C os’è una rivista se i formati si moltiplicano e la tecnologia permette ogni tipo di periodicità e quasi elimina i problemi di distribuzione? Elisa Cuter e Francesco Pacifico ne parlano con Francesco Guglieri, editor di Einaudi e autore di Leggere la terra e il cielo: letteratura scientifica per non scienziati (Laterza, 2020), che cura per Einaudi, insieme a Marco Peano e Andrea Mattacheo, un ibrido di rivista e collana chiamato Quanti.
Francesco Pacifico: oggi parliamo di riviste, perché noi facciamo una rivista che assomiglia ancora a una rivista, anche se non “esce” ma pubblica un pezzo al giorno, e voi avete deciso di pubblicare una rivista che è fatta di tante piccole pubblicazioni indipendenti che escono insieme periodicamente. L’avete vista da subito come rivista?
Francesco Guglieri: È nata prima l’esigenza di parlarsi, alla fine credo che la cosa che è contata di più sia stato il lockdown, il primo lockdown, le contingenze che ci hanno impedito di vederci, di incontrarci, anche di andare in redazione, comunque di fare quella vita di redazione che è il bello di questo lavoro, insomma di fare libri, di fare riviste, di fare giornali, e allora cercavamo un modo per tenere vivo un dialogo, prima di tutto tra di noi, e poi con i lettori. E poi c’è anche, sì, una questione di formati: detta così sembra astratta, ma chi lavora in ambito editoriale sa quanto il formato sia in realtà anche un modo di vedere le cose, di tagliare il mondo, di tagliare la realtà, e il formato era quello di testi brevi ma non brevissimi, no?, di cose troppo brevi per farne dei libri cartacei, ma anche troppo lunghi per metterli semplicemente in rete o metterli in una rivista online o dargli un’altra forma (sui social, ad esempio). Quindi avevamo questo formato intermedio che era un modo di lavorare su un passo, che è un passo poco battuto in Italia, perché in Italia non ci sono riviste tradizionalmente che lavorano su quel formato lì, non ci sono magazine, in un momento di delirio potremmo dire che i “Quanti” sono più in concorrenza col New Yorker – se il New Yorker esistesse in Italia – che con altre collane… E poi ci piaceva spingere all’estremo in effetti l’idea del famigerato “contenuto”. Penso che un compito dell’editore per il futuro sia “proteggere” i libri, i testi, gli autori, evitando che diventino content, unicamente materiale da cui estrarre dati. Invece c’è l’idea di seguire i testi e seguire gli autori in tutte le loro possibili incarnazioni, no? sia un giorno nel libro cartaceo lungo, nel formato più breve, anche nel momento social, non so come dirti, nel momento di racconto più social.
FP: No, è verissimo. Tu appartieni alla nostra generazione, ma come editor appartieni alla generazione che ha scoperto con shock di dover fare i conti con il mercato, mentre noi ci formavamo si consolidava la grande editoria e gli editor tuoi coetanei vivono di una necessità continua di compromessi tremendi, e poi ci sono gli editor più giovani di voi che dicono di aver passato un mese a cercare di assemblare un libro di una instagrammer, quindi è interessante vedere come tu sei sempre insofferente, inquieto, e cerchi sempre di inventarti delle cose, per sfuggire a certi richiami, il dramma della saggistica pop, dei libroidi… Dei tre io associo molto questa cosa a te perché ha questo tuo carattere, questo tentativo di essere più svelto del nemico, che è l’industria, diciamo: se devo fare il libro delle influencer, allora cerco anche nel frattempo di capire come si fanno dei saggi che sfuggano all’appiattimento, al piallamento e alla necessità di andare solo verso altri codici. Io vedo questa guerra sotto a quello che stai dicendo.
FG: Ci tengo a sottolineare la fortuna, il privilegio di lavorare con Einaudi, che ha le spalle abbastanza grosse sia nel presente che nel passato da poter fare delle cose anche che stiano un po’ così… e poi anche i miei colleghi, Marco e Andrea, che hanno dato tanto e hanno partecipato tanto quanto me a questo progetto… Però penso come generazione, sia come generazione di editor/editori/lavoratori dell’editoria, sia come scrittori – ma poi questo magari me lo confermerai tu o me lo racconterai tu – siamo una generazione che – giuro, sarà l’ultima volta che pronuncio la parola “generazione” – che in qualche modo oltre a fare le proprie ricerche, cercare la propria voce, la propria strada, le proprie vie eccetera, si è trovata nella necessità di disegnare la propria strada e gli strumenti con cui tracciarla…
FP: Per via della rivoluzione tecnologica?
FG: Perché è finito un mondo e non ci si poteva basare su… su quello che c’era. E tutto andava ripensato… Non voglio dire che era una situazione post-atomica alla Kenshiro in cui devi rimettere insieme i pezzi, però un po’ così. Poi chiaramente per chi è più giovane è ancora peggio, ancora di più. Però noi per la prima volta in anni recenti ci siamo trovati a dover ridefinire gli strumenti della discussione culturale, anche perché non c’era più una discussione culturale.
FP: Chiamerei in caso Elisa, qui, e la sua generazione, che viene una decina d’anni dopo la nostra. Elisa in particolare è marxista ma è non-novecentesca, nel senso che la discussione l’ha ricominciata, insomma; noi eravamo un finale agonizzante alla fine della storia, invece Elisa rappresenta quella generazione, quindi mi interessa lei come saggista di un libro felice come Ripartire dal desiderio, cosa pensa di questa forma, del saggio di media lunghezza come un contributo al dialogo simile a quello delle riviste, o dei podcast se vogliamo aggiungerlo.
Elisa Cuter: Sì, stavo pensando in realtà a livello di grandi editori, ovviamente non c’è un paragone, invece cose proprie della mia generazione fatte anche a zero budget… Sto pensando a Istmo, a cose online, o a Menelique che ha anche il cartaceo… Quello che mi sembra però sia il rischio di fare una cosa appunto così a zero budget, comprendendo anche le potenzialità di fare il numero tematico con longform di diversi autori, è che nei progetti senza budget hai un bacino di autori raggiungibili molto più stretto, e dunque ci si ritrova molto più legati a una bolla proprio piccola, mentre la potenzialità di avere un editore grosso alle spalle – che è anche quello che cerchiamo di fare noi con Il Tascabile – è il fatto di poter raggiungere ambienti che magari non parteciperebbero nemmeno a quel dibattito perché sono legati piuttosto a tematiche che fanno parte ancora del “vecchio mondo”. Non so cosa voglio dire con questo e non voglio neanche criticare questi due progetti [ride], però mi sembra che il fatto di avere proprio un gruppo editoriale che ti supporta in questa direzione sia una buona potenzialità, quindi parlare ancora di come il vecchio sistema deve o può supportare un certo tipo di comunicazione diversa mi sembra interessante.
FP: Ma tu all’uscita del tuo libro hai fatto tantissimi podcast e dirette Instagram. Questa è una cosa che fine a poco fa non c’era e che secondo me sulla cultura è arrivata solo con la pandemia, perché anche il mondo dei podcast culturali in Italia era molto poco sviluppato prima della pandemia… E quindi sappiamo tutti che quando si parla per un’ora in un podcast, quando si parla di queste cose che ci piacciono a noi, si può mettere tantissima roba dentro, e quindi effettivamente quelli stanno diventando luoghi come le riviste, perché appunto hanno tantissimo spazio per accogliere un sacco di cose sfilacciate cercando di capire dove vanno; cioè a differenza del supplemento del quotidiano che deve comunque quagliare, oppure dei numeri monotematici che a volte appunto sono fatti anche per comodità, per velocità, siamo davanti a una proliferazione di formati che permettono di fare esattamente la cosa delle riviste, e prima ancora delle riviste, delle scene culturali, e cioè creare casino, creare un discorso multiplo… che non deve definire in ogni momento cosa sta facendo, può essere anche caotico, quindi mi interessa capire come vedete voi due questa cosa: come occasione per scrivere, per leggere, per partecipare a un discorso.
EC: Non è detto che nelle dirette di presentazione si faccia un discorso… Siccome c’è l’esigenza della promozione del libro il dibattito è un po’ accantonato, le cose non emergono… Insomma pur avanzando delle critiche al libro di Baricco, The game unplugged, mi è sembrato interessante comunque che ci fossero dentro delle posizioni anche politiche molto diverse, accomunate da un tema, ma dove si è cercato di individuare un tema di contesa per poi presentare diverse posizioni. È bello non vedere che c’è sempre quel conformismo della prefazione, siamo nello stesso progetto allora siamo dalla stessa parte, una rivista, una linea editoriale che è assolutamente monolitica. È bello che invece ci sia una linea editoriale legata a una forma entro la quale poi ci sono contenuti diversi, ma non diversi, diverse posizioni si possono misurare con quel mezzo, no?
FP: Qual è quindi questa linea editoriale dei Quanti?
FG: È interessante quello che diceva Elisa. Due cose: se tu ci pensi le riviste del Novecento sono – molte, non tutte – caratterizzate da una loro chiusura, che era il loro bello ma puoi dire anche il loro brutto, settarista, ma comunque per la loro monoliticità, monolinguismo, diciamo, una linea molto precisa; questa cosa qua è molto più difficile, per dire, non saprei dirti una linea in questo senso così netta dei “Quanti”, in effetti… C’è, c’è più un atteggiamento, una postura, un interrogare delle cose, dei temi, degli aspetti del reale da più lati, no? O comunque da una distanza tale che permetta appunto di approfondire e di sviluppare un ragionamento.
FP: Mi fa piacere che ci siamo fatti tutte queste premesse, ma a questo punto c’entra – per capire questo tipo di postura, di linea editoriale – capire con che cosa siete partiti. Mi interessa anche capire le lunghezze, le durate, cioè com’è questa rivista, come si presenta.
FG: Prima di risponderti ti faccio un cenno però a un’altra cosa che diceva Elisa – però anche tu Francesco hai scritto delle cose appunto sul concetto di “bolla”… È un elemento importante: a me quello che interessa è rompere le bolle, se non rompere le balle [ride], rompere le bolle nel senso, da editor mi chiedo come posso prendere qualcosa che io ho incontrato nei miei giri, un autore, un’idea, un testo che reputo interessante e farlo conoscere a qualcuno che non è già lì dentro, no? questo è…
FP: Sì, questo è il tema anche del Tascabile, è il tema quotidiano del Tascabile: molti dei nostri editing sono fatti così, cioè “divertiti a ri-raccontarli in modo che chi non lo sa lo scopre e chi lo sa lo vede filtrato dalla tua intelligenza”, con il doppio senso, cioè io sono contro l’idea della divulgazione, cioè non mi piace l’idea di fare una cosa predigerita: più che la divulgazione a me piace che ogni sensibilità, ogni penna voglia ridire le cose perché è un grande racconto orale in cui io, te, Elisa, per esempio, qui spieghiamo tutti cos’è una scena e la differenza tra scena e bolla e lo diciamo in tre modi diversi e il fatto che il ogni pezzo esista – cioè nel pezzo mio lo dica io… – tu dicevi “questa cosa l’ha detta Elisa ma ne hai parlato anche tu”, io e Elisa parliamo tutti i giorni ma lo diremmo in due modi diversi, e io credo tantissimo al posto della divulgazione… Credo moltissimo in questa proliferazione di dire le cose, descrivere le cose, che poi crea veramente una nuvola in cui i sensi sono aperti, come invita Walter Siti in Contro l’impegno, dove le stesse cose che diciamo sono polisemiche. Io voglio che “scena” sia polisemico, che “bolla” sia polisemico, che “mainstream” sia polisemico, quindi noi abbiamo tutti i giorni questo compito di ri-descrivere le cose e di non fossilizzarle, quindi – scusa l’inciso ma è una cosa che mi sta tantissimo a cuore.
EC: Francesco, la cosa che dicevi adesso, che anche mainstream deve essere polisemico: mi sembra che sia esattamente quel che è andato perso, nel senso che sembra quasi che il discorso politico sia diventato una polarizzazione fra progressismo e passatismo, e ogni volta che qualcuno si lamenta di qualcosa, di come le cose stanno andando adesso ti dicono “eh ma mica si stava meglio quando si stava peggio”, il fatto è che c’era ai tempi un’egemonia molto chiara, ma c’erano anche dei discorsi che erano autenticamente contro-egemonici, mentre adesso sembra impossibile, non so, forse non c’entra niente con quello che stiamo dicendo, però mi sembra interessante.
FP: C’entra col fatto, appunto, che il motivo per cui stiamo cercando di creare degli ambienti aperti alle polisemie è per introdurre dei discorsi che possano stare in conflitto con altri discorsi e non semplicemente accarezzarci tutti in un grande festival… E su questo ritorno a Francesco, perché voglio capire questa postura dei “Quanti”…
FG: Non voglio fare Sterne che si allontana sempre dalla risposta… incisi dentro incisi… ma appunto, questa cosa che dicevi, che diceva Elisa, del ri-raccontare la stessa cosa, si scontra o si confronta con due elementi: uno è appunto quella che abbiamo chiamato “situazione post-apocalittica alla Kenshiro”, che in realtà semplicemente è il venire meno di alcuni luoghi di mediazione che prima c’erano, che erano i giornali, per esempio, che ti facevano appunto un lavoro di mediazione che andava dall’autore al lettore, passando attraverso questi altri luoghi che lo ri-raccontavano… Questi sono venuti meno, secondo me, sono cambiati, si sono trasformati, tocca anche all’editore adesso… Secondo me i “Quanti” sono anche un modo per fare un lavoro di mediazione, no?, di darti i testi non nudi e crudi, ma già appunto mediati. E la seconda cosa è ovviamente che questi luoghi di mediazione sono venuti meno per motivi economici, e lì torniamo, andiamo appunto alla necessità di, da una parte, avere un ritorno di sostenibilità, dall’altra, come dire, non sottomettere a questo discorso di sostenibilità tutte le altre istanze.
FP: Sì, per me hai definito i due poli di quella eterna conversazione, perché c’è quella forma di realismo che vuole che si possa desiderare solo salvarsi dal baratro economico, e poi esiste invece spontaneamente in un sacco di gente il desiderio di fare, di costruire una sorta di slum intellettuali fatti di calcinacci che tu raccogli magari dai posti in cui lavori e ci metti insieme le cose che vuoi fare, perché ovviamente c’è chi risponde come prima cosa al bisogno di sopravvivere e quindi accetta il mondo com’è, però esistono un sacco di intellettuali che si ricordano perché sono diventati intellettuali e quindi passano la vita in progetti in perdita e a farne partire 5 perché 2 decollino e così via.
EC: Volevo dire però che il rischio è sempre poi quello di romanticizzare di fare le cose così, per passione, quando in realtà il punto sarebbe trovare il modo di finanziare questi slanci creativi.
FP: Come sai sono sempre a caccia di soldi.
FG: Perché comunque è sempre un confronto con un’alterità, confrontarsi col mercato non è soltanto un bagno di realtà o di realismo… capitalista, ma anche fare i conti con un’alterità da cui comunque non puoi prescindere, non so come dirti: io credo molto nel compromesso in realtà come motore dell’innovazione, adesso non mi viene una parola meno compromessa di “innovazione”, però ecco, appunto, bisogna essere astuti..
FP: Esatto, facciamoci qualcosa con questo compromesso, combiniamoci qualcosa…
FG: L’idea è nata per restare in contatto, alla fine per conoscere persone, per conoscere idee, per conoscere altri libri da fare o da inventarsi, all’inizio addirittura, sì l’inizio era: come impedisci a dei testi brevi, se tu vuoi lavorare con dei testi brevi, come impedisci che questi si disperdano in rete, come costruisci un’attenzione intorno a questi testi… e secondo noi l’idea era appunto di far vedere le connessioni che li univano, di come si parlavano, di come rimandavano l’uno all’altro, di come poi ogni progetto editoriale, ogni collana anche se vuoi, è una sorta di rivista molto lunga, molto lenta, molto grande.
FP: Posso fare un inciso? Mi hai risposto a una cosa a cui stavo pensando in questi giorni. Ho letto due libri piccoli Adelphi, uno della nuova collana… i Microgrammi, giusto? Per la quale tra l’altro io ho appena tradotto Hofstadter, “Lo stile paranoide nella politica americana”, poi mi hanno mandato alcuni libretti nuovi e c’era un bellissimo racconto lungo di Stevenson, “Will del mulino”, un racconto fuori di testa che sembrava mitteleuropeo e non, insomma, anglosassone, e insieme una novella di Karinthy, che è quello di Epepe, e quella novella è la storia assurda di uno che la sfanga da ebreo durante la guerra andando a letto con varie donne del caseggiato dove si nasconde. Un libro stranissimo. Leggevo questi libri contemporaneamente mentre finivo di scrivere un romanzo breve e mi sembrava che la persona che aveva scelto questi due libri stesse facendo uno statement clamoroso sulla letteratura, no? Cioè a me mi arrivano più o meno insieme nella posta, questi due libri, li raccatto prima di andare al mare e mi parlano simultaneamente, come se fosse una rivista con un manifesto con della gente che lancia molotov: cioè proprio un’idea della letteratura super potente e felice, ed effettivamente non stanno scritti da nessuna parte insieme. A me non mi andava di fare né una storia instagram né un pezzo su questi due libretti, quindi quella cosa è rimasta lì, anzi adesso sta qui in questa conversazione, ma insomma ho pensato “questa è una rivista”, cioè le case editrici a volte riescono a fare discorsi come le riviste: questa è un’intera scena letteraria scelta, non so, da Matteo Codignola o chi per lui in Adelphi. Negli ultimi anni, le case editrici hanno sviluppato anche al loro interno delle forme di rivista culturale, dei siti, di solito, per connettere le cose, sennò il vostro lavoro va quasi sprecato in molti casi, no?
FG: Sì, è così. Un tempo, come dire, era più esternalizzato questo lavoro. Potevi contare appunto su un tessuto tale di mediatori, di figure intermedie che ti facevano questo racconto qua, no?, che vedevano come libri diversissimi in realtà stavano sullo stesso scaffale. È l’idea di Collana nella storia di Einaudi, dei Libri Unici per Adelphi e così via. Oggi è meno scontato che questo si veda, perché forse in parte si fa meno nelle case editrici, ma in parte perché secondo me viene meno letto questo macro-testo, non so come dire… Una cosa che abbiamo pensato subito è, dato che nasceva come una cosa ibrida, come una cosa nuova, un esperimento, di invertire un po’ il processo normale no? Il processo normale è che tu hai dei libri, una collana, hai una gabbia grafica, un’identità grafica, e poi tutto questo lo passi a chi si occupa dei social, lo passi a chi dovrà raccontarlo in altre sedi. Invece abbiamo detto: “perché non lo facciamo al contrario? Non le passiamo fin dall’inizio come nativi digitali?” Quindi anche dal punto di vista della grafica, dell’identità grafica, ma poi dell’identità in generale, l’abbiamo pensata insieme ai Dieci04 che sono appunto le persone che si occupano per noi di Instagram e di Facebook, ma in generale che lavorano – Sebastiano Iannizzotto e Valentina Rivetti –, che si occupano appunto di comunicazione digitale, e insieme a loro abbiamo pensato appunto a una veste, a una gabbia, a un’identità grafica che fosse già adatta a vivere in vari luoghi: che sarà l’ebook, che sarà la storia di Instagram, che sarà il feed di Instagram, che sarà un giorno dei podcast o degli incontri… o degli incontri dal vivo, ecco. Pensando già come a un formato, non solo come a una copertina.
FP: E quindi anche monitorare come evolve, perché, come abbiamo visto noi facendo una rivista, cosa siamo noi dipende molto da come evolvono le tecnologie, perché è come se avessimo questo corpo che cambia nella forma e nel colore e quindi devi sempre monitorare, anche farsi progetti troppo rigidi adesso è complicato. Però dai, chiudiamo con la lista delle… prossime uscite, quello che puoi dire, così…
FG: La prima uscita, di marzo, è stata sulle “speranze”. In realtà era partita dalle “paure”, perché nasce in un momento in cui avevamo tutti paura, però appunto, anche qua, il mezzo ci dà possibilità di essere molto più agili e abbiamo capito che era il momento di, insomma, di lavorare sulla speranza – con tutta l’ambiguità anche che ha la speranza. Le prossime uscite saranno in autunno, l’idea è intorno alla parola “reti”, “reti” intesa come internet ovviamente, ma anche come rete sociale, d’amicizia, rete familiare.
FP: Quindi ogni volta fate quanti saggi? Quanti libri?
FG: Non abbiamo un numero predefinito, l’idea è farne tipo sei, cinque-sei, sette… e farli uscire tutti insieme con una periodicità di… tipo tre volte l’anno. Questo permette da una parte di avere una massa sufficiente da creare appunto un minimo di continuità e di attenzione sulle cose, di poterli seguire senza esserne sommersi, perché è comunque un progetto collaterale alle nostre vite, ma anche da avere un po’ di distanza temporale in modo da tenere vivo il discorso appunto, attraverso incontri, discussioni…
FP: Questa cosa poi finirà a formare un festival Einaudi, nel senso che chiaramente ha un tipo di andamento che sembra andare proprio lì.
EC: Stavo pensando che la cosa bella di farci un festival o comunque di mettere in comunicazione gli autori tra di loro è il fatto che se fai dei numeri così… se fai delle uscite così tematiche sarebbe bello proprio avere il dialogo tra gli autori dei pezzi, perché quello che fai invece in una rivista normale, che ha una periodicità come la nostra, è il fatto che comunque se poi qualche autore ha letto un pezzo a cui si vuole collegare per scriverne una risposta, diciamo, lo puoi fare, mentre in una raccolta partecipi a una collettività in cui ognuno ha scritto il suo e poi gli altri li leggi dopo… e per gli autori che hanno partecipato sarebbe veramente meglio incontrarsi.