Le prime pagine di Class di Francesco Pacifico, che esce oggi nella sua terza versione. La prima è del 2014, la seconda (2017) è una riscrittura in inglese dell’autore, con molte modifiche. Questa terza è riscritta a partire dalla seconda, mescolando di nuovo riscrittura e traduzione.
L a realizzazione personale di un borghese non vale il petrolio che costa. Ma tanto, Ludovica, appena sei voluta andare a vivere da sola, mamma e papà ti hanno liberato l’appartamento che subaffittavano a un amico: non potevano dirti di no, eri una figlia tanto seria, in pari con gli esami, il cineforum a casa, dog-sitter, tutor per ingrati ragazzini delle scuole private, bibliotecaria all’università, i laboratori di marketing digitale per i cinquantenni a rischio esubero. Sei quella che si ricorda sempre di cambiare l’acqua ai fiori. All’amico di famiglia che viveva nell’appartamento, separato con tre figlie, hanno dato tre mesi di preavviso. Non hai mai chiesto che fine avesse fatto, finalmente eri sola, con le prime bollette del gas e della luce, i risvegli malinconici, le routine indipendenti da quelle dei genitori.
Hai cercato di risparmiare – mai un bagno caldo, di notte spegnevi il computer –, ma per il pianeta sono uno scaldabagno, un frigo, una lavatrice, un televisore in più.
L’appartamento era lontano dal centro, al Nuovo Salario. L’affitto lo pagavano i tuoi all’ente proprietario, trecento euro, “niente…”, bloccato da anni: come ci avevano messo le mani sopra, loro che nemmeno ne avevano bisogno?, e infatti se glielo pagavi in ritardo non importava – eppure ti impuntavi, per distinguerti da tuo fratello, lui studiava ingegneria gestionale, era un ragazzo bravo e noioso, viveva ancora nella cameretta, nel letto singolo, e non aveva mai dato neppure delle lezioni private di matematica al figlio di un vicino di casa. D’altronde, dico io, i lavoretti a cosa servono al di là del rito? Cosa conta il tuo sogno di vivere da sola, di fronte alla distruzione del pianeta, alla fine della rilevanza mondiale dell’Europa, al crepuscolo della tua classe sociale?
E la tua ambizione, la tua voglia di crescere, di diventare una persona che non si accontenta: in meno di un anno le due stanze al Nuovo Salario hanno cominciato ad andarti strette. Erano oltre Villa Ada, verso le diramazioni Roma Nord dell’autostrada, con le prostitute minorenni di via Salaria in piedi alle fermate degli autobus, erano quasi nel nulla, e in un quartiere dormitorio. Saresti potuta rimanere con loro, con la gente, i meccanici che riparano le macchine sdraiati sui marciapiedi, le signore dietro ai carrelli nei supermercati, i bambini urlanti nei cortili di cemento degli asili. Il fatto è che sei cresciuta fra i platani le palme e i limoni del quartiere Trieste e perciò eri già stufa di torpore borghese, scuole cattoliche, garage privati, strade residenziali senza bar e locali. Il Nuovo Salario era soltanto la versione più economica di quella medesima noia.
Allora, come avevano già fatto amici vari, hai provato a convincere i tuoi a investire nelle borgate di Roma Est: più vicine al centro, molto più vive. Loro hanno preso i 350.000 euro liquidi della vendita a un tuo zio di un terzo della casa dei nonni vicino a San Pietro e ci hanno comprato un villino al Mandrione, accanto al Pigneto, a cinque minuti da San Giovanni e piazza Vittorio, seguendo dove andava il mercato immobiliare. Due piani con giardinetto in una via tortuosa molto Roma con affaccio sull’acquedotto romano: proprio lì, a dieci metri dalla tua finestra, un muro di pietra con gli archi, mica i vialoni prestampati dei Prati Fiscali. L’hanno comprata, «così intanto ci vai tu»; quell’“intanto” pudico dei genitori amorevoli, che è un incanto. (E la definizione “borgata”, bugia sexy pasoliniana per un quartiere così centrale, a dieci minuti dalla stazione.)
Hanno pagato anche i lavori, tu sei stata dietro agli operai rumeni albanesi senegalesi ciociari con l’aiuto di Lilla, la tua amica architetta, che praticava nello studio di suo zio. Ma la tua realizzazione personale a cosa è servita? Hai contribuito a lacerare il tessuto sociale della zona, all’inquinamento acustico dei vicini, mentre una piramide di servitori di ogni genere correva da una parte all’altra per accontentarti e tu facevi sgocciolare su di loro il denaro della tua famiglia, accumulato negli anni grazie al sistema di antifurti dell’azienda di tuo padre. Nel frattempo l’Europa moriva. Pensavi fosse ancora l’epoca in cui il borghese può realizzarsi come individuo; non ti eri accorta che montava il populismo, il qualunquismo, l’intolleranza, e che uragani, alluvioni e siccità erano entrati a poco a poco nel nostro senso di cosa è il mondo, che a nessuno importava più niente che ti sei laureata in tempo e che non ti sei mai drogata?
Per realizzarti dovevi trovare un uomo. Ti consideravi femminista, sì, ma non separatista, figurati, mai esagerare. Avevi Lorenzo, che era alto, bello e sano, spalle che riempiono le polo, occhiali da sole a goccia; dottore in Filosofia, grazie a due zii “baroni” (guai ammetterlo, mai usare quella parola) vinceva le borse di studio annuali prima dell’assegno di ricerca, eppure chi lo incrociava alle feste gli sentiva dire: «Sono un filmmaker», pronunciato filmeica.
«Niente cose in grande» per il matrimonio, hai messo in chiaro: invece poi vi siete tolti ogni sfizio, chiedendo agli amici di guidare la macchina fino in Versilia un sabato d’estate (avevi pensato all’impatto dell’aria condizionata?, quasi nessuno si è organizzato per il carpooling, sono venuti a coppie, a due a due, la processione occidentale delle coppie belle, fedeli e represse, sempre comode comode). I “ragazzi” del catering hanno servito pesce fresco e “frittini” leggeri – dire “delicati” è da coatti ma “leggeri” ti va bene – e amici e parenti hanno spuntato ogni articolo delle due liste di nozze, quella degli elettrodomestici e quella dei mobili di design. Ci avevate messo qualunque cosa, le avevate controllate cento volte ridendo: la casa da adulti, con la seconda camera, i servizi di piatti, davvero è arrivato quel momento, proprio noi?
Avete vissuto qualche settimana nella casa nuova pensando, scartando, guardando, disponendo i regali – strano vedere la propria vita futura, dall’elettricità alle sedute alla biancheria, divisa in tante scatole piccole e grandi – mentre gli operai davano buca agli appuntamenti per i cavi scoperti da nascondere, qualche mano di vernice, le finiture che questi scapestrati non finivano mai perché «l’Italia non è un paese normale dove se paghi un lavoro te lo fanno». Ora, in teoria questi dispetti ti levavano il sonno, in pratica eri concentrata su qualcosa di più importante e volevi tenere gli eyes on the prize: Lorenzo era riuscito a organizzare un anno di studio alla Columbia University, finanziato da una borsa di perfezionamento conquistata a Roma. «Lorenzo ha vinto una borsa, sì, andiamo a New York.» Quello era l’end game, vi dicevate, il vero scopo di tutto, l’America.
Siete volati a New York nell’autunno del 2010 senza mettere in affitto la nuova casa. I genitori di tuo marito hanno pensato ai bonifici per il volo e a un anno di affitto. In famiglia dicevi che proprio perché volevi dei figli, prima di cominciare ci tenevi a realizzare quel desiderio. Ti sei sposata a ventisette anni, più giovane della media «nel mio demografico» – spiegavi con un anglismo: hai tempra, hai le idee chiare, per giunta hai sempre guadagnato più di Lorenzo, e se hai un desiderio uno solo lo vuoi realizzare. Ha giovato che i genitori di tuo marito siano stati generosissimi e insieme ti sentissi autorizzata ad approfittare del ragionamento per cui «i ragazzi hanno bisogno d’aiuto, sono cresciuti in un debito pubblico tremendo che è solo colpa della nostra generazione! Non l’hanno scelta questa situazione», ne approfittavi e approfittavi della bellezza che emanavate, perché certe coppiette borghesi, quando si vestono bene e hanno quel non so che, sanno conquistare i genitori. È una bellezza, una forza sessuale, è una verità del mondo, non si può vivere senza desiderio.
Avete preso in affitto una stanza grande in una casa con pavimento di legno graziosamente inclinato, lì è normale. Dalle finestre larghe al mattino entra una pallida luce nordica; la porta di legno è marcia, ha tre serrature. È il quartiere in cui sognavi di andare, Williamsburg, o “Willy”, dici tu, dove puoi vivere fra giovani aggiornati e benestanti. (C’è anche qualche povero arrivato in autobus, come Un uomo da marciapiede, dalle pianure o dai deserti, indistinguibile dagli altri per un po’, che si industria e si accampa a casa di amici, poi finisce i soldi e scompare nel nulla.) A Williamsburg puoi fare la vita che avevi sognato al Nuovo Salario, dove però non avevi sotto casa il negozio di vinili e quello di formaggi e il biciclettaro, le taquerias eleganti, le sale da biliardo sbreccolate con la luce delle foto di Robert Frank, le nonne salvadoregne che tirano i carrelli di grattachecca per il parco, la partita ironica a bowling, la zona frigo del Duane Reade con le birre sotto la scritta “Retro brands”; non ce l’avevi il senso di esser lì tra icone future, se non ti distrai vedi nascere le mode da una settimana all’altra e da Skype le racconti a Roma. Puoi leggere Virginia Woolf guardando Manhattan dall’East River prima di tornare in Italia e mettere su famiglia; puoi passeggiare tra le locandine ciclostilate o finto-ciclostilate dei concerti, nella sfilata di persone originali, mentre due artisti di strada dipingono una enorme bottiglia di Jack Daniel’s sul muro di mattoni di un bar all’angolo, perché la pubblicità su cartellone è troppo square…
Sono morta un attimo fa, sono di nuovo già sveglia e ti vedo. Tu sei quella a cui abbiamo fatto lo scherzo. Lo scherzo in realtà era a tuo marito – uno scherzo da niente ma l’avete pagato caro, soprattutto tu. Io avevo quarant’anni, capelli rosso sbiadito e una piega orizzontale di pelle tra l’ombelico e il monte di venere.
Continuo a morire. Continuo a svegliarmi. Ogni volta che mi sveglio ritrovo le vite degli altri.
Ma solo a parole. C’è il linguaggio e nient’altro. Verso la fine della storia muoio e dopo ogni morte mi risveglio: mi sveglio raccontando la storia di qualcuno a cui ho fatto del male, ma non ho voce – passo con fatica le parole in un colino, sono una clessidra di parole, e quando l’ultimo granello è caduto mi capovolgono e mi risveglio, anche se sono morta.
Tutto è cominciato, ora ricordo, con il cortometraggio di tuo marito, una cosa brutta e pretenziosa che ci aveva irritati moltissimo.