P oetessa tra le più significative del panorama contemporaneo, scrittrice neometrica, Patrizia Valduga si è sempre rivolta all’amore, al sesso, alla morte. Nata a Castelfranco Veneto nel 1953, vive da anni in una casa a Milano sul cui campanello c’è scritto ancora “Raboni”, il suo compagno di vita, il primo a leggerne le poesie, l’ispiratore di intere raccolte, uno dei massimi poeti e pensatori del Novecento: “Mi sento ricchissima. Ventiquattro anni di vita con un genio… un genio”. Si presenta a casa sua nel 1981, appena arrivata a Milano, ubriaca, dove si scambiano il primo bacio e lui le regala una copia di La fossa di Cherubino con scritto: “A Patrizia per il mio compleanno”.
“A Giovanni / infinitamente amato” dedica il Libro delle Laudi, sofferente sequenza di versi dopo la morte di lui, maestro con “l’infinita saggezza di un vecchio e […] gli incubi di un bambino”, che le ha “raddrizzato questo cuore storpio”.
Ha fatto il liceo scientifico, ha frequentato per tre anni Medicina: “Volevo diventare psichiatra, come tutte le persone instabili psichicamente”. Poi si è iscritta a Lettere a Venezia, dove ha seguito per quattro anni i corsi di Francesco Orlando, punto di svolta della sua vita: su Illuminismo e Barocco, su Mallarmé, su Proust, sugli oggetti non funzionali nella letteratura di tutti i tempi. Scrive il primo sonetto per un professore di un altro corso, scoperto un giorno fuori dalla facoltà a fissare il canale come se volesse buttarvisi: “Mi ha dato un tale piacere sperimentare il sonetto in tutte le sue possibilità che ne ho scritti tanti fino a che ne composi due monorimi e poi smisi”. Così è nato il credo “istintivo” nei confronti della poesie e della parola. In una delle sue interviste ha dichiarato: “Non credo nell’indicibile”; quando l’ho incontrata le ho chiesto: “Si può dire tutto? Sempre?” e mi ha risposto: “C’è un verso di Petrarca, nella sestina CCXXXIX che dice: “Nulla al mondo è che non possano i versi”. È il primo comandamento dei poeti”.
Vive un completo incanto per i barocchi, per “lo scatenamento figurale del Cinque-Seicento”, per Pascoli e la sua “apparente semplicità del canto”; “Pascoli mi ha insegnato anche a non vergognarmi dei sentimenti”. Ama Tadeusz Kantor, “il più grande uomo di teatro del secolo”, Petrarca, Manzoni, Donne, Crébillon, Céline, Mallarmé.
Si leggono i poeti che si ammirano da ragazzi, da adolescenti, e si vuole essere come loro. Credo che questa sia una delle molle principali: almeno per me è stato così. Naturalmente, ancora più a monte c’è una qualche mancanza o ferita: se uno fosse perfettamente felice e in pace con sé stesso non gli verrebbe in mente di scrivere poesie, e probabilmente nemmeno di scrivere musica o di fare dell’arte.
Le sue poesie sono ruberie e citazioni, piene di richiami voluti o capitati: Valduga cita Pascoli quando nel 1897 dice “la poesia non è se non ricordo”. “Corrispondenze, coincidenze, echi, prestiti, rinvii, calchi” danno sfogo a turpiloqui, colloquialismi, tecnicismi, dantismi, petrarchismi. Ma anche a un fraseggio latino, barocco, manieristico, crepuscolare, mistico e religioso, “fino ai casi estremi del Carteggio, un falso cinquecentesco in piena regola, o di La tentazione, la cui natura di plagio e centone è dichiarata dalla stessa autrice con discutibile ma significativo eccesso di zelo” (Andrea Afribo). Luigi Baldacci scrive della tecnica compositiva di Valduga come di un utilizzo di “un materiale di riporto”, plasmato con un lavoro “di forbicine e di colla” che torna indietro per “lavorare sui rottami”.
Non so quanto ho «meditato» i versi degli altri, ma so che rubando ho «obbedito» molto spesso a un’«ispirazione» profonda, e che anche i furti in apparenza più «estranei» sono stati – oggi ne sono sicura – messaggeri, araldi, «άγγελοι» di me a me stessa (e questo è D’Annunzio).
Il continuo ricorso a ciò che la precede la porta a servirsi della metrica, diventando una delle più illustri rappresentanti nella poesia contemporanea del neometricismo. Ma sonetti, madrigali, sestine, ottave, terzine dantesche, quartine non sono usati tanto per un richiamo e un avvicinamento alla tradizione ma come “uno strumento conoscitivo in grado di attribuire una forma a quanto di troppo instabile e fluido c’è nella nostra vita” (P. Giovannetti).
Con questo stile esordisce nel 1982, con Einaudi pubblica Medicamenta, mettendo come epigrafe una terzina del canto dei ladri di Dante, dichiarazione della sua ladroneria:
Co’ piè di mezzo gli avvinse la pancia,
e con gli anterior le braccia prese;
poi gli addentò e l’una e l’altra guancia.
La ricerca scrupolosa e maniacale attorno alla lingua, ai suoni, alla metrica e al citazionismo diventano matrice di poesie che scandagliano l’uomo nelle screziature più difficili e rischiose. È però sui versi amorosi e sessuali che si è focalizzata la nuova pubblicazione di Einaudi, Poesie erotiche, una miscellanea nata da altre raccolte precedenti: Cento quartine, Erodiade (trad. di un monologo da Mallarmé), Fedra (trad. di un monologo da Racine), La tentazione, Lezioni d’amore e un epilogo (Confessioni di una ladra di versi) che è una dichiarazione di poetica di Valduga. Il Prologo (Lezioni di tenebre) contiene un insieme di poesie provenienti da altre raccolte.
Essi parlano del rapporto tra l’amante e l’amato con sconcertante verità e crudezza. L’io poetico femminile – in un gioco di scambio e confusione tra realtà e finzione – si configura come una donna succube dell’uomo che ama e dei sentimenti che prova, e descrive il rapporto che si crea tra i due attraverso il ricorso a elementi estremamente lirici e ad altri volgari, che provengono, rispettivamente, dalla voce di lei e da quella di lui.
Questo aumenta da una raccolta di poesie all’altra, raggiungendo il suo apice in poesie brusche come queste:
Non muoverti. Sta’ ferma. Ho detto: ferma!
che senta la tua fica fino in fondo.
Bocciolo mio, ti innaffierò di sperma
finché avrà fine il tempo e fine il mondo.Bel passero mio bello, sai che faccio?
te lo infilo nel culo piano piano,
voglio entrare anche lì, rompere il ghiaccio.
E sappi che se gridi gridi invano
A cui fanno da contraltare quartine di puro amore lirico:
Baciami; dammi cento baci, e mille:
cento per ogni bacio che si estingue,
e mille da succhiare le tonsille,
da avere in bocca un’anima e due lingue.Terra alla terra, vieni su di me:
voglio il tuo vomere nella mia terra,
fiorire ancora traboccando e
offrire il fiore a te, mio cielo in terra.
Quello che più colpisce è l’alternanza di elementi iperpoetici ad altri scabrosi nel mostrare scenari sessuali fatti di sudditanza, giochi di ruolo, rapporti incestuosi, insulti, e godimenti basati sul desiderio di sottomettersi all’altro o, al contrario, di dominarne ogni vibrazione. Il linguaggio diventa diretto, brutale (palle, culo, fica, sperma, imbudellare, cagna, troia, sborra), e quindi desta, infastidisce, coglie di sorpresa, e istiga il lettore attraverso gli accostamenti, la scelta delle rime, i giochi fonetici, il citazionismo, i rimandi, il metro severo.
La voce maschile si sporca di sopruso, diventa altera e schietta nella sequela di ordini, macchia la purezza del rapporto, chiede scontro e non amore. Quella femminile risponde con un fraseggio pacato, vibrante d’emozione, pieno di candore amoroso e coinvolgimento emotivo. Uno dei temi ricorrenti nelle poesie erotiche di Valduga è questa dualità di atteggiamenti, e in particolare una denuncia mai dichiarata ma perentoria contro le violenze, gli “oltraggi al mio pudore”, le violazioni identitarie, gli abusi, la svalutazione dell’essere umano e, soprattutto, della donna, che si riaffacciano dal passato, si ripresentano negli anni e condizionano il presente:
Adesso mi riaffiorano i ricordi:
ricordi d’uomini, di primavere,
di estati… […]
… La prima mano per il mio sedere. […]
però il pianto di allora non si asciuga…
«Grandi accidenti in minime sostanze»Io ti prego, ti supplico e scongiuro:
fallo dormire, amore, il tuo passato,
ciò che è stato, lo sai, è al sicuro;
fallo dormire, è tenebra impiombata.una lumaca che si squaglia… io?
col cuore che si scioglie, che mi sciacqua
le viscere, le cosce… tutta in acqua…
La denuncia, la reazione del lettore, il messaggio, il valore dell’enunciato, però, si rafforzano esprimendosi anche attraverso la fonetica e, quindi, nell’architettura verbale, oltre che semantica. La reazione dello spettatore è ricercata in primo luogo a livello sensoriale, e poi mentale. Le poesie di Valduga raggiungono e pungolano prima l’orecchio, poi la mente.
Uno degli aspetti più interessanti della sua produzione è la capacità di traslare il racconto all’interno della parola che lo plasma, in modo che lei, da sola, in se stessa, lo esprima, creando una stretta corrispondenza tra significato e significante. Le poesie stimolano il lettore per la forma in cui questo viene risolto, per la successione studiata delle parole, per l’accostamento di suoni duri, per le ricorrenze dantesce, petresche, crepuscolari o barocche.
Valduga ricerca nella lingua una funzione “erogena”, da aggiungere alle sei di Jakobson (emotiva, fàtica, conativa, poetica, metalinguistica e referenziale) e alla settima di Zanzotto (l’ipnotica). Sarebbe una funzione “che si potrebbe porre tra la poetica e la conativa, oppure come sottofunzione della poetica”, fatta di corporalità, di vicinanza sensuale alla parola, perché “La poesia è come l’amore, è nostalgia d’indivisibile: entrambi si prefiggono un po’ di perdita di coscienza, un qualche smantellamento dell’equilibrio infelice che è la nostra identità. Hanno entrambe una funzione erogena e quindi ansiolitica”.
“Sa anche farsi carne la parola”, sa diventare oggetto sessuale, occasione di godimento, gioco corporeo, sconfinamento mentale. La smania per le parole e la fregola che ne deriva portano Patrizia Valduga a sperimentare forme, violare norme, creare accostamenti inauditi e rubare agli altri per creare frizioni fonetiche che se giocano con la tradizione lo fanno smascherandola in modo beffardo e sapido. Per questo in lei c’è una “predilezione per sonetti a schema anomalo e raro, reinventati o attinti da una tradizione secondaria, manieristica e capricciosamente o fastosamente sperimentale” (Afribo), perché in ogni rigo, in ogni adesione di lettere o accostamento di vocabolario o di semantica viene ricercata una musicalità armonica o stridente che rispettivamente desta l’udito in condizioni diverse di volta in volta.
Io, che vedo con le orecchie, penso come Sartre: ‘Le sensazioni comunicate dall’organo dell’udito sono quelle che più mi lusingano e le cui impressioni sono più vive’.Ho fantasie auditive, non visive.