C ome è stato possibile per una generazione di ragazze e ragazzi, nata, cresciuta e educata dalla scuola fascista, rivoltarsi contro quel regime, fino a prendere le armi per volerlo rovesciare? È una domanda che spesso mi sono fatto, non soltanto seguendo le singole biografie di partigiani e antifascisti giovani e giovanissimi alla fine della guerra, ma studiando il passaggio storico della scuola tra fascismo e Repubblica.
Non è possibile dire se c’era un punto centrale, nel periodo che chiamo il dopoguerra, e se ha senso cercarlo oggi. Guardandolo nel suo insieme è un prisma, e ha singolari proprietà prismatiche: beve una parte della luce, mentre una parte rimbalza sulle sfaccettature e schizza via… Come spere di sole che entrino per le fessure degli scuri in un tinello buio, e vadano a colpire il prisma di cristallo posato sulla tavola, così le cose che sono accadute in quel tempo attraversano questo nodo prismatico in vividi fasci di raggi… Per un verso le immagini ne escono con astratti pennacchi di rosso di verde e di viola, come ridipinte, rinnovellato e, intensificate. È un quadro più bello a vederlo, che non sia stato a viverlo per un altro verso, tutto si deforma bruscamente: sembra che i raggi si scavezzino, spostino le cose, le vedi dove non sono, e come non sono, con improvvisi gomiti, fratture… Forse questo non spiega lo strano effetto a cui ho già accennato più volte, le contraddizioni dei caratteri generali che il periodo ha assunto nel mio ricordo. Credo di non dovermene preoccupare, sono tratti costitutivi, e se si contraddicono non è colpa mia: tutto ciò che posso fare e di guardare almeno nel prisma in modo relativamente ordinato, risalire al principio, ai primi momenti del dopoguerra…
Questa è una pagina dello scrittore Luigi Meneghello. Nel romanzo-memoir Bau-sete! descrive il passaggio dal fascismo alla Repubblica come una fase dove gli elementi di continuità e di discontinuità si mescolano e soprattutto si confondono nella memoria, anche alla luce degli esiti, negli anni successivi, di alcuni tra i processi sociali e politici che prendono l’avvio in questa fase. Ecco l’ideale di una rinascita anche culturale e pedagogica che è al centro del romanzo lasciare il passo alle immediate difficoltà di costruire una società nuova, e poi velocemente alle disillusioni.
Ma nel romanzo c’è anche – figura rara nella letteratura italiana – il personaggio di un maestro eroico, realmente esistito: Antonio Giuriolo, che torna anche in Fiori italiani e in Piccoli maestri. L’esempio di Giuriolo non illumina soltanto la dimensione etica e politica della Resistenza ma anche quella pedagogica. La relazione educativa come formazione politica: sarà così per esempio anche per un’altra delle relazioni più paradigmatiche per il racconto della Resistenza, come quella tra i professori Pietro Chiodi, Leonardo Cocito e lo studente Beppe Fenoglio nei libri scritti da Chiodi e da Fenoglio stesso.
Questo è ciò che accade per molti studenti italiani, e per molti docenti. I banchi dei licei e delle università sono i luoghi dove nasce una coscienza antifascista, spesso attraverso l’esempio di professori – è il caso romano di Gioacchino Gesmundo, Pilo Albertelli, Raffaele Persichetti, Guido Calogero – o anche di un’autoformazione tra pari. (Si può vedere per esempio: Paolo Alatri, I giovani di Roma alla riscossa, o Franca Caputo e Giorgio Caputo, La speranza ardente: storia e memoria del movimento studentesco antifascista romano).
La sterminata storiografia che riguarda gli anni dal 1943 al 1948 non mette quasi mai al centro la scuola.
Nonostante questo, la sterminata storiografia che riguarda gli anni dal 1943 al 1948 non mette quasi mai al centro la scuola, men che meno il dibattito sull’educazione, come terreno di scontro politico e ideologico o come cardine delle trasformazioni radicali del dopoguerra. In testi scritti anche lontano, tra loro, nel tempo come Italia 1943-50. La ricostruzione a cura di Stuart J. Wool, in Intervista sulla Ricostruzione 1943-1953 di Pasquale Saraceno a cura di Lucio Villari, in Storia dell’Italia moderna. La fondazione della Repubblica e la ricostruzione di Giorgio Candeloro, in Dopoguerra. Gli italiani tra speranze e disillusioni (1945-1947) di Mario Avagliano e Marco Palmieri a tutto questo non si fa cenno. Quando Monica Galfré in Tutti a scuola! scrive:
Il passaggio dal regime fascista alla democrazia repubblicana non è un processo lineare neanche per la scuola. I disastrosi effetti della guerra minacciano la sua stessa sopravvivenza: chiusa per lunghi periodi, talvolta spogliata di cancellate e maniglie metalliche da mandare alle fonderie, non è risparmiata neanche dai bombardamenti, come nell’ottobre 1944, quando nel quartiere milanese di Gorla rimangono uccisi 184 bambini e tutti i maestri. Chi non ricorda la maestra Ida Mancuso, protagonista della Storia di Elsa Morante, che in una Roma violentata dalla guerra continua a insegnare in condizioni sempre più disperate, fino a che un giorno al posto della sua scuola trova un cumulo di macerie?
Galfré racconta più che una complessità un deficit multiplo. La scuola nel passaggio da fascismo a Repubblica non è una priorità né per il mondo politico, né per l’opinione pubblica, né per gli intellettuali.
Il 15 settembre 1943, una settimana dopo l’armistizio, non solo lo Stato, ma anche il sistema scolastico viene diviso in due. Nel regno del Sud si comincia quello che si rivelerà un accidentatissimo percorso di defascistizzazione, nel quadro della cosiddetta “epurazione nazionale del fascismo” condotta dalla Commissione alleati, guidata da Carleton Washburne; nella Repubblica sociale italiana Carlo Alberto Biggini succeduto a Bottai il 6 febbraio del 1943 e confermato al ministero dell’educazione a settembre tenta una serie di operazioni più di facciata che sostanziali: la conciliazione della prospettiva di Bottai con quella di Gentile, la deborghesizzazione nominale delle scuole superiori che diventano tutte “licei”. (Fa abbastanza impressione oggi leggere l’intervista di Cazzullo alla nipote di Bottai sul Corriere che lo racconta una sorta di fascista anomalo, non integrato nel regime).
La transizione tra autocrazia e repubblica è un processo complicato e fragile. La sconfitta militare del fascismo, che si riverbera nel crollo dell’amministrazione civile dell’Italia che si emancipa dal fascismo, rivela una comunità scolastica poco coesa se non sbandata, un sistema scolastico che assomiglia a un paesaggio rovinoso. Se c’è un elemento comune a molti governi fascisti e neofascisti è la confusione normativa – lo vediamo anche oggi – che rende più facile l’arbitrio, e quindi la violenza dello Stato.
Uno degli aspetti peggiori dell’intervento scolastico è l’accatastamento alla rinfusa di innovazioni male assimilate, troppe riforme altisonanti, troppo poche attuate fino in fondo. Tanto che non era insolito trovare, tra gli educatori italiani di mezza età abbastanza poco fascisti da poter essere lasciati ai propri posti, chi auspicava un ritorno ai metodi prefascisti (ovvero un ritorno a quelli di Gentile). I principi normativi erano stati tanto rielaborati, deformati dagli emendamenti e totalmente alterati nei loro principi che questi educatori credevano che fossero la vecchia base su cui i fascisti avevano costruito sostanzialmente a casaccio.
Uno degli aspetti peggiori dell’intervento scolastico è l’accatastamento alla rinfusa di innovazioni male assimilate, troppe riforme altisonanti, troppo poche attuate fino in fondo.
Per chi si trova alla fine della guerra a dover intervenire nella ricostruzione, la questione principale è cosa salvare di un regime che ha voluto che l’ordinamento scolastico italiano avesse come obiettivo la produzione di nuovi fascisti, tenendo conto che l’ordinamento liberale precedente per la scuola non era un modello certo da rimpiangere. Il desiderio di trasformazione, la necessità di non distruggere il delicato impianto scolastico in un momento di crisi, la volontà di conservare alcuni elementi di riforma che pure il fascismo aveva contemplato o a cui si era nominalmente ispirato convivono con una spinta inerziale che sembra prolungare l’era della scuola fascista anche dopo il 25 luglio e l’8 settembre 1943, e pare soltanto spezzarsi simbolicamente solo con la morte di Giovanni Gentile, l’uomo della scuola fascista per antonomasia, il 15 marzo del 1944, giustiziato a Firenze da un commando partigiano.
Morto Gentile, rimangono molti prodotti e sottoprodotti della sua riforma. L’appellativo stesso della “più fascista delle riforme” le resterà appiccicato sfavorendo un intervento normativo organico e efficace, tenendo conto di come il fascismo aveva strutturato il suo progetto di scuola soprattutto attraverso una legislazione sovrabbondante e capillarissima: durante i vent’anni del regime vengono varati oltre 3.500 leggi e decreti sulla scuola. Questo dato lo ricaviamo dal libro più bello sulla scuola fascista: Fascismo e scuola: la politica scolastica del regime, 1922-1943 di Jürgen Charnitzky.
La resistenza più forte al cambiamento si palesa proprio nella difficile transizione ideologico-culturale. Come scrive Angela Nava Mambretti nella Scuola democratica (1947-1953) “l’esperienza del ventennio, la sua burocrazia, il suo cialtronesco e pervasivo umanesimo non potevano essere eliminati con una velleitaria negazione, con il recupero in senso democratico di alcuni strumenti (ad esempio l’esame di maturità fortemente selettivo) già forniti dalla riforma gentiliana del ’23 e ‘mal usati’ dal regime”. Ecco qui che tornano le caratteristiche transtoriche del fascismo: il cialtronesco e pervasivo umanesimo.
Ma se soltanto a partire dagli anni Novanta, la storiografia italiana ha cominciato a dare per assodato l’assunto storiografico che il regime si fosse fondato anche sul consenso di massa degli italiani, ancora oggi è difficile rintracciare un lavoro unitario sul processo di defascistizzazione della scuola e sul dibattito che accompagna questo processo, anche se continuano a uscire saggi interessanti (i libri di Luca La Rovere, per esempio) che affrontano la questione ipersceverata della relazione tra intellettuali e regime anche dentro la scuola.
Al tempo stesso è difficile, forse addirittura impossibile e fuorviante dal punto di vista storiografico, rintracciare una storia della pedagogia antifascista. Franco Cambi nel suo Pedagogia dell’antifascismo, uno dei pochissimi contributi in merito, parla di “pedagogie dell’antifascismo, al singolare e non al plurale, perché l’esperienza politica e culturale degli anni da noi esaminati dà luogo a posizioni assai diverse a prospettive educative differenziate che mantengono un collegamento unitario essenzialmente in un’area di valori”. Se alcuni prodromi per Cambi possono essere identificati in esperienze risorgimentali, Carlo Cattaneo o i socialisti Rodolfo Mondolfo o Alfredo Poggi, è facile constatare come questi siano rimasti marginali: non hanno intaccato di fatto un modello di educazione liberale borghese all’autocoscienza basato sulla distinzione tra classi di potere e classi subalterne.
Quale è il grado di penetrazione dell’ideologia fascista e quale la resistenza tra i docenti alla pedagogia di regime?
Cosa è la Resistenza alla luce di tutto questo? Un momento maieutico, o almeno una matrice di esperienza pedagogica per diversi intellettuali: gli esempi che cita Cambi sono Lamberto Borghi, Aldo Capitini o il filosofo marxista Antonio Banfi, che comincia a interessarsi di questioni pedagogiche proprio negli anni del fascismo (una sintesi della sua riflessione si può trovare in Sommario di storia della pedagogia del 1931 che contiene diverse rarità per il tempo, come una dettagliata analisi storica delle istituzioni educative e addirittura una panoramica internazionale che comprende anche le pedagogie orientali). Queste figure affiancano alla riflessione anche con un coinvolgimento personale espressamente politico dopo la seconda guerra mondiale, quando “lo spirito della Resistenza” sembra che possa e debba costituire quella dimensione di rifondazione della politica e pedagogia che contrasti con l’ideologia del regime.
Se la lezione pedagogica della Resistenza, vedremo poi, non riesce a comporre un programma per la scuola nazionale, e la sua ideologia pedagogica resta astratta, disomogenea, a causa delle le incertezze che connotano il discorso dei partiti e delle organizzazioni antifasciste, ancora più problematico è riconoscere come il discorso pedagogico di chi ha partecipato alla Resistenza si sia formato a partire dai maestri intellettuali dell’antifascismo: Gramsci, Calogero, Capitini, Banfi…
A parlare di scuola sono spesso coloro che ragionano di politiche culturali e di ideologia. Più raramente, ma in modo più interessante, accanto agli ideali di libertà, giustizia e democrazia, si delineano anche quelli più operativi di autogestione e autonomia, della gestione della scuola e delle forze di lavoro, della libertà di insegnamento come scelta-responsabilità da parte dell’insegnante, di una linea culturale e didattica, ancora più raramente quelli di una scuola anticlassista.
Il crollo del fascismo apre quella che Pier Giorgio Zunino per esempio definisce una no man’s land,
una terra a metà strada tra fascismo e antifascismo, rifiuto delle premesse ideali e sociali del regime e accettazione di fatto di almeno alcune di quelle premesse e degli obblighi a loro impliciti. Una posizione variegata incerta si sarà inteso frutto di un intenso e inestricabile amalgamarsi in cui confluiranno ora indicazioni e furori personali ora rispettabili esigenze professionali o imperiose sollecitazioni di status e legittimo amor proprio intellettuale.
Allo stesso modo Simon Levi Sullam, nei Fantasmi del fascismo, sulla scorta di una visione pessimista degli intellettuali (“chierici che tradiscono” secondo la definizone di Julian Benda; “disposti a rafforzare piuttosto che a mettere in discussione le strutture esistenti dell’autorità” secondo Zygmunt Bauman; che “quasi sempre contribuiscono alla perpetuazione delle forze dominanti” secondo Pierre Bourdieu), esamina una serie di biografie paradigmatiche, ricavandone come un’impressione amara: la cecità generazionale.
Come ha fatto la presa di coscienza dell’antifascismo ad attraversare quel mondo della scuola sopravvissuto a vent’anni di regime?
Tutte queste figure tesero in seguito a sottovalutare – e retrospettivamente a sminuire – l’influenza e i condizionamenti esercitati dal fascismo sulle loro attività intellettuali, scientifiche, culturali: rivendicandone ad esempio la natura “tecnica”, oppure sottolineando la propria indipendenza critica o creativa non influenzata dalla dittatura. Essi diedero in tal modo prova anche – negli anni del fascismo – di quella che è stata chiamata la “cecità degli intellettuali verso le forze sociali che dominano il campo intellettuale e quindi le loro pratiche”.
Più di dieci anni fa Luca La Rovere poteva censire la storiografia sul dibattito postbellico dedicato al fascismo, elencando le varie posizioni ma anche i molti vuoti, e segnalando come mancasse un “un lavoro organico sulla defascistizzazione della scuola e dell’università, nonché sul dibattito che accompagnò il processo”, mentre è innegabile che questo dibattito fosse vitale anche sulla stampa.
La domanda che resta aperta è: come la presa di coscienza dell’antifascismo attraversa quel mondo della scuola, o anche quel “partito della scuola” (intellettuali, insegnanti, politici, pedagogisti…) che è sopravvissuto a vent’anni di regime? È esistito un movimento antifascista nella scuola durante il fascismo e si è formato negli anni della guerra o nel tempo successivo al 25 luglio 1943? Se la bibliografia su educazione e fascismo è cresciuta molto negli ultimi anni, più in ombra invece è rimasto il profilo ideologico e culturale e operativo degli insegnanti nei vari ordini scolastici. Questo lo fa vedere sempre Cambi, forse perché ha un approccio da pedagogista a tutta la questione. Come si cambia mentalità, come ci si converte da fascisti a antifascisti, o almeno a nonfascisti, come lo si fa avendo un ruolo da educatore?
Un settore ancora più trascurato è stato quello degli insegnanti antifascisti che specialmente nelle scuole superiori (licei in particolare) erano presenti, se pure ben vigilati dai presidi che già nel 1923 avevano assunto con decisione questo ruolo di controllo ideologico. Sulla carta la classe docente e tutti gli organi amministrativi della scuola sono oggetto di sottomissione univoca da parte del regime. Il Consiglio superiore della pubblica istruzione viene spogliato di ogni potere deliberativo e ridotto a mero organo consultivo se non simbolico: una riforma che ancora oggi pesa. Ma soprattutto, come nota Antonio Santoni Rugiu già nel 1959 (Il professore nella scuola italiana) nella prima ricognizione storica di lungo periodo sull’evoluzione dell’insegnante italiano:
La facoltà di critica degli insegnanti organizzati venne rimessa alla discriminazione delle autorità scolastiche, il cui compito era di richiamare giornalmente gli insegnanti alla loro responsabilità e solo eccezionalmente consentire l’accoglimento di proteste, purché non provenissero da organizzazioni sindacali o didattiche immeritevoli di parlare a nome dei colleghi, sul che dovevano decidere i provveditori.
Nell’analisi di Santoni Rugiu viene mostrato come i principi ispiratori della riforma siano: disciplina, gerarchia, sottomissione all’autorità. Gli elementi da eliminare: lo spirito di autonomia e l’innovazione didattica. Vengono invece abolite le varie forme di rappresentanza dei docenti nei consigli e nelle deputazioni provinciali, nelle commissioni per i ricorsi. In più l’autorità del preside viene aumentata e trasformata di fatto nella pura vigilanza degli insegnanti, dentro e fuori la scuola; mentre la formazione degli insegnanti viene improntata secondo un’impostazione idealistica ispirata alla filosofia gentiliana, ossia un minestrone di attivismo, spiritualismo, autoritarismo, obbedienza al regime. Quanta di questa roba ha avuto un esito di lunghissima durata?
Oltre ai sindacati, anche le organizzazioni degli insegnanti, dall’Unione magistrale o la fin allora battagliera Fism, non soltanto vengono sciolte, ma non si leva quasi nessuna forma di protesta.
Ma la fascistizzazione degli insegnanti va anche oltre gli obiettivi di Gentile. L’inquadramento dei docenti nelle organizzazioni del regime dal 1925 procede spedito. La Confederazione fascista della scuola svolge una funzione di primissimo piano. Il 5 dicembre 1925 si svolge il primo congresso nazionale, chiarendo il modello di quello che avverrà negli anni successivi: partecipano ottomila insegnanti, la regia del congresso è stata attentamente curata per mesi attraverso una propaganda capillare nelle scuole. Il primo novembre la rivista La cooperazione della scuola scrive:
Le leggi fascistissime andranno prossimamente in senato, siamo certi che l’alto consenso vorrà approvarle. Alla corporazione al ministero della pubblica istruzione incomberà tra poco uno dei più alti e tremendi compiti: la loro energica e intelligente attuazione. Bisogna sì evitare alla scuola ogni scossa pericolosa, ma bisogna pur liberare la scuola dai pochi elementi assolutamente refrattari al clima spirituale e morale della rivoluzione fascista. L’opera richiede fermezza e coraggio richiede inoltre grande onestà e sicura avvedutezza.
Oltre ai sindacati, anche le organizzazioni degli insegnanti, dall’Unione magistrale o la fin allora battagliera Fism, Federazione italiana scuole medie, non soltanto vengono sciolte, ma non si leva quasi nessuna forma di protesta. Gli insegnanti si adeguano al regime, come la maggioranza schiacciante di tutti gli altri italiani. Domandiamoci allora oltre i singoli casi citati come quelli di Cocito o Chiodi, trasfigurati anche nella letteratura, quale è il grado di penetrazione dell’ideologia fascista e quale la resistenza tra i docenti alla pedagogia di regime? La pervasività dell’ideologia fascista e la difficoltà a rintracciare fonti riescono difficilmente a fare emergere un contesto di elaborazione comune di riflessione antifascista, persino in luoghi più avvertiti come le scuole superiori dei centri urbani, ma ci sono delle eccezioni.
Noberto Bobbio ricorda per esempio come nella Resistenza torinese si costituì un nucleo di lotta e riflessione importante intorno al Comitato di Liberazione della scuola del Piemonte, dipendente direttamente dal Cln piemontese, ma che questa fu appunto un’eccezione. Da un lato il controllo stretto da parte del regime minaccia individualmente gli insegnanti che provano a manifestare una posizione antifascista, dall’altro lato si diventa marziali nel cooptare nelle organizzazioni militari il mondo della scuola; la parte maggioritaria degli studenti elementari fanno parte, abbiamo visto, dell’Opera nazionale balilla.
I pochi nuclei clandestini di docenti riproducono spesso la composizione ideologica similare a quella che si mostrerà nel Cln: democratico-cristiani, comunisti, socialisti, liberali-democratici. Gli insegnanti antifascisti che poi diventeranno partigiani non provengono solamente dai licei, ma in casi più rari dai professionali e dagli istituti magistrali (anche queste testimonianze sono rare). In Insegnanti antifascisti nella scuola secondaria di Bologna, Franco Cambi conclude:
C’è molto conformismo e “nicodemismo”, con forme di resistenza generica e ingenua. Certo in un regime totalitario di massa come quello fascista non era possibile fare molto di più: il conformismo era generale e sotto controllo specialmente nella pubblica amministrazione, così anche la classe insegnante più colta, costretta tra fideismi ufficiali e censure possibili, era di fatto prevalentemente integrata.
Le analisi sull’ideologia dei docenti durante il fascismo mostrano come in maniera sistematica si sia voluto inquadrare i docenti nelle organizzazioni fasciste e nei riti del regime:
Il fascismo, se non aveva una politica scolastica, sapeva tuttavia, tuttavia, come organizzare il consenso soprattutto tra i più sprovveduti insegnanti elementari. […] L’opera di fascistizzazione della scuola e degli insegnanti proseguiva alacremente. Il fascismo si avviava alla Conciliazione, “punto più alto della sua parabola”, come scrisse Rodolfo Mondolfo, e ai futuri trionfi imperiali, non trascurando, anzi enfatizzando l’importanza della scuola.
Non bastano il delitto Matteotti prima, e il concordato poi, a scatenare un’indignazione generalizzata, figuriamoci una contestazione al regime. La mobilitazione per la scuola avviene allora attraverso le associazioni degli insegnanti a lungo tenute silenziose dalle scelte impositive della dittatura. Nel 1944 ricominciano la propria attività sindacale l’Aimc, l’Associazione Italiana Maestri cattolici e l’Uciim, l’Unione Cattolica Italiana degli Insegnanti Medi, che raccolgono rispettivamente gli insegnanti della scuola elementare e della scuola media. Nell’agosto 1946 si riuniscono a Roma una ventina di insegnanti nella sede dell’Einaudi, la maggior parte dei quali ha fatto la lotta partigiana o ha militato in qualche organizzazione antifascista, e da quel nucleo nasce l’Adsn, l’Associazione per la difesa della scuola nazionale, che dal 1947 comincia a stampare la sua testata, Scuola democratica. Sempre nel 1946 rinasce la Fnism. Fondata nel 1901 da Giuseppe Kriner e Gaetano Salvemini, l’abbiamo ricordato, è la prima associazione professionale dei professori; viene abolita con le leggi fascistissime nel 1926 e si ricostituisce nel 1946 a Milano a opera di Antonio Basso e di altri insegnanti del Cln.
Ma questa ricostruzione riguarda quella che potremmo definire la sovrastruttura della questione. La struttura è un’altra: la conversione – rivoluzionaria per molti versi – all’antifascismo. Su questo occorre andare a guardare almeno pochi passaggi chiave della Resistenza, e affrontare il vero moloch della scuola fascista, che resiste alla caduta del regime: l’impianto gentiliano. Ecco la definizione perfetta che ne dà Tristano Codignola:
una riforma che è nella sostanza una curiosa mistura di liberalismo illuminato e di autoritarismo classista, liberale nei modi, conservatrice nei fini e nelle strutture, autoritaria sul piano amministrativo, antisindacale, […] s’introduceva alle elementari l’insegnamento religioso; e insieme si istituzionalizzava il concetto di una serie di chiuse successive, che assegnavano a ogni classe sociale mète precostituite e invalicabili, ed aprivano l’università, attraverso un sistema rigidamente elitario, alla sola classe egemone. La strada del liceo classico si confermava come la strada del privilegio di classe […]. Tutto il resto del sistema regrediva progressivamente fino alle istituzioni destinate al Paese più povero, come schiavo del suo destino.
Quest’impostazione corrispondeva addirittura – e questo non è mai sottolineato abbastanza, mai ricordato fino in fondo quando si parla di come riformare la scuola – a un’impostazione filosofica. Per Gentile e l’idealismo l’alta cultura doveva essere limitata a una piccola minoranza della popolazione. La scuola gentiliana è ontologicamente classista. E l’opposizione a questo blocco intellettuale, ideologico, culturale, politico e sociale non si coagula negli anni Venti e Trenta intorno a un unico soggetto. Perché?
Il movimento partigiano non ha avuto modo di elaborare una riflessione complessiva sul tema della scuola.
Certo, c’è anche la questione generazionale che dovremmo provare a cogliere come sintomo dell’isolamento culturale. Alla generazione nata negli anni Dieci del Novecento erano essenzialmente ignoti riferimenti antifascisti che oggi per noi sono dirimenti: gli scritti di Antonio Gramsci, come quelli di Piero Gobetti o dei fratelli Rosselli. Allora diventa molto interessante ricostruire come si pongono i problemi scolastici nelle Repubbliche partigiane: da quelli amministrativi a quelli della formazione degli insegnanti, a quelli dei libri di testo. L’idea che la Resistenza fosse una parentesi che non avrebbe scalfito il sistema scolastico d’impronta gentiliana sembra riassunto con ironia perfetta in una pagina del Partigiano Johnny:
Johnny e Tito goggled e ripartirono. Marciavano leisurely ma strongly, Tito il primo, con una cert’aria d’ebreuccio di ghetto polacco per via del cappotto d’agnello invernale che botolava il suo corpo minuto. Geo seguiva con un irrimediabile broncio, broncio a Mario, a se stesso, ed anche all’arma, che, ora che gli pendeva al braccio, non gli pareva superiore ad un modesto moschetto. Fred veniva ultimo, sguazzando orribilmente nei punti disgelati, per i suoi schizzi getting duramente rampognato dai primi. Johnny camminava, gli occhi fissi alla geniale silhouette di Tito, umoristizzata dal cappottone di pelo, ma in realtà chiuso, assediato nella sua mente. Pensava a se stesso, al suo grado di sopravvivenza intellettuale, gli parve di pencolare su un abisso quando, ad un test, constatò di non ricordare nulla degli aoristi. – Tutto questo finirà, ed io dovrò rimettermi da capo col greco, non potrò mai fare a meno del greco per tutta la vita… – La cosa era orribilmente noiosa, da sentirne fin d’ora la nausea della lontana fatica. Forse era meglio morire nei partigiani: incredibile, si trattava di una vera e propria sistemazione borghese. – Tutto questo finirà… – ed allora decise di goderne, di quel marciare, nell’aria algida, con un’arma al braccio, in quel sole vittorioso, verso il delizioso paese del prelievo tabacchi. E si trovò a recitare: – Nun au deur’icomen… – a voce involontariamente intellegibile, sicché Tito si voltò intrigato e interessato, fu delizioso l’incrociarsi delle sue ciglia delinquenziali, e rivoltandosi avanti affondò nella neve inavvistata.
Già nel 1975 lo straordinario storico della scuola Remo Fornaca, attraverso Giorgio Bocca, arriva alle conclusioni che sono ormai un caposaldo storiografico, soprattutto dopo la pubblicazione di Una guerra civile di Pavone: “La Resistenza fu a suo modo una rivoluzione, ma non tale da mettere in discussione i rapporti fra le classe, i gruppi, gli strati sociali”. E nemmeno ovviamente la scuola. La misconoscenza della scuola conta più dell’indirizzo politico. Lo stato dell’arte è chiaro, lo sintetizza sempre Fornaca:
Difesa o integrazione della riforma Gentile, costituzione di una scuola del lavoro, spiritualità dell’educazione, convergenza o non sulla scuola media unica lasciando in piedi quella integrativa, sembrano essere stati i motivi di fondo fino al 1943. Non stupisce in fondo che solo da parte delle forze resistenti, di alcuni schieramenti che avevano ben presente il rapporto esistente non in senso generico, tra scuola e società, tra gruppi, strati sociali e organizzazioni scolastica, il problema della scuola e dell’educazione cominciò a porsi in termini di contrapposizione politica, ideologica, pedagogica, didattica, culturale.
Eppure, già nel contesto di intellettuali che avevano scelto la lotta partigiana era presente la volontà di rompere nettamente con il passato fascista e dittatoriale; mentre alcuni tra i più importanti intellettuali ispiratori della Resistenza pensano come il conflitto contro il fascismo sia anche una forma di rigenerazione, ma con una prospettiva liberale per cui la scuola ha una funzione di selezione e di screening: da Adolfo Omodeo che parla dei danni del livellamento della scuola fascista, e della mancata selezione della classe dirigente, a Piero Calamandrei che nella prefazione a Scuola e democrazia di Giovanni Ferretti scrive:
Che la classe dirigente sia veramente formata, com’è ideale democratico dei migliori, di tutte le classi, in modo che da tutti gli strati sociali, anche dai più umili, i più giovani e idonei e più meritevoli possano salire ai posti di responsabilità, dipende dalla scuola, che è il vaglio dei cittadini di domani.
È singolare come alla vigilia della Costituente la sinistra democratica italiana fosse così sprovvista di cultura pedagogica, come desse per scontata l’apertura di una frattura tra governanti e governati determinata dal sistema educativo, e ponesse come correttivo al massimo la selezione dei capaci e meritevoli, che è rimasto ancora oggi il rifugio dei liberali di destra, dei gentiliani, dei fascisti che si spacciano per progressisti. C’è da dire che il movimento partigiano non elabora una riflessione complessiva sul tema della scuola. Negli Ideali pedagogici della Resistenza Quinto Casadio prova però a elencare alcuni tratti, che ritornano:
- ansia di giustizia, di libertà, di cultura;
- scuola democratica nelle sue strutture, nei suoi contenuti, nei suoi metodi;
- autonomia rispetto al potere esecutivo;
- scuola come diritto che la collettività deve garantire a tutti i suoi membri in egual misura, e l’unico elemento discriminante non può essere dalla capacità e dalla intelligenza propria di ciascuno;
- scarsa attenzione all’indirizzo da darsi ai vari tipi di scuola ma espressa necessità di superare l’antica opposizione tra cultura e lavoro e conseguentemente tra scuola classica e scuola, anche se non si perviene a un’esplicita definizione del problema.
Questi elementi da una parte, è vero, non riescono a trovare una sintesi, e quindi è come se in questo modo contribuiscano, per mancanza di un’elaborazione pedagogica, a fare della Resistenza una rivoluzione mancata. Dall’altra parte però è significativo leggerli attraverso la lente più politica. Nella Repubblica partigiana della Val d’Ossola (32 comuni, ottantacinquemila abitanti):
si trova riunita una straordinaria concentrazione di personalità politiche e culturali di grandissimo rilievo come Umberto Terracini, Giancarlo Pajetta, Concetto Marchesi, Gianfranco Contini, Mario Bonfantini, Franco Fortini, Aldo Aniasi, Andrea Cascella. L’apporto di queste personalità imprime alla repubblica un respiro più vasto, che supera le necessità contingenti e non solo stabilisce una rottura radicale con il fascismo, ma evoca una nuova concezione della politica come partecipazione attiva e diretta dei cittadini alla cosa pubblica.
Si aggiungono le proposte didattiche redatte da Carlo Calcaterra, critico letterario, emerge il bisogno di una scuola capace di promuovere la formazione complessiva dell’essere umano, il senso critico e la capacità di autoeducarsi. La scuola deve essere liberata da “ogni sovrastruttura di falsa mistica”, e diventare pluralista anche attraverso la reintroduzione delle lingue straniere eliminate per spirito xenofobo, e laica. Deve essere vera scuola di popolo e quindi capace di unire la società italiana anziché riprodurre le divisioni classiste della scuola gentiliana.
La pars destruens è la più facile, una chiara spinta alla defascistizzazione: sostituzione dei libri di testo, determinazione dei nuovi programmi, formazione e orientamento degli insegnanti, epurazione del personale di non dichiarata formazione democratica. La pars costruens è più confusa e complessa.
Si ripensano poi gli stili didattici puntando a affrancarsi dal modello gentiliano, si citano pensatori italiani e internazionali che erano stati dimenticati o marginalizzati: i maestri della scuola attiva! Aporti, Pestalozzi, Froebel, Ferriére, le scuole nuove inglesi, svizzere, statunitensi, lì dove davvero si andava sviluppando un’avanguardia nelle scuole. Nelle altre comunità partigiane (Valli Valdesi, per esempio, Langhe, Repubblica dell’alto Monferrato) invece le istanze che si fanno più sentire sono quelle che chiedono di affidare l’educazione al controllo del popolo. Sono istanze che mostrano come – nonostante l’occupazione nazifascista – siano molto presenti richieste radicali: le esperienze di autogoverno rompono con una tradizione autoritaria, classista e paternalista.
La pars destruens è la più facile, una chiara spinta alla defascistizzazione: sostituzione dei libri di testo, determinazione dei nuovi programmi, formazione e orientamento degli insegnanti, epurazione del personale di non dichiarata formazione democratica. La pars costruens è più confusa e complessa. In Piccoli maestri di Luigi Meneghello viene ricordata quasi con affetto questa confusione che coinvolgeva una identificazione nazionale:
Antonio non era solo un uomo autorevole, dieci anni più vecchio di noi: era un anello della catena apostolica, quasi un uomo santo. Senza di lui non avevamo veramente senso, eravamo solo un gruppo di studenti alla macchia, scrupolosi e malcontenti; con lui diventavamo tutta un’altra cosa. Per quest’uomo passava la sola “tradizione alla quale si poteva senza arrossire dare il nome di italiana; Antonio era un italiano in un senso in cui nessun altro nostro conoscente lo era; stando vicino a lui ci sentivamo entrare anche noi in questa tradizione. Sapevamo appena ripetere qualche nome, Salvemini, Gobetti, Rosselli, Gramsci, ma la virtù della cosa ci investiva. Eravamo catecumeni, apprendisti italiani. In fondo era proprio per questo che eravamo in giro per le montagne; facevamo i fuorilegge per Rosselli, Salvemini, Gobetti, Gramsci.
e al tempo stesso una identificazione culturale e pedagogica:
Bisogna pensare che il crollo del fascismo (che ebbe luogo tra il ’40 e il ’42: dopo di allora era già crollato) era sembrato anche il crollo delle nostre bravure di bravi scolari e studenti, il crollo della nostra mente. Ora si vedeva chiaro quanto è ingannevole fidarsi delle proprie forze, credersi sicuri. Penso onestamente che ogni italiano che abbia un po’ di sensibilità debba aver provato qualcosa di simile. Non si poteva dare la colpa al fascismo dei nostri disastri personali: era troppo comodo; e dunque pareva ingenuo credere che rimosso il fascismo tutto andrebbe a posto. Che cos’è l’Italia? che cos’è la coscienza? che cos’è la società? Dalla guerra ci aspettavamo queste e mille altre risposte, che la guerra, disgraziata, non può dare. Tutto pareva che fosse quasi un nodo, e questi nodi venivano al pettine. Che cos’è il coraggio? e la serietà, e la morte stessa? Non è più finita: che cos’è l’amore? […] Avevamo bensì, in questo gran sconquasso, la parte migliore della nostra cultura, quella acquistata non a scuola, ma fuori. Erano come appigli rocciosi in mezzo a una corrente. C’era l’antifascismo di Antonio; i poeti, Baudelaire e Rimbaud, alcuni altri: molte poesie singole e un gran mucchio di versi o emistichi; c’era il metodo che noi chiamavamo crociano, le distinzioni tra questa e quella forma della coscienza. Nei momenti di maggior ottimismo pensavamo che queste cose alla fine della guerra si sarebbero saldate insieme; la corrente si sarebbe ritirata, rivelando le saldature tra gli appigli, lo zoccolo di roccia, umido, del mondo nuovo. Ma questi momenti erano rari. Dopo la guerra forse il caos si sarebbe decantato: ma intanto ci eravamo in mezzo. Da ogni parte si sentiva manifestarsi un mondo infinitamente più complesso degli schemi trasmessi a noi dai filosofi e dai poeti. Si sentiva subito che questo mondo era reale: ma come era fatto? quanto grande era?