“L a Storia è l’unica vera fatalità: puoi rileggerla in tutti i sensi ma non puoi riscriverla. Qualsiasi cosa io faccia, qualunque cosa io dico, non resusciterò mai il coraggioso Kubiš, l’eroico Jan Kubiš, l’uomo che ha ucciso Heydrich.” Si concludeva così HHhH – Il cervello di Himmler si chiama Heydrich, il romanzo di Laurent Binet sull’Operazione Antropoide. Dopo quasi 300 pagine di ricostruzione minuziosa dei fatti, siamo arrivati alla fine, al momento in cui Kubiš e i suoi compagni si trovano bloccati dentro la chiesa di San Cirillo e Metodio, a Praga, sotto l’assedio dei soldati nazisti – hanno appena attentato alla vita di Reinhard Heydrich, la bestia bionda, il protettore di Boemia e Moravia, massimo grado delle SS.
Laurent Binet aveva provato in ogni modo a rallentare l’azione, a raccontarla ancora, meglio; aveva ricordato i meriti dei paracadutisti e delle famiglie che, con i loro sforzi, avevano permesso alla resistenza di sopravvivere anche sotto il regime; aveva dedicato a questo evento storico tutta l’attenzione possibile, tutta la meticolosità di cui era stato capace: era partito addirittura dall’ascesa del gerarca Heydrich, figura determinante nell’organizzazione della Soluzione Finale, passando alla caduta dell’Europa sotto la potenza nazista, fino all’atterraggio di Jozef Gabčík e Jan Kubiš nelle campagne ceche, per arrivare al giorno dell’attentato, 27 maggio 1942. Si era impegnato con tutte le sue forze, ma alla fine si era dovuto arrendere anche lui: in qualunque modo lo avesse raccontato, Kubiš non sarebbe sopravvissuto, non importava quante volte avesse provato a riscrivere la storia o con quale dettaglio.
In W o il ricordo d’infanzia, Georges Perec l’aveva chiamata “une autre histoire, la Grande, l’Histoire avec sa grande hache”: è la storia delle date, dei documenti ufficiali, la Storia in cui la lettera maiuscola si trasforma, con uno splendido gioco di parole, in una grande ascia che cancella le persone e le loro vite; a lui aveva cancellato la madre e, ancora prima, il padre, aveva cancellato l’infanzia, rendendola un fatto mitico, irriducibile e perduto. Scriverla per Perec era un modo per rendere familiare e infraordinaria la prospettiva della storia ufficiale; Laurent Binet, da parte sua, aveva passato anni a lavorare a HHhH, mettendo ossessivamente a confronto testimonianze, fonti, cercando la chiave che gli avrebbe permesso di raccontare l’eroico attentato a Heydrich. L’Operazione Antropoide apparteneva allo stesso tempo alla grande Storia e alla microstoria: era esistita veramente e lui voleva dirlo, senza cedere né al sentimentalismo né al resoconto asettico.
Scrivere HHhH era stata un’operazione impossibile, talmente complessa che aveva finito per estenuare tutti, lui compreso, “con le mie teorie sul carattere puerile e ridicolo dell’invenzione romanzesca, retaggio delle mie letture giovanili (“la marchesa uscì alle cinque” ecc.)”. Alla fine, poi, della ricostruzione storica era rimasto poco: il suo libro era stato risucchiato da una riflessione sui margini dell’invenzione, un’indagine metanarrativa su questioni stilistiche e di resa, tra dichiarazioni come
quando dico ‘devo’, non intendo certo che sia assolutamente necessario. Potrei benissimo raccontare tutta l’Operazione Antropoide senza citare nemmeno una volta il nome di Lina Heydrich [e] per evitare confusioni, tutti i dialoghi che inventerò – ma non saranno molti – verranno trattati come scene teatrali. Una goccia di stilizzazione, quindi, nell’oceano della realtà.
Si era trovato perfino ad ammettere che “il mio libro potrebbe anche essere un fallimento”, salvo poi non esserlo affatto: né romanzo, né opera storica, HHhH è un buon libro su come (e se) si possa dire la storia. E poco importa se, da vincitore del premio Goncourt 2010, HHhH sia diventato poi un mediocre film con Rosamunde Pike e Jason Clarke, che proprio non sa che farsene di tutti gli scrupoli e gli scetticismi di Binet: “non bisogna credere a tutto quello che si racconta, specie se a raccontarlo sono dei nazisti”, scriveva lui – o i film, si potrebbe aggiungere.
Rileggendo da qua la storia di HHhH, sembra incredibile che proprio l’autore che aveva sofferto così tanto su quel libro sia lo stesso che è tornato in libreria, dopo anni, con un thriller che fantastica sulla morte di Roland Barthes; eppure il suo nuovo romanzo inizia da qui: “la vita non è un romanzo.”, si legge, “O almeno vorreste credere che sia così. Roland Barthes risale Rue de Bièvre. […] Tra un quarto d’ora sarà morto”. Con La settima funzione del linguaggio (La nave di Teseo – trad. Anna Maria Lorusso) Binet decide di giocare con la storia:
fiction e storia – mi racconta – sono due maniere di rispondere allo stesso problema, quello del rapporto complesso tra la verità e la finzione. I miei due romanzi si richiamano tra loro: se nel primo volevo restare fedele alle vicende storiche, restituirle, cioè, nella loro interezza, qui mi volevo divertire a cambiarle. È questo il mio obiettivo: capire cos’è la storia, cos’è la finzione.
Così prende la morte banale di un uomo straordinario e la trasforma in un intrigo internazionale: decide che Barthes non è semplicemente morto nell’attraversare la strada, ma che è stato ucciso, vittima di un complotto. Binet sceglie Barthes per il suo libro così come aveva scelto la seconda guerra mondiale: perché non c’è personaggio più adeguato per questo ruolo o, se si volesse essere maliziosi, per garantire un certo grado di autorevolezza al suo progetto: chi metterebbe in discussione un romanzo che, per parlare dei confini tra realtà e immaginazione, si azzarda a uccidere “il più grande critico letterario del XX secolo”?
E per cancellare tutti i dubbi sulla serietà dei suoi intenti, Binet nei primi capitoli fornisce un rapido riassunto sull’origine della semiotica, da Ferdinand de Sassure in poi. La definisce “una delle invenzioni capitali della storia dell’umanità e uno dei più potenti strumenti mai forgiati dall’uomo” (“mi piacerebbe se fosse Fabrice Luchini a leggere questo passo, appoggiandosi sulle parole come sa fare lui”, confessa) rispetto alla quale “il colpo di genio di Barthes è stato di non accontentarsi dei sistemi di comunicazione ma di allargare il campo di studio ai sistemi di significazione”. Fatto questo, incurante di quanto debba distorcere la realtà per adeguarla alla finzione (del resto poi Julia Kristeva non collaborava forse con i servizi segreti?), Binet è pronto per iniziare.
Inserisce ne La settima funzione del linguaggio, tutti gli elementi del genere poliziesco: l’investigatore disilluso, una morte insolita, i sospettati – da Foucault a Gilles Deleuze, alla stessa Kristeva – inseguimenti, nuovi omicidi, false piste. E c’è anche il movente, l’oggetto del desiderio attorno a cui si muove tutto: è la settima funzione del linguaggio, quella del titolo, quella che – se disvelata – consentirebbe a chi la possiede il potere della persuasione assoluta.
Binet mi racconta di aver voluto “tracciare un parallelo tra la semiotica e l’indagine poliziesca” e che per farlo ha affiancato a Bayard, il poliziotto protagonista del libro, un giovane dottorando appassionato di linguistica. Lo chiama Simon Herzog, S.H., perché “la semiotica, d’altra parte, è la scienza di Sherlock Holmes”. Insomma Binet mette Bayard sulle tracce di quegli studiosi che proprio delle tracce e degli indici hanno fatto una scienza: una scelta piuttosto prevedibile, forse, come prevedibile è non si arrivi mai alla risoluzione del caso.
All’interno del mio romanzo la settima funzione esiste, semplicemente non si arriva a enunciarla: non si tratta di una formula magica, bensì di una tecnica, così come è la semiotica, che non serve a svelare il mondo, ma a comprenderlo un po’ di più. Forse è vero che la semiotica non ha mantenuto tutto quello che aveva promesso, ma a me ha fornito degli strumenti che mi tornano utili quotidianamente, nell’osservare le persone, gli spazi, nel decodificare e interpretare il mondo. Con questo libro ho celebrato quel metodo che Barthes ed Eco hanno teorizzato.
Metodo che, però, richiederebbe almeno un po’ più di fiducia nel lettore o di mistero per diventare affascinante, ma in queste pagine da decodificare c’è ben poco – ogni riflessione in Binet è suggerita, poi palesata e poi spiegata una seconda volta; non solo quindi il libro sostituisce all’indagine poliziesca una riflessione essenzialmente metanarrativa, ma questo stratagemma viene ricordato a ogni pagina.
Il primo incontro tra Simon Herzog (S.H., dunque) e Bayard, per esempio, si tiene dopo una lezione su “i numeri e le lettere in James Bond” all’Istituto di Cultura e Comunicazione: la prima cosa che fa Herzog è prodursi in uno spietato identikit di Bayard, (“Lei ha fatto la guerra d’Algeria, è stato sposato due volte, è separato dalla sua seconda moglie…”) con annessa spiegazione del metodo:
“Cos’è che le fa dire questo?”“Be’ è molto semplice […] quando è venuto a cercarmi a fine lezione, poco fa, in aula, lei si è spontaneamente posizionato in modo da non dare le spalle né alla porta né alla finestra”.
È un dialogo che ha due funzioni: vincere lo scetticismo di Bayard, fornendogli anche un alter ego (“Ascoltami, stronzetto: tu vieni con me ok?”), e dimostrare le ragioni della semiotica, (“Ma…dove?” “A interrogare gli indiziati”). Più tardi Bayard, disperato perché non viene a capo della sua ricerca, si rassegnerà a dire che qualsiasi cosa sia questa settima funzione di sicuro “non ci sarà scritto sopra a stampatello SETTIMA FUNZIONE DEL LINGUAGGIO”: spiegare l’uso della semiotica in un giallo letterario non è esattamente come scriverci sopra in stampatello?
“Barthes muore, quindi, ma non è questo il cuore dell’indagine”, mi racconta Binet, “l’oggetto del mio romanzo è piuttosto il potere del linguaggio. Kundera diceva che il romanzo deve essere il territorio dell’ambiguità e io concordo con lui: condenso lo stesso pensiero nelle prime due frasi del romanzo – cioè che la vita non è un romanzo e che vorremmo credere che sia così. Quello che volevo fare era mettere il lettore in una posizione di insicurezza – trasformare il romanzo dal luogo dell’ambiguità a quello del paradosso”. Se della prima non c’è traccia, speriamo nel paradosso.
Quando Bayard cita l’Eco di Lector in Fabula, “che senso dare a un’affermazione quale ‘Sherlock Holmes è sposato’ e ‘Amleto è pazzo’? Si può trattare un soggetto soprannumerario come una persona reale?”, Binet non dà una risposta, così come non lo fa con la domanda opposta, che pare essere la sua vera ossessione narrativa: cosa accade quando si usa e si abusa di personaggi reali, tutt’altro che fittizi, cosa accade al reale quando viene descritto, nominato, deformato? Niente, pare.
La settima funzione del linguaggio è un libro che tematizza la performatività della lingua, la sua possibilità di avere effetto sul mondo, la sua pericolosità, ma che in fondo non crede neanche per un secondo a questo assunto, costellato com’è di personaggi non solo reali, ma spesso ancora vivi, che Binet tratta come marionette, muovendoli sulla scena, uccidendoli, trasformandoli in assassini. Alla fine il paradosso che abita questo libro sembra proprio questo: non credere a se stesso. Chissà infatti che ne pensano Camille Paglia, Judith Butler o Étienne Balibar delle loro versioni finzionali, che sono così annotate, spiegate, esplicitate (Butler è indicata in ogni scena come “la lesbica femminista” e impegnata in una scena di sesso anale in cui urla “I am a man and I fuck you! Now you feel my performative, don’t you?” casomai non l’avessimo riconosciuta).
Scrive Binet “come fai a sapere che non sei un romanzo? Come fai a sapere che non vivi dentro una storia inventata? Come fai a sapere di essere reale?”, ma se interrogarsi se i personaggi dei libri possano soffrire o, in altri campi, se le stringhe di codice abbiano sentimenti è certamente affascinante, in questo contesto paiono domande mal poste; i personaggi di Binet sono poco più che messe in forma di teorie linguistiche, coaguli di citazioni, non persone, mai corpi.
“Il Romanzo è la morte; della vita fa un destino, del ricordo un atto utile e della durata un tempo orientato e significativo.”Bayard chiede a Simon perché Foucault parla del romanzo. Simon risponde che si tratta sicuramente di una citazione, ma pure lui si fa la stessa domanda, che trova peraltro decisamente ansiogena.
Binet ha passato cinque anni a leggere i libri di questi intellettuali, per poter scrivere questo romanzo: “Mi sono segnato tutte le frasi che pensavo mi sarebbero potute servire”, racconta, “non solo quelle che parlavano dei temi del mio libro, ma tutte quelle che avrei potuto usare come pezzi di dialogo, è un puzzle complicato, ma che mi sono divertito moltissimo a comporre”.
La conseguenza è che raramente il romanzo riesce a sollevarsi dal suo statuto metanarrativo: non solo Binet riempie i dialoghi di citazioni (“the root of critical error is a naive confusion of literature with life” dice, letteralmente, Morris Zapp) e di riassunti da manuale (il capitolo 32 inizia così :“Roman Jackobson è un linguista russo, nato alla fine del XIX secolo, che è all’origine del movimento chiamato strutturalismo. Dopo Saussure, 1857-1913, e con Hjelmslev, 1899 – 1965, è senza dubbio il teorico più importante tra i fondatori della linguistica”), ma intere conversazioni si basano proprio sul carattere finzionale o meno dei personaggi.
Inoltre, Binet, da bravo appassionato di semiotica, costella il libro, in un gioco letterario sempre più scoperto, di simboli ricorrenti – su tutti la DS che appariva sulla copertina di Miti d’oggi che insegue il protagonista – rendendo la lettura de La settima funzione del linguaggio una specie di gioco di riconoscimento, un rebus per solutori nemmeno troppo esperti.
“È stato il mio modo di rendere omaggio a questi intellettuali, soprattutto a Derrida, le cui riflessioni sul linguaggio ho trovato particolarmente stimolanti: Derrida affermava che tutto ciò che diciamo è una citazione, che, per poter comunicare, siamo costretti a ripetere parole già dette, che ci precedono e ci sopravvivono, che noi ci limitiamo a ricombinare ogni volta. Accade in tutte le conversazioni, accadeva a lui, accade tra amici, accade tra me e te: quello che volevo fare era dare corpo a quest’idea, scrivere un libro sul potere del linguaggio che lavorasse per stratificazioni di citazioni”.
“Del resto, quando faccio delle frasi, sono veramente io che parlo? Chi mai potrebbe dire qualcosa di originale, di personale, di proprio, quando per definizione il linguaggio ci obbliga ad attingere a un patrimonio di parole preesistenti (Il famoso patrimonio della lingua)?” fa dire Binet al Derrida del romanzo, parentesi tonda inclusa.
Se “la conversazione è insomma una partita di tennis che si gioca con una pallina di pasta da modellare, che prende una nuova forma ogni volta che supera la rete”, per usare le parole di Morris Zapp, questi più che omaggi sono citazioni letterali: Binet più che per stratificazione, finisce per costruire il romanzo per giustapposizioni.
Interessante però, in un libro così poco sfuggente, che Binet finisca per inserire, senza rendersene conto, persino una pistola che si inceppa, la stessa immagine che si era preoccupato se utilizzare o meno nell’attentato di HHhH (“Spara e non succede niente. Non so come evitare la banalità ad effetto. Non succede niente. Il grilletto si blocca, oppure, invece, cede fiaccamente e scatta a vuoto”): “non mi ero assolutamente accorto di averlo fatto”, continua Binet, “e mi sorprende perché per me il nodo della letteratura è l’intertestualità, il modo in cui le opere si legano tra loro: evidentemente mentre scrivevo questa scena ho ripensato alla storia di HHhH e mi sono citato inconsapevolmente”.
Per Binet La settima funzione del linguaggio doveva essere un romanzo in cui “non ci si può fidare delle parole di nessuno”, insomma, che richiedesse al lettore la sospensione dell’incredulità: ci riesce nella misura in cui tutte le parole sembrano solo citazioni e i personaggi poco più che inchiostro su carta. Un successo o un fallimento: probabilmente non era nelle intenzioni di Binet, ma alla fine resta una domanda, cioè se tutto questo non accadesse già in HHhH. Non erano forse proprio i tentennamenti, gli scrupoli, lo scetticismo, tutti i tic della scrittura di Binet nient’altro che stratagemmi che mi avevano indotto a credere che quello che leggevo fosse vero? Se i personaggi di questo romanzo non sono altro che parole, si poteva dire diversamente del narratore di HHhH?
Simon sa riconoscere il romanzesco quando lo incontra .[…] Nella sua testa sfila, senza che possa fermarlo, il film degli ultimi mesi e, come è nel suo mestiere, ne vede le strutture narrative, gli aiutanti, gli opponenti, la portata allegorica. […] Si prende la testa fra le mani emettendo un piccolo gemito:“I think I’m trapped in a novel.”
“Sounds cool, man. Enjoy the trip.”