesi con Il colibrì è diventato davvero il cantore perfetto di una generazione adulta a cavallo tra i due secoli che ha completamente mancato le possibilità di trasformare l’Italia, che è diventata inerte o complice. Nei romanzi precedenti aveva per i suoi coetanei una specie di strana forma di pietas, ma anche di fascinazione, Orzan, Paladini, Miraglia sono personaggi che poco si rendono conto di come la loro miopia sia stata colpevole; sono simpatiche canaglie che provano a cavarsela tra deflagranti casini personali e pubblici. Per Carrera quella possibilità è andata, non c’è più tempo né occasione di riparare.
Veronesi è talmente consapevole di questa visione morale da tradurla in struttura narrativa: come per Pietro Paladini era l’amore per la figlia a farlo restare assicurato al mondo, essere ancora, nonostante tutto, un essere sociale; qui l’ancoraggio per Marco Carrera è incarnato dalla nipote, Mirijian, un personaggio a cui viene attribuito un nome e un ruolo messianico: lei è letteralmente l’uomo del futuro. Nel disastro del contemporaneo, in questo passaggio che ha allungato fuori misura il secolo breve, l’unico compito che abbiamo è riuscire a garantire la sopravvivenza di una nuova generazione migliore della nostra. Ma questa sopravvivenza, al contrario che per Paladini, avrà come contraccambio, la nostra estinzione.
Per questo – l’hanno notato diverse recensioni, tra cui l’ultima di Gianluigi Simonetti sul Sole 24 ore – l’andamento del romanzo è quasi diviso in due. Una lunga prima parte ripercorre, come è negli altri romanzi di Veronesi, il tentativo picaresco di nuotare nella burrasca. Ha il ritmo di un libro di avventura: Veronesi è bravissimo a anticipare e eludere, a lasciare ganci narrativi che riprende anche dopo duecento pagine, a usare le incidentali per rendere tanto le vicende quanto i flussi mentali dei protagonisti delle digressioni, letteralmente dei divertimenti.
La seconda parte è una resa; non solo soltanto i fili annodati e lacerati si sciolgono e si riallacciano, ma il tono della narrazione perde il ritmo adrenalinico per diventare quasi elegiaco. È un codice che Veronesi non ha praticamente mai usato nei suoi testi narrativi, tranne in un paio di bellissimi racconti di Baci scagliati altrove (il già citato Profezia) in cui si anticipa il tema della malattia, della vecchiaia e della morte, come cifre inedite: di fatto fino a BSA i personaggi di Veronesi sono tutti a loro modo giovani, in grado di giocarsi un’ulteriore chance.
Questa trasformazione autoriale a Veronesi riesce bene (l’impronta che si riconosce è quella della narrativa americana degli ultimi anni che ha lavorato molto sul grief memoir: da Rick Moody a Joan Didion), anche se sicuramente il suo talento sconfinato lo troviamo risplendere di più quando deve raccontare gli elementi terrenamente irrazionali, più che quelli trascendenti e spirituali. Il personaggio di Duccio Chilleri, amico di gioventù, giocatore incallito, con la fama di portaiella, ombra junghiana del Colibrì, è per esempio un piccolo capolavoro.
Sono meno convincenti le (poche) parti più esplicitamente politiche, dove ogni tanto affiora (poco, per fortuna) il ruolo da intellettuale pubblico che Veronesi ha incarnato negli ultimi anni, esponendosi in prima persona a per difendere le ong del Mediterraneo o in una contrapposizione frontale al degrado delle destre.
Veronesi è uno dei migliori romanzieri italiani viventi, uno dei più indiscutibilmente bravi, con più strumenti, più dotato, più attrezzato.
C’è un’altra questione su cui chi legge Il colibrì non può non convenire: ha ancora senso in Italia il romanzo borghese? La risposta è ovviamente sì. La narrativa di Veronesi deve alla generazione di Moravia e Flaiano, La Capria e Siciliano l’idea che questo tipo di dispositivo sia il mezzo più adatto per raccontare il mondo dei vizi privati e delle pubbliche virtù. In un canone letterario abbastanza ostile al romanzo come quello italiano, i personaggi che più sono riusciti a raccontare un codice condiviso sono quelli che hanno incarnato un rapporto dialettico con il loro essere borghesi: borghesi piccoli piccoli, ceto medio impoverito, parvenu, arricchiti. L’Italia è questa nel canone italiano dagli anni cinquanta in poi; la commedia all’italiana ne ha tratto un immaginario ormai leggendario e storicizzato; Nuovi argomenti – di cui Sandro Veronesi è stato segretario di redazione negli anni ottanta – è stata la rivista che ha passato di decennio in decennio il testimone in questa tradizione (oggi nella direzione ci sono Dacia Maraini, Giorgio Van Straten, Leonardo Colombati, Alessandro Piperno, Raffaele Manica e Lorenzo Pavolini).
Quello che si vorrebbe chiedere a Veronesi è forse un azzardo: perché non usare le capacità del romanzo borghese per raccontare anche quello che sta fuori dai confini dell’ormai sempre più lacerata e caricaturale borghesia italiana? Se Orzan-Miraglia-Paladini-Carrera sono la Madame Bovary, possiamo aspettarci che il prossimo romanzo abbia un Jean Valjean come protagonista? Ossia?
Beh, per esempio qualcuno che quando il un mondo va in crisi perda davvero tutto tutto, compresa la possibilità di rifarsi. Altrimenti resta la piccola impressione per cui questo meraviglioso gioco al massacro che Veronesi fa con i suoi personaggi non preveda mai la mossa finale. Marco Carrera come Pietro Paladini perde in un istante tutte le certezze, ma questo non lo spinge davvero fino alla fine dell’abisso: paventa di suicidarsi, ma non perde il lavoro, non diventa – nonostante tutto – un drop-out.
Da ultimo: se uno scrittore italiano vuole imparare a scrivere, deve leggere Veronesi. Il colibrì, oltre a essere un romanzo coinvolgente e commovente, è un manuale di scrittura. L’uso dei tempi verbali è semplicemente ammirevole, i dialoghi sono sticomitie oliatissime, l’uso delle anafore è magistrale, e più di tutto la sapienza sulle ellissi è tanto calibrata da poter generare solo incanto, una suspension of belief sempre più rara quando ci si mette con un libro davanti.