“I
l letto, mio caro, è tutta la nostra vita. Qui si nasce, qui si ama, qui si muore”: sono le parole della protagonista di un breve racconto di Maupassant del 1882 che s’intitola, per l’appunto, Il letto. La donna, di cui non conosciamo e non conosceremo il nome, è allettata da giorni e descrive così in una lettera al suo amante, l’abate d’Argencé, quel tempo di degenza obbligata:
Mio caro amico, sono malata, soffro veramente, non posso lasciare il letto. La pioggia batte contro i vetri e io me ne sto a fantasticare languidamente al caldo, nel tepore dei piumini. Ho qui un libro che amo e che mi sembra fatto con un poco di me stessa. Devo dirvi quale? No. Mi rimproverereste. Poi, dopo aver letto un po’, mi metto a pensare, e voglio dirvi a cosa. Dato che da tre giorni sono a letto, penso proprio al mio letto, e persino nel sonno continuo a pensarci. Se solo possedessi la penna di Crébillon, scriverei proprio la storia di un letto.
Costretta a trascorrere il suo tempo distesa, la donna fantastica, legge, scrive lettere, pensa. E pensa proprio al giaciglio che la accoglie, e ci pensa così intensamente che perfino mentre dorme il letto – quel letto – diviene il pensiero fisso delle sue giornate. Oh, se solo avesse il talento di un grande scrittore come Crébillon! Ma no, è soltanto una donna, senza nome né (apparentemente) talento. Una donna malata, che pensa al suo letto, mentre è a letto. Quasi cinquant’anni dopo – è il 7 gennaio del 1926 – un’altra donna, con un nome e un talento, scrive una lettera alla sua amante, in quei giorni costretta a letto per una breve malattia: “Solo per chiederti come stai – hai la febbre? 38? 39? 40? Non ti senti bene? Mezzo addormentata sorseggi il tè, mangiucchi una fetta di pane tostato, e poi verso sera ritorni luminosa e remota e irresponsabile distesa nel tuo baldacchino come un minuscolo chicco nel guscio?”. L’amante ammalata risponde: “Sei un angelo ad avere scritto. E mi piace il tuo atteggiamento nei confronti della malattia: ‘luminosa e remota’, quando la maggior parte delle persone avrebbe detto ‘calda e appiccicaticcia’”.
Nessuno più di chi le ha scritto quelle parole, ovvero Virginia Woolf, è capace di raccontare la malattia in modo così diverso, originale, inconsueto.
Già, Vita Sackville-West – l’amante ammalata – ha proprio ragione: nessuno più di chi le ha scritto quelle parole, ovvero Virginia Woolf, è capace di raccontare la malattia in modo così diverso, originale, inconsueto. A testimoniarlo, appena qualche giorno dopo quello scambio di lettere, è il breve e indimenticabile saggio On Being Ill, Dell’essere malati, pubblicato per la prima volta proprio sul numero del gennaio 1926 della rivista “New Criterion”, diretta da T.S. Eliot. In Dell’essere malati, Woolf riflette – e ci fa riflettere – su come il fatto di essere costretti a letto da una malattia non sia sempre, non sia solo, una sciagura. È anche, più spesso di quanto crediamo, un’occasione. Lo è nel senso etimologico del termine. Se pensiamo alla parola occasio, dal latino ob + cídere, subito ci rendiamo conto che la parola “occasione” porta con sé un movimento di caduta, una parabola discendente. La malattia è un’occasione perché ci ac-cade, “ci cade davanti”. O siamo noi che, andando avanti, ci cadiamo dentro. Eppure questa caduta, avverte Woolf, non è necessariamente un male. Molto spesso, infatti, “cadere ammalati” significa essere costretti a cambiare prospettiva, ad abbandonare la verticalità, a divenire orizzontali. Sdraiati a letto, non più feminae e homines erecti, obbligati a rinunciare alla postura che l’evoluzione, la storia, il mondo, ci chiedono per essere parte attiva del consorzio civile, noi, gli ammalati, i distesi, gli inetti, abbiamo improvvisamente la possibilità di abitare un altro spazio, di guardare qualcosa di diverso. Qualcosa che, in piedi, continuava a sfuggirci e che da sdraiati, invece, ci si rivela.
Con la malattia la simulazione cessa. Appena ci comandano il letto, o sprofondati tra i cuscini in poltrona alziamo i piedi neanche un pollice da terra, smettiamo di essere soldati nell’esercito degli eretti; diventiamo disertori. Loro marciano in battaglia. Noi galleggiamo tra i rami nella corrente; volteggiamo alla rinfusa con le foglie morte sul prato, capaci forse per la prima volta dopo anni di guardarci intorno, o in alto – di guardare, per esempio, il cielo.
Quella che credevamo una disgrazia, la malattia, può diventare, in alcuni casi, uno stato di grazia, una modificazione posturale che, imponendoci di abbandonare le file dell’esercito degli eretti, degli attivi, dei produttivi, ci obbliga (o autorizza) a sostare, a non agire, a osservare. Il cielo, per esempio. “Diventati una foglia, o una margherita, supini, lo sguardo rivolto in alto” – continua Woolf – “scopriamo che il cielo è qualcosa di così diverso, ma così diverso che ne siamo scioccati. Ecco dunque cos’è che da tanto tempo andava avanti senza che lo sapessimo! […] Solo i supini sanno ciò che dopotutto la Natura non si dà affatto la pena di nascondere – che alla fine sarà lei a trionfare”.
I supini lo sanno. Sanno ciò che gli eretti dimenticano, tutti presi dalla propria verticalità, dalla propria “rettitudine”, per usare il termine che la filosofa Adriana Cavarero mette al centro del suo saggio Inclinazioni. Critica della rettitudine, proprio per ragionare sulla “centralità della postura verticale, tanto cara all’individuo sovrano e ai suoi sogni di autonomia” e che per la filosofa, come per Woolf, non è che un “patetico abbaglio”. Chi si pensa dritto e intero, chi guarda sempre davanti a sé, chi procede senza sosta nell’esercito degli eretti, illudendosi di dominare lo spazio – e dunque il mondo – confortato dal proprio orientamento verticale, (o dalla propria erezione), è completamente fuori strada. Ignaro, o dimentico, “di ciò che dopotutto la Natura non si dà affatto la pena di nascondere – che alla fine sarà lei a trionfare”.
A letto, distesi al cospetto di un cielo che non ricordavano, i supini ritrovano i confini di un corpo vulnerabile e vivo, che patisce, che dipende da un altro, dagli altri, che è in contatto con i propri bisogni, con la propria parzialità.
Essere orizzontali, per Woolf, significa avere la possibilità di sfuggire a questo abbaglio, a questa fatale dimenticanza. Significa allenare lo sguardo a un’altra prospettiva, una prospettiva eccentrica, fuori dal centro di un’autoreferenzialità che è in realtà miope. A letto, distesi come “una foglia, o una margherita”, al cospetto di un cielo che non ricordavano, i supini ritrovano i confini di un corpo vulnerabile e vivo, che patisce, che dipende da un altro, dagli altri, che è in contatto con i propri bisogni, con la propria parzialità. E, insieme, con la propria creatività. Sì, perché è proprio quando siamo distesi, ammalati, che siamo più disponibili a lasciarci attraversare dall’incomprensibile. Spesso, quando siamo in piedi, e in salute – scrive ancora Woolf – “il senso usurpa il ruolo del suono. L’intelligenza domina sui sensi. Ma nella malattia, con la polizia non più in servizio, le parole liberano il loro profumo, sussurrano come fanno le foglie, ci coprono di luci e ombre”. Liberi dall’imperativo categorico del dover capire, del dover dare senso e ordine al mondo, affrancati dall’asse verticale della ragione, i supini fantasticano, leggono, scrivono. Proprio come la donna protagonista del racconto di Maupassant. Proprio come Virginia Woolf, che scrive Dell’essere malati subito dopo – o dovremmo dire grazie al fatto – di essere stata costretta a letto per un mese, nell’autunno del 1925.
La storia della letteratura è piena di scrittrici e scrittori orizzontali. Autori e autrici per cui stare a letto, o a terra, o su un divano è non solo la condizione migliore, ma talora l’unica condizione, la condizione necessaria per creare.
Quello di Woolf non è certo l’unico caso. Sappiamo bene che la maggior parte della Recherche Proust la scrive a letto. E che è a letto, mentre è ammalato di pleurite, che il grande poeta Attilio Bertolucci compone la sua seconda raccolta di versi, Fuochi in novembre, del 1932. Ed è sempre a letto che, dieci anni prima, nel 1922, Katherine Mansfield, malata di tubercolosi, scrive uno dei suoi racconti più belli e più crudeli: La mosca. Ed è ancora a letto, o addirittura stesa sul pavimento, che Karen Blixen, malata da tempo di sifilide, scrive o detta uno dei suoi capolavori: la raccolta di racconti Capricci del destino, pubblicata nel 1958. Perfino Via col vento, il romanzo di Margaret Mitchell da cui sarà poi tratto il celebre film, nasce in posizione orizzontale: l’autrice inizia a scriverlo proprio perché costretta a letto per settimane a causa della frattura di una caviglia. La storia della letteratura è piena di scrittrici e scrittori orizzontali. Autori e autrici per cui stare a letto, o a terra, o su un divano è non solo la condizione migliore, ma talora l’unica condizione, la condizione necessaria per creare. Edith Warthon, che da ragazzina è solita leggere stesa sul tappeto della biblioteca paterna, da adulta scrive quasi solamente a letto, libera – così dice – dalla dittatura femminile del corsetto, che asfissia qualsiasi slancio creativo. Mark Twain e George Orwell scrivono a letto. William Wordsworth scrive addirittura a letto e al buio… non si sa come. E così Truman Capote, che in una intervista del 1957, dichiara: “Sono uno scrittore assolutamente orizzontale. Se non sono sdraiato a letto o su divano, non riesco a pensare”. “Io sono verticale/ ma preferirei essere orizzontale”, scrive dal canto suo Sylvia Plath, in una delle sue più celebri poesie, I am vertical.
Io sono verticale
ma preferirei essere orizzontale.
Non sono un albero
con radici nel suolo
succhiante minerali e amore materno
così da poter brillare
di foglie a ogni marzo,
né sono la beltà
di un’aiuola ultradipinta
che susciti grida di meraviglia,
senza sapere che presto
dovrò perdere i miei petali.
Confronto a me,
un albero è immortale
e la cima di un fiore, non alta,
ma più clamorosa:
dell’uno la lunga vita,
dell’altra mi manca l’audacia.
Stasera,
all’infinitesimo lume delle stelle,
alberi e fiori
hanno sparso i loro freddi profumi.
Ci passo in mezzo
ma nessuno di loro ne fa caso.
A volte io penso
che mentre dormo
forse assomiglio a loro
nel modo più perfetto
– con i pensieri andati in nebbia.
Stare sdraiata è per me più naturale.
Allora il cielo ed io
siamo in aperto colloquio,
e sarò utile il giorno
che resto sdraiata per sempre:
finalmente gli alberi mi toccheranno,
i fiori avranno tempo per me.
In questa bellissima poesia, che troppo spesso è stata banalizzata e interpretata solo come uno dei tanti annunci della poeta americana rispetto al suo futuro suicidio, c’è molto altro, c’è ben altro. Anche Plath, come Woolf, si pensa supina, come foglia o margherita, vicina alle radici degli alberi, ai traffici minerali del terreno, al fili d’erba che guardano le stelle. “Sono verticale / ma preferirei essere orizzontale” non è semplicisticamente il verso-manifesto di chi è vivo ma preferirebbe morire. È il canto di chi sa che la richiesta di verticalità che le fa il mondo – la richiesta di assennatezza, appropriatezza, conformità all’esercito degli eretti – la separa da ciò che le è più caro, da ciò che le permette di essere vicina a sé stessa.
Sottrarsi al traffico quotidiano, rinnegare il negotium, in favore di un otium che non è semplice inerzia, pigrizia, al contrario, è un’inattività attiva, una inoperosità fertile che pesca nel doppio fondo dell’esistenza, nei suoi recessi, nelle sue falde.
Sylvia Plath, come Virginia Woolf, come Truman Capote, come William Wordsworth, come Amelia Rosselli – che in un suo celebre verso tratto da Serie ospedaliera scrive proprio questo: “non staccarsi dalle cose basse scrivendone / supina” – per essere vicina a sé stessa deve disertare. Sottrarsi al traffico quotidiano, rinnegare il negotium, in favore di un otium che non è semplice inerzia, pigrizia, al contrario, è un’inattività attiva, una inoperosità fertile che pesca nel doppio fondo dell’esistenza, nei suoi recessi, nelle sue falde, in tutto ciò che è basso, e perciò stesso in aperto colloquio con l’alto. È dal basso che ci si accorge del cielo. È da stesi che si vedono le nuvole. Nuvole come “isole felici, pecorelle, cavolfiori e pannolini – che si asciugano al sole” (sono versi di Wislawa Szymborska, questi). Nuvole come quelle che Marina Cvetaeva vede mentre, distesa a terra nel bosco, sta scrivendo una lettera al giovane letterato Aleksandr Bachrach: “Caro, vi scrivo tra il muschio, nel cielo avanza una enorme, minacciosa nube nera – rilucente. Stavo leggendo la Vostra lettera e di colpo ho avvertito la presenza di qualcosa… Il muschio corto mi punge le braccia, scrivo distesa, se sollevo la testa eccola, lucente”. Lucente sul corpo della poeta stesa sulla nuda terra, nell’umidore del muschio, la nuvola avanza e entra nella scrittura, il cielo finisce sulla pagina, la contamina, alimenta, decentrandola dalla sua autrice, che è insieme testimone e cantrice di qualcosa di più grande, di cui è ospite e ospitante, orizzontale e protesa. Il cielo fa così. Preferisce i supini. Visita gli orizzontali. I corpi guasti, stanchi. I corpi in abbandono. Gli inservibili. Come inservibili sono i corpi dei burattini Totò – nel ruolo di Jago – e Ninetto Davoli – in quello di Otello – gettati in una discarica a cielo aperto alla fine del film Che cosa sono le nuvole di Pier Paolo Pasolini.
Otello: Iiiiih, che so’ quelle?
Jago: Quelle sono…sono le nuvole…
Otello: E che so’ le nuvole?
Jago: Mah!
Otello: Quanto so’ belle! Quanto so’ belle!
Jago: Oh, straziante, meravigliosa bellezza del Creato!
Dice così Jago, con la sua faccia verde, che si illumina tutta, proprio quando non ha più un ruolo, quando la pantomima è finita, quando non c’è nessun filo a tenerlo in piedi. Orizzontale, derelitto, incongruo, e per ciò stesso rinato al mondo che lo coglie dall’alto, e che può cogliere perché è in basso. Lì dove la vita accade come una scoperta. Un ritorno. Un mistero.