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lan Bator è un crocevia di strade trafficate, il cui centro descrive una città moderna: la piazza centrale su cui spicca l’hotel blu a forma di vela, il monumento ai grandi Khan, e in un angolo, dove vado in pellegrinaggio sotto la pioggia, la statua di un viaggiatore che venne a conoscere i più grandi imperatori del mondo, il cui nome è scritto in caratteri latini: Marco Polo.
Ma questa immagine di capitale globale è una figura retorica, rivolta ai cittadini che vanno a bere caffè e mangiare cheesecake, ordinare birre e cibo coreano nei locali notturni, o portano i bambini a giocare nelle macchine da scontro sotto gli occhi di Cengis Khan, mentre i visitatori ammirano i monumenti e il teatro dell’Opera. Mi allontano in cammino dalla piazza centrale, e col diradarsi degli edifici, come se lo spazio divenisse tempo, comincio a scoprire gli altri strati della storia mongola. Salgo verso il grande monastero buddhista Gandagtegchinlen, su una collina dove gli edifici moderni lasciano il passo a sagome di cemento, spesso diroccate, e spuntano le prime gher, le tende tradizionali. Riappare il passato nomade, come avviene ai margini di tutte le città del paese.
Una di queste gher ospita il “Centro dell’eterna sofisticazione sciamanica”. Entro, al centro dello spazio circolare c’è una famiglia che mangia. Lungo il perimetro della tenda, pelli di lupo, di orso, costumi degli sciamani che danzando incontrano gli spiriti animali. La cerimonia si svolge giovedì, mi dice un’anziana signora masticando, mentre coccola un gatto. Dietro di lei pende la pelle di un leopardo delle nevi, e foto di cerimonie tra neve e fuoco. Il giovedì sarò già andato via, in cerca di sciamani nella steppa: più autentici di quelli urbani, o forse no.
La parola sciamano deriva dal tunguso saman. La Siberia è la regione in cui gli europei hanno incontrato per la prima volta queste figure di sacerdoti che vanno in trance suonando tamburi e viaggiano in spirito per curare e profetare, vestendosi di pelli animali. Qui tra Seicento e Settecento mercanti, naturalisti e funzionari osservarono le cerimonie e offrirono resoconti, e già nell’Europa dell’illuminismo, complice la presenza del filosofo Denis Diderot alla corte di Caterina II di Russia, il dibattito sugli sciamani si infiammò: erano sapienti o ciarlatani? Poeti o veggenti? Folli o profeti? Non necessariamente le cose si escludevano, e attraverso opposte opinioni la figura ha continuato a affascinare. Come racconta Sergio Botta in Dagli sciamani allo sciamanesimo, la figura dello sciamano è un tema di riflessione che per oltre tre secoli ha impegnato studiosi e psicologi in Europa, e oltre. La parola shaman è stata estesa a quelli che gli antropologi americanisti chiamavano medicine men, e poi a tutto il mondo, anche a figure sociali molto diverse.
La Siberia è stata un luogo di snodo, se non l’origine, di una tradizione che si è diffusa col migrare di popolazioni in Asia e nelle Americhe, oltre lo stretto di Bering. Eppure di recente, da queste parti, gli sciamani non hanno avuto vita facile. Quel che i buddhisti prima e la sovrana illuminista Caterina poi non erano riusciti a fare – estirpare questa indecenza di donne e uomini forsennati che cadevano in trance pretendendo d’incontrare e perfino sposare gli spiriti degli animali – riuscì quasi del tutto con la repressione del governo sovietico. Ma dopo il 1991 si è innescata una reviviscenza, corrispondente a una ricerca di radici identitarie, per cui in Tuva, Buriazia e Jacuzia, epicentri di tradizioni sciamaniche, è comune imbattersi in sciamani e rituali aperti a concittadini e visitatori, né mancano seminari di tamburi sciamanici frequentati da comitive di turisti. Il passaggio degli sciamani da una condizione di clandestinità o prigionia nei campi di lavoro a una nuova popolarità è narrato da uno dei pochi romanzi mongoli tradotti in italiano, La leggenda dello sciamano di Gun Ayurzana, scrittore che durante il mio viaggio contatto per orientarmi in questo presente misterioso e incerto. Oggi una nuova generazione di sciamani coltiva le proprie tradizioni promuovendo pure attività culturali, scrivendo libri, andando in tv, e in Buriazia gli sciamani sono costituiti in Associazione.
È necessario considerare questi cambiamenti per capire il presente e il futuro dello sciamanismo, che riguarda non soltanto gli studiosi e gli artisti che se ne occupano. L’interesse di osservatori e visitatori provenienti da civiltà dove lo sciamanismo originariamente non esisteva, o è scomparso, non è ovviamente sfuggito a chi porta avanti quelle tradizioni. Oggi si assiste a un doppio movimento: per un verso, l’apertura di spazi e rituali a chi arriva da lontano, estraneo alle comunità che originariamente beneficiano degli sciamani, che determina dei cambiamenti nei riti e nell’elaborazione della tradizione. Per l’altro verso, l’arrivo di questi stranieri che vanno in cerca di un altro tipo di giovamento.
Come può l’istituzione dello sciamanesimo, che inevitabilmente si trasforma, restare preziosa nel mondo contemporaneo?
L’antropologo Stefano de Matteis, nel suo recente libro Gli sciamani non ci salveranno, ha esaminato, in base a un lavoro d’indagine sul campo e analisi di testi esemplari, il senso di questa ricerca spirituale che da decenni si svolge nelle nostre società. Il bisogno e la richiesta hanno dato luogo all’arrivo di sciamani e curatori che organizzano rituali in casa nostra, oltre al turismo sciamanico che si spinge lontano. De Matteis indica un paradosso: una tendenza alla “contromodernità” ispira il desiderio, nutrito da individui esausti e sradicati, di riscoprire un passato ancora attuale in civiltà non del tutto conformate alla frammentazione sociale e ai ritmi di vita frenetici dell’Occidente; d’altra parte, questo confronto “è vissuto soprattutto come un mezzo per misurarsi con le proprie ‘profondità’. Nel tentativo di viaggiare in se stessi. Perché, nel complesso, viene offerta loro una straordinaria gratificazione sostitutiva: dall’incontro usciranno migliorati, quindi capaci di affrontare diversamente la vita”.
Chi frequenta queste riunioni sarebbe “un Io solitario, poco socializzato”, che evade dalle maglie di “sistemi familiari sempre più in declino”, “modalità lavorative oppressive”, “spazi collettivi sempre più angusti”, in un’epoca accompagnata dallo “spettro molto reale della crisi ecologica e climatica”. Il sospetto, allora, è che i nuovi bisogni stravolgano il senso originario dello sciamanismo. Quello che mi ha portato in Mongolia non è soltanto il bisogno d’incontrare un vero sciamano, aggirando per quanto possibile il mercato del turismo; mi guida anche una domanda. Come può questa istituzione, che inevitabilmente si trasforma, restare preziosa nel mondo contemporaneo?
Continuando a camminare verso sud, a Ulan Bator, cominciano quartieri di palazzi sovietici tutti uguali, e gradualmente l’asfalto si spacca, le strade diventano piste. Viene un temporale, e l’acqua forma un torrente color mandorla che scende dal pendio tra le auto in fila. Avanzo bagnandomi fino al ginocchio, e quando spiove arrivo al Giardino del Buddha, una zona residenziale in cui una enorme statua dorata del Risvegliato è ormai annichilita dalle palazzine a venti piani. Più oltre finisce la zona edificata, si comincia a salire sui monti.
C’è una lunga scalinata che – superato un Golden Buddha shopping center – porta in cima a una collina fino allo Zaizan, il monumento d’epoca sovietica. Uomini e donne russi e mongoli – sui mosaici colorati – celebrano l’inizio di un’epoca di pace, scienza e armonia sociale. I soldati abbattono simboli nazisti, astronauti russi e bambini mongoli stanno vicini a simboleggiare un’alleanza per il futuro comune. Non c’è quasi nessuno. Da un lato, guardo alla distesa di cemento della città, travolta dal fango. Dall’altra, appare un orizzonte di colline verdissime, solcate dal fiume.
La geografia della Mongolia: un piano inclinato largo come l’Europa, di praterie ondulate percorse da mandrie di animali, punteggiate di tende, popolate di nomadi che ancora compongono metà della popolazione (in totale solo tre milioni e mezzo, circa metà concentrati nella capitale). A Nord c’è la Russia, vicino malsopportato da cui il paese dipende per le importazioni. A sud la Cina, che fu dominata per un breve secolo, ma oggi allunga le mani sulle miniere del deserto del Gobi. La gente è orgogliosa della propria differenza, proclamata ancora nel nome onnipresente di Gengis Khan, e demarcata dal nomadismo. Seguendo un percorso circolare provo a capire questa terra con una fiacca imitazione di un atto nomadico: salgo sui bus a lunga percorrenza che attraversano la steppa. A ogni tappa la figura dello sciamano si manifesterà indirettamente, fino a un incontro decisivo.
Nel 1829 il sessantenne Alexander von Humboldt, già famoso esploratore e naturalista, arrivò ai piedi dei monti Altai con il suo ultimo viaggio. A oltre trent’anni dalla leggendaria spedizione nelle Americhe, desiderando invano raggiungere l’Himalaya, Humboldt aveva infine approfittato di un permesso dello zar per attraversare le sue terre con una spedizione naturalistica. Io arrivo nella regione dalla parte opposta, percorrendo le piste più o meno sbiadite che graffiano la terra ondulata, e cammino fino alle nevi eterne su cui si poggiò lo sguardo commosso del grande viaggiatore, e dove una famiglia sparge offerte intorno a un altare buddhista con le bandierine sbattute dal vento. Già all’epoca di Humboldt, qui si incontravano Russia e Cina. Oggi nella regione del Bayan Olgii la maggioranza della popolazione è kazaka. Cammino tra i ghiacciai di Tavan Bogd, tra fiumi bianco latte e occasionali mandrie di yak. Costeggio per un giorno intero il lago Khoton: la sponda opposta è una fatta di nude montagne ocra, mentre io avanzo tra boschetti di conifere, torrenti e praterie allagate, dove i piedi affondano. La pioggia pulsa come una marea, e dal vapore compaiono gli yak. Li seguono due ragazzi a cavallo, che m’invitano a cena a casa loro.
Dove sorgeva l’antico palazzo, oggi in rovina, pascolano dei cavalli.
Vengo accolto con calore nelle gher, navicelle in questo pianeta deserto. La vodka gira abbondante a qualsiasi ora. In queste terre impervie l’ospitalità è connaturata, ma il turismo ha un impatto inevitabile. La tradizione dei cacciatori con le aquile è oggi oggetto di un festival annuale. Avvicino alcune femmine maestose, legate di fronte alle gher. Gli artigli pungono fortissimo attraverso il guanto con cui le sostengo. La tradizione vuole che l’aquila viva solo alcuni anni con l’allevatore, accompagnandolo in battute di caccia in cui si spartisce la preda, e poi venga lasciata libera. Ma in certi casi il sospetto è che gli animali non siano là per cacciare, e che possano restare tutta la vita a posare nelle foto dei passanti.
Dopo tre giorni nella zona, seguendo una striscia quasi invisibile sulla prateria multicolore, m’imbatto in un gruppo di pietre verticali. Sono stele antropomorfe, sepolture di antiche popolazioni. Poco più avanti, in un crepaccio si trovano decine di petroglifi preistorici. Il soggetto principale è un animale la cui immagine ricorre sulla superficie della Mongolia e come una firma svela l’origine comune di una civiltà che arrivava fino all’Europa: il cervo.
Torno a sentir parlare di sciamani scendendo a sudest, mentre mi dirigo verso una versione provinciale del Nadaam, il festival di lotta, corse di cavalli e tiro con l’arco che a luglio attira turisti da tutto il mondo. Quando le onde rocciose della steppa si appiattiscono, e all’orizzonte appare la spianata arida del Gobi, arrivo alla città di Khovd. Un altro reticolo di edifici squadrati e cadenti, sul modello sovietico, e poi, sull’altra sponda del fiume, il grande campo tendato sulla prateria verdissima vicino all’acqua, che sfuma nel deserto, fino ai monti rossi. Nel fiume si bagnano bambini e cavalli.
Giro la cittadina, andando a visitare il museo regionale, che ospita animali imbalsamati e costumi tradizionali. Tra le strade s’incontrano incongrui monumenti: un enorme stivale rosso con la punta ricurva, una tazza da tè in metallo che sembra un boccale di birra, un’anguria gigante. Dove sorgeva l’antico palazzo, oggi in rovina, pascolano dei cavalli. Vado oltre il ponte, scendo a giocare con i bambini che schizzano nell’acqua fredda, e punto un monumento conico che sorge sulla sabbia piatta in lontananza. Mentre cammino in quella direzione si ferma un’auto: un ragazzo dall’aria timida, Yo, domanda se può essere d’aiuto. Insiste per portarmi al monumento, un monte schematico edificato dai buddhisti, e intanto mi chiede consigli su come avvicinare una ragazza che gli piace. Mi racconta di essere un medico. Sua sorella è una sciamana, vive a Ulan Bator: mi ci metterà in contatto. Intanto sale un tramonto immenso, lilla e ocra, e accetto la proposta di andare a visitare la sua casa.
Avanziamo al buio e entriamo nell’edificio. Si accende la luce in una grande sala spoglia, con una cucina su un lato e dei divani contro le pareti. Un uomo in mutande sta dormendo, una bambina accorre e comincia a fare la ruota sulle mani. Il padre di Yo si sveglia, rapidamente indossa un pantalone e una camicia e subito offre del tè e dei biscotti. È un medico tradizionale, che nella sua clinica assiste le persone insoddisfatte delle medicine da farmacia e le donne incinte. Mi racconta di essere arrivato da bambino con una carovana, all’epoca in cui la sua famiglia nomade decise di stabilizzarsi in città. Gran parte della gente qui rimane in tenda. Altri, come lui, comprano casa. Ma hanno ancora dei cavalli, che vivono liberi nella steppa. Dei conoscenti li sorvegliano, sanno dove sono, e al bisogno li si va a recuperare. Proprietà senza recinti.
Tra le etimologie proposte per il termine saman, una rimanda a un’origine indoeuropea, alla parola sanscrita sramana, sacerdote, che sarebbe arrivata in Mongolia attraverso la mediazione del cinese mandarino.
L’uomo prende un morin khuur, uno strumento a due corde fatte di crini di cavallo e si mette a suonare una canzone che ha imparato dai nonni. Contrae la fronte. Il canto di gola, caratteristico di questa zona, racconta del rapporto con gli elementi naturali. Quando finisce Yo mi dice che la sorella gli ha risposto al telefono: è andata da un maestro sciamano sul lago Hovsgol. Forse potrò trovarla là. È il luogo dove, dopo aver visitato il Gobi, ho in programma di concludere il mio giro.
Murun, nel nord del paese, è l’ennesimo complesso di lotti divisi da piste polverose, dall’aria ancora più precaria di altri centri urbani, quasi una versione in cemento di un campo di tende. Molti recinti includono una casa in pietra e una gher antistante, così che le due forme abitative si fondono. Cammino fino alla zona con i piccoli negozi. Qui il sipario di edifici si apre sul paesaggio infinito. Tra le case e il fiume c’è il monastero di Gandandarjaalin. Come quasi tutti i monasteri buddhisti mongoli, anche questo è stato distrutto in epoca sovietica e poi ricostruito. Oggi ci sono circa duecento monaci. Ne trovo alcuni che recitano i mantra in un tempio. Entro negli edifici accessibili, poi mi avvicino alla statua bianca del Buddha, che sta al centro della prateria, all’incrocio di una geometria di stupa. Il Risvegliato contempla lo spazio nella posizione del loto, dando le spalle alle palazzine di Murun. Continuo a camminare verso il fiume, puntando un boschetto. Il terreno diventa melmoso, e devo tentare diversi percorsi per arrivare sulla riva sabbiosa. Supero un paio di auto parcheggiate. Una coppia di ragazzi prende il sole. Dei pescatori sono immobili più a valle.
Mi fermo accanto a una bambina con il nonno e il fratellino. Sta giocando con le mani nella sabbia, esita a tuffarsi. Incoraggiata dal fratello, saggia l’acqua con i piedini, poi salta e comincia a scalciare acqua. Una scena simile, qualche decennio fa, poteva osservarsi dove abito a Roma, lungo il fiume Aniene, che oggi è inquinato e non balneabile. Mentre la bimba ride ricordo un film di animazione, La città incantata di Hayao Miyazaki. In una scena memorabile, la bambina Chihiro accoglie alle terme lo Spirito del Cattivo Odore, un gigantesco e informe ammasso melmoso che avanza facendo fuggire tutti. Chihiro non si scoraggia e lo lava, rovesciando nell’acqua cascate di sapone. Raschia ed estrae dal corpo scuro grumi di rifiuti, finché trova una cordicella, la tira. Si sente il rumore di un tappo che salta. Un getto di rifiuti viene vomitato fuori dal corpo del mostro, che emette poi un sospiro di sollievo celestiale, e solo allora si rivela per quel che è: il venerato Spirito del Fiume, di cui solo la bambina ha saputo intuire l’identità estraendola dai propri ricordi, di quando il fiume del villaggio non era ancora carico di spazzatura e rottami. Lo stesso intreccio di finzione e memoria, le stesse immagini di nostalgia e purezza mi si presentano ora nello sguardo della bambina che si gira a guardare questo sconosciuto che sorride, prima di tornare a tuffarsi nell’acqua del fiume, lontana dal profilo di palazzi che avanza.
Gli animali che animano tutte le rocce sono i cervi: cervi però fantastici, col muso che diventa un becco e i palchi che sembrano ali, mentre puntano in alto.
Tornando al tempio osservo uno dei grandi tamburi laccati di rosso, un altro indizio della storia sciamanica che sto seguendo. Secondo alcuni studiosi, infatti, quei grossi tamburi circolari arrivati dalla Cina sarebbero il modello di quelli sciamanici, pure ampi e circolari, ma battuti per evocare tutt’altra esperienza: non la purificazione dalle passioni, ma una loro intensificazione estatica. Oltretutto, tra le etimologie proposte per il termine saman, una rimanda a un’origine indoeuropea, alla parola sanscrita sramana, sacerdote, che sarebbe arrivata qui attraverso la mediazione del cinese mandarino. Ammesso che ci sia del vero in queste congetture, sarebbe una conferma che le tradizioni implicano trasformazioni, calchi, oblio e reinvenzioni, molto più di quanto siamo abituati a pensare quando prendiamo a modello i canoni testuali e liturgici che hanno attraversato la civiltà occidentale.
La reinvenzione non toglie che ci siano profondi elementi di continuità, spesso inconsci. A poche ore da Murun vado a visitare Uushigiin Uver, uno dei siti mongoli dove si trovano immagini di un animale cruciale per le popolazioni dell’età del Bronzo. Le stele dei cervi sono pilastri quadrangolari che spiccano sulla pianura verde, in mezzo a tumuli e colline. Alcune stele riportano volti antropomorfi, che forse alludono ai defunti. Ma gli animali che animano tutte le rocce sono i cervi: cervi però fantastici, col muso che diventa un becco e i palchi che sembrano ali, mentre puntano in alto. Sappiamo poco del significato di queste straordinarie figure, ma sembra che l’animale sia visto come un tramite per un’esperienza trascendente. In cima alle stele ancora intatte vedo il cerchio del sole, o della luna. Mentre la luce del tramonto infiamma la pietra, i cervi spiccano per l’ultima volta e lentamente sbiadiscono.
Il lago Hovsgol ha oltre due milioni di anni, ed è il più grande bacino d’acqua dolce della Mongolia, “piccola sorella” del vicino Bajkal, in territorio russo, con una costa lunga oltre 130 kilometri. Sul bus incontro una ragazza che sta andando a trovare la madre. Vive e lavora in Ungheria, ma torna periodicamente nella sua regione d’origine. È ormai abituata alla città, ma ricorda bene le tradizioni sciamaniche: mi racconta di una volta che per telefono uno sciamano le descrisse tutto quello che le stava succedendo. Mi guarda calma mentre saltiamo sulle buche. Quei poteri sono un fatto che riconosce, senza ammantarlo di fascino. Lo stesso atteggiamento ricorre in altri racconti. Un’amica studiosa di nomadi mi ha raccontato di una volta che erano in cerca di cavalli perduti nella taiga, e un uomo salendo su una cima innevata dove c’era campo chiamò col cellulare uno sciamano di Ulan Bator per chiedergli aiuto. Quello indicò esattamente dove avrebbero trovato i cavalli.
La punta meridionale del lago è un luogo di villeggiatura per i mongoli, pieno di residence di legno e minimarket, ma basta camminare mezz’ora per perdere le tracce della civiltà. Avanzo per un giorno lungo le conifere del lago, in un mondo magico di nebbia e acqua cristallina, in cui compaiono yak, cavalli, abeti colossali ricoperti di muschio verdissimo. Il giorno dopo prendo un pulmino sovietico che sale tagliando per colline e boschi, avanzando a passo d’uomo, cadendo continuamente sulle gomme. Si arriva schiantati a Tsagaannuur, un ammasso ventoso di prefabbricati dove i nomadi fanno la spesa e mandano i figli a scuola. Un’altra camminata nel piatto nulla che circonda il villaggio. Giungo a una gher, una ragazza sorride dal recinto delle vacche, mi offre del tè. Guardo la mia destinazione: a occidente la tundra si trasforma in taiga, le colline si fanno montuose e s’infittiscono foreste abitate da lupi, orsi, e gli animali meravigliosi di cui finora ho visto solo le immagini.
Il corpo si adatta più semplicemente del pensiero alla diversità del clima: così ho sperimentato nelle notti in tenda.
Lasciata la conifera scendiamo a valle, compaiono le yurte coniche, alcuni nomadi ci vengono incontro. Smonto da cavallo e saluto Zaya, la donna che mi ha invitato a visitare la comunità. Subito dopo sento il trotto degli zoccoli felpati, lo schiocco morbido delle ossa: le renne mi circondano e cominciano ad annusarmi.
È un pomeriggio d’estate, la pioggia dà tregua mentre arrivo al campo dei Dukha, o Tsaatan, come li chiamano i mongoli. Il termine vuole dire “uomini-renna”, definisce la loro vita con gli animali. Sono rimasti in poche centinaia in questa zona isolata al confine con la Russia. Vivono seguendo le renne, spostandosi stagionalmente tra diversi campi. Parlano una lingua che sta quasi scomparendo. D’inverno si allontanano ancora di più dalla zona del lago, restano mesi a temperature polari, consumando le risorse accumulate nella bella stagione. Ora le nuove renne sono nate, è tempo di allattamento, per circa due mesi il clima è mite e i bambini giocano fuori dalle tende. Distribuisco doni: sapone, dentifricio, creme idratanti, giocattoli. Una bottiglia di vodka fa la gioia di un uomo che quella notte festeggerà il compleanno. Sono bene accolto e comincio a memorizzare volti e nomi. Ma quel che mi ha portato da questa gente è il progetto d’incontrare una sciamana.
Diverse persone mi hanno parlato di Zaya, me l’hanno indicata come la persona giusta per aiutarmi. È una mongola che parla un perfetto inglese, perché ha vissuto alcuni anni negli Stati Uniti, crescendo in Colorado, prima di tornare, sposare un nomade Dukha e trasferirsi nella taiga. Ha conosciuto diversi mondi, e ha scelto di abitare nel più freddo. D’estate, organizza l’arrivo di piccoli numeri di visitatori, un prezioso sostegno alla comunità in vista dell’inverno, ma a me dedicherà un’attenzione speciale, facendomi da interprete in conversazioni con tutte le famiglie del gruppo. Verrò a sapere del loro legame con le renne, che seguono nelle loro migrazioni perché sono famiglia e nutrimento, latte, formaggio, pelliccia. Verrò a sapere della sapienza erboristica, delle giornate gelide a giocare a carte intorno al fuoco, dell’incertezza delle spedizioni di caccia, degli aiuti offerti di recente dal governo mongolo, che rende l’atto di cacciare più raro e meno necessario, del rapporto con i turisti occasionali, delle speranze per il futuro.
La sciamana si chiama Saintsetseg, è una donna corpulenta col viso bruciato dal freddo e due fessure in cui sono incassati gli occhi opachi e metallici. L’ho vista mungere le renne, precisa nei colpi alle mammelle mentre l’animale attendeva con gli occhi sbarrati, e quando entro nella tenda la riconosco. È una donna giovane che sembra anziana. Siede inespressiva, parzialmente assente. Risponde brevemente alle mie domande. Racconta della sua vocazione: la malattia, i sogni ricorrenti, la resistenza ad accettare il proprio ruolo, che le faceva tremare le gambe. Il suo animale guida è l’orso. Una volta sola l’ha visto dal vivo, molte volte lo vede in sogno. La gente viene da lei quando la luna è piena, e lei fa il suo rituale per percepire cose nascoste, elargire consigli e procurare cure e benefici. Purtroppo non potrò osservare il rituale, perché la luna è giovane. Ma Saintsetseg mi concede di mostrarmi la sua attrezzatura: si siede e lentamente sfila da un baule di legno il costume ricevuto dalla sciamana precedente, carico di strisce colorate e catene, e il largo tamburo con la pelle di cavallo.
Continua a rispondermi col volto inespressivo: non sembra sapere molto dei miti sciamanici, o non vuole confidarmi dettagli. Zaya traduce con scrupolo le mie domande e traducendo allunga le brevi risposte. Esco dalla tenda smarrito, con l’impressione deludente di aver soltanto sfiorato una rivelazione, restando in superficie. Ripenso pure alle testimonianze sugli sciamani che sempre portano il segno di un disagio psichico in cui originariamente si manifesta il loro dono, come una ferita che apre i loro sensi alla natura. A lungo si è scritto della instabilità psichica di molti sciamani come di una malattia – nell’Ottocento si parlava di “isteria artica” – ma proprio questo aspetto è apparso decisivo, come un segno di una sensibilità capace di trascendere la rappresentazione ordinaria del mondo.
Alcuni giorni dopo, tornato a Ulan Bator, incontro la massima studiosa della lingua dei Dukha, Elisabetta Ragagnin, che insegna a Venezia ma qui viene regolarmente da vent’anni, e qui si trova per un convegno. Conosce personalmente tutti i membri della comunità che ho visitato. Sta lavorando insieme a due donne Dukha a un libro sulla lingua e la cultura locale, ricco di informazioni sulla medicina tradizionale, e ha pubblicato una grammatica, che possa aiutare a mantenerne in vita la lingua. I Dukha sono emigrati nel secolo scorso dalla repubblica di Tuva, che all’epoca apparteneva all’Unione Sovietica, e parlano una lingua imparentata col tuvano, diversa dal mongolo. Il progetto è un manuale da usare nelle scuole con i bambini, che durante gli studi lasciano le famiglie e scendono a Tsaagannuur, ma che sarà anche un prezioso riferimento per gli adulti. Le racconto di come tutti hanno sorriso quando l’ho nominata, e l’aspettano. Mi racconta della vita a quaranta gradi sotto zero, delle trasformazioni che impone alle attività quotidiane, di come modifica il corpo. A dispetto della resistenza che l’immagine del gelo evoca in uno come me, abituato a temperature di decine di gradi in più, mentre la ascolto penso che il corpo si adatta più semplicemente del pensiero alla diversità del clima: così ho sperimentato nelle notti in tenda.
Le racconto del mio strano incontro con la sciamana. Anche Elisabetta, che è sua amica, la trova sfuggente, e comprende che per me sia stato difficile capirla. Mi dice che forse l’hanno scelta come sciamana, nonostante la sua riluttanza, proprio perché ha uno sguardo diverso sulle cose, che a noi appare distante. Mi racconta della sciamana precedente, di quanto fosse carismatica e padrona del suo ruolo. Subito m’invade il pensiero di essere arrivato tardi, mi sembra applicarsi uno schema dei racconti sullo sciamanismo che si tramanda da secoli: quel che si vede oggi sarebbe una tradizione al tramonto, gli sciamani del passato erano più consapevoli e potenti. Un sospetto che permane, del resto, è quanto la conservazione del ruolo di sciamana in questa piccola comunità sia oggi legata al turismo.
Alcuni Dukha si sono lamentati di un gruppo di turisti russi che a un certo punto è comparso dai monti, dopo giorni di cammino iniziati oltre confine, e ha piantato le tende nel campo. Hanno comprato molti oggetti di artigianato, e questo è stato positivo. Uno di loro, sedicente apprendista sciamano, suonava uno scacciapensieri seduto in posizione del loto di fronte alle renne, una stranezza che nessuno qui ha ben capito, e che invece a me è sembrata tanto familiare quanto imbarazzante. Ai Dukkha è apparsa senz’altro fuori luogo la loro abitudine a lavarsi nudi e gettare sapone nei ruscelli dove bevono le renne. Mentre sedevamo in una tenda e prendevamo il tè al latte di renna, l’uomo che stavo intervistando ha scherzato: “In questi anni abbiamo visto troppi culi russi!”. Rieccomi a fare i conti con una domanda che oggi anche gli studiosi si pongono: se lo sciamanismo è nato per elaborare la relazione con una natura non-umana che prende e dà tutto, che è fonte della vita e della morte, come può resistere all’arrivo di abitanti delle città che portano denaro, tecnologia e altre abitudini?
Mentre sono nella taiga rifletto su queste cose e di sera in tenda, dopo aver mangiato un noodle istantaneo o un brodo offerto da Zaya, alla luce del fuoco ancora acceso, leggo libri vecchi e nuovi sugli sciamani, sulle loro estasi, sui loro viaggi in cielo e sottoterra, sui matrimoni con gli animali, sul loro dimenarsi frenetico. Patisco la distanza tra quello che leggo e quello che non posso vedere. Ma è un processo non intellettuale a portarmi verso quella che mi sembrerà una chiave per accedere al mondo magico. Di notte esco per andare in bagno e subito sento le renne che mi raggiungono. Appaiono, spiriti splendenti. Mi circondano, mi annusano. Ognuna di loro ha un modo diverso, personale, di ispezionarmi. Mi leccano il dorso delle mani, le mie dita ancora impregnate di cibo spariscono nelle loro bocche calde e morbide. Sono attirate dal sale, è questa la ragione per cui, come scopro con stupore, anche l’urina umana è per loro una delizia. Così di notte ci scambiamo carezze e fluidi in un silenzio incantato, e dopo quegli incontri loro si allontanano nell’erba, raggiungono la massa argentata del gruppo. I loro palchi brillano alla luce della luna, una foresta che danza.
Patisco la distanza tra quello che leggo e quello che non posso vedere: ma è un processo non intellettuale a portarmi verso quella che mi sembrerà una chiave per accedere al mondo magico.
Le ritrovo di giorno riunite, le più grandi sedute sotto il peso dei palchi, quelle piccole con due rametti vellutati che spuntano dalla testa, e che presto si dirameranno diventando simboli organici, monumenti di verticalità della vita, stemmi di ogni processo che si fa forma e festa per i sensi. Mi sembra di capire meglio l’intuizione degli artisti preistorici che hanno inciso le stele dei cervi, e quelli che hanno dipinto anche renne sulla roccia.
Nel gruppo riconosco una renna bianca che ho accarezzato la notte prima. Lei mi guarda calma dagli occhi cerchiati di nero, sente il mio odore, riconosce me. Dopo diversi giorni, sento un’affettuosa e enigmatica vicinanza a lei e alle altre, diversa da quella schietta e cordiale che mi collega agli uomini. Le renne sono al tempo stesso più distanti nei loro pensieri ma più vicine nei loro gesti. La mia interazione con gli umani della comunità è cordiale ma stereotipata, mediata dall’educazione e dalla consapevolezza di essere un ospite esterno che porta un beneficio sotto forma di denaro, e per quanto io saluti, parli, giochi con i bambini, e mi sia concesso di muovermi liberamente dentro e fuori le tende, non sento di destare curiosità e attenzione, o forse è una reciproca forma di riserbo a tenere gli altri a distanza. Le renne invece vengono a osservarmi, mi toccano, mi studiano. I loro moti di avvicinamento e allontanamento sono traiettorie di misteriosi corpi celesti, che di notte si staccano dalla massa animale centrale e si sparpagliano a brucare nei dintorni umidi e cespugliosi del campo. Ogni tanto ritornano leggere e veloci nel buio, scintillano, mi orbitano intorno. Si fermano a considerarmi, alcune gelose dei palchi intricati, altre disposte a farsi carezzare, o montare per un tratto, le mie mani affondate nella pelliccia, le gambe strette sui fianchi palpitanti. Impariamo a comunicare.
Passo alcuni giorni in questo ciclo fatto di giorni di esplorazioni e dialoghi, notti di letture sciamaniche e incontri silenziosi. Quest’alternanza tra il dentro e il fuori, tra i misteri letti nella tenda e le esperienze fatte all’aperto mi mette ancora a disagio come un’incongruenza. Dove sono i viaggi mistici, le visioni in trance, gli incontri con gli spiriti animali? Mircea Eliade, nel suo monumentale studio Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi, sosteneva che il viaggio degli sciamani fosse fondamentalmente una forma arcaica di ascesi spirituale. Lamentava la corruzione attuale di quell’istituzione, disprezzando in particolare i profani che, tra i popoli siberiani, fingevano di raggiungere stati simili senza possederne la dottrina e le doti spirituali (parla di “imitazione scimmiesca”), e chi cercava di imitare l’autentica esperienza spirituale di trance servendosi di alcool, funghi e piante psicoattive a dimostrazione della sua rozzezza e incapacità. Ma questa nostalgia per un presunto sciamanismo puro era un riflesso della religiosità mistica ortodossa e del tradizionalismo politico di Eliade.
Le ricerche sul campo più recenti, come quelle di Roberte Hamayon, hanno confermato il forte nesso che in Asia centrale si riscontava, almeno fino a qualche decennio fa, tra l’incertezza della caccia e i viaggi sciamanici, che mirano a un gemellaggio con i non-umani per garantire la salute della comunità, in certi casi celebrando l’intesa con un matrimonio tra sciamani e spiriti. Altre ricerche hanno ritrovato i temi della cura dalle malattie e dell’aldilà, dove il cavallo psicopompo, la cui pelle vibra nel tamburo, conduce l’anima a incontrare i morti. Le tracce di una pura ascesi verticale lungo l’asse del mondo sono esili e incerte. In ogni caso, la persecuzione sovietica colpì duramente gli sciamani, alcuni finirono nei gulag. Quelli che da Tuva e dalla Buriazia passarono il confine mongolo hanno potuto continuare a praticare le loro arti, ma oggi la riduzione degli spazi di caccia e la diffusione di altri mezzi di sussistenza e cura della salute per forza di cose intacca il senso di quei riti, che spesso rinascono in forme adatte alla vita urbana. Di nuovo, dobbiamo pensare a un intorbidirsi del sacro, alla decadenza spirituale, al mercimonio? Durante il mio viaggio, comincio a avvertire i limiti di questo modo di pensare.
Nelle tradizioni preistoriche la discontinuità è la regola.
Se immaginiamo che lo sciamanismo comportasse un’esperienza arcaica straordinaria ma ormai inattingibile, come faceva Eliade, il suo mondo ci resterebbe tanto estraneo quanto affascinante. Mentre sto tra i Dukha mi convinco che le cose stanno diversamente, e non tanto perché la coriacea Saintsetseg mi abbia affascinato. Nelle tradizioni preistoriche la discontinuità è la regola, e più volte, anche nella storia dello sciamanismo, i medesimi atti sono stati similmente reinterpretati, se non reinventati, al cambiare del contesto. Il bisogno di entrare in relazione col mondo naturale è invece forse un dato antropologico universale, e questo mi impedisce di pensare che la fine di una data forma di sciamanismo significhi soltanto decadenza e morte di una tradizione. La storia continua, tra le differenze.
La più profonda differenza, in questo caso, la fanno la taiga e le renne. La presenza della sciamana, che in pratica è una sacerdotessa, presuppone un legame animistico con la natura che riguarda tutti: la vecchia signora che mi mostra le sue erbe medicinali, l’uomo che fa un’offerta prima di andare nel bosco a cacciare, e tutti i Dukha quando semplicemente vivono la loro familiarità con le renne. Noi che arriviamo dalle città occidentali a osservare queste vite potremmo dire con parole nostre: lo sciamanismo si fonda sull’animismo e l’animismo non è soltanto una dottrina, prerogativa di pochi, ma prima ancora e originariamente è un’esperienza, una modalità percettiva, un rapporto costante e necessario col cielo, il vento, la foresta, gli animali, che fanno parte della vita, convivono, emozionano, interagiscono con gli umani, danno e tolgono. Come tale, lo sciamanismo non è trapiantabile nella sua forma originaria dove quella vita non si conduce più. E l’animismo dei Dukkha, a sua volta, è inseparabile da quel modo di vivere in cui i miei sensi si sono risvegliati per alcuni giorni, e che può ritrovarsi oggi in altre forme e circostanze, che in parte sono ancora imprevedibili. Il magico è in quel quotidiano, nell’esposizione dei sensi ai processi meteorologici, vegetali, animali, nell’interdipendenza vitale con le renne, gli spiriti che torneranno a visitarmi in sogno.
Tutte le foto incluse nell’articolo sono di Paolo Pecere.