“E non fatemi più un quadro affascinante di viaggi poetici redentori (…) Il viaggio è un seguito di irreparabili perdite” scrive Paul Nizan in Aden Arabia, suo primo libro e manifesto letterario del disincanto anticolonialista, nonché uno dei libri di viaggio più intensi e imprevisti che potrebbe capitarvi di leggere: oggi nuovamente disponibile per il lettore italiano (nella vecchia ma sempre valida traduzione di Daria Menicanti) grazie alle Edizioni dell’asino.
Morto appena trentacinquenne nel maggio del 1940, colpito alla testa da un proiettile durante la ritirata dell’esercito inglese (per il quale svolgeva mansione di traduttore) sul suolo di Francia incalzato dalle truppe tedesche di Guderian, Paul Nizan è uno scrittore che oggi conoscono in pochi ma la sua opera e la sua figura intellettuale continuano a occupare una solida nicchia nella storia della letteratura francese del novecento. Nasce nel 1905 da una famiglia socialmente ibrida: contadini del Morbihan inurbati e prestati alla costruzione di ferrovie durante il secondo impero da parte di padre (“Antoine Bloyé” il protagonista del primo romanzo, da molti considerato il suo migliore, è un ingegnere delle ferrovie francesi ed è ricalcato sulla figura paterna: la storia è incentrata sul suo presunto “tradimento” di classe), da parte di madre Nizan è invece di origine borghese e come tale lo scrittore si è sempre percepito. Della buona borghesia francese ha d’altronde fin da giovanissimo attraversato le tappe principali e i luoghi d’elezione, con ottimi risultati: prima il liceo Henri IV, quindi l’École Normale.
Supera l’esame di selezione all’esclusiva università lo stesso anno di Rayond Aron, Simone de Beauvoir e Jean Paul Sartre; con quest’ultimo è amico strettissimo fin dai tempi delle superiori e il prestigio postumo di Nizan deve molto al suo più celebre (e longevo) compagno di scuola. Tra la fine degli anni Venti e lo scoppio della guerra Nizan è uno dei giovanissimi (ha poco più di vent’anni) intellettuali di sinistra più rampanti di Parigi. Collabora con numerose riviste culturali dell’epoca, da Bifur (che dirige per un breve periodo) a vari periodici di appartenenza comunista, in particolare Humanité (organo centrale del partito) e Ce soir di cui sarà segretario di redazione mentre ne è direttore Aragon. Dal primo periodo di forte attività culturale consumato nel giro dei normalisti ventenni idealisti e rivoluzionari prenderà le distanze già nella prima parte di Aden Arabia e poi, più compiutamente, ne La cospirazione, il suo terzo e ultimo romanzo: storia di un gruppuscolo di giovani letterati il cui progetto velleitario di creare una rete di spionaggio militare si consuma rapidamente tra tradimenti e ripiegamenti nel privato. Ad ogni modo Nizan entra nel partito comunista francese nel 1927, epoca di grandi fermenti sociali e politici (rivoluzioni di varia matrice erompono un po’ ovunque sulla scena mondiale), quando tuttavia i comunisti francesi non sono che una forza minoritaria e continuamente esposta all’attacco delle istituzioni liberali.
Nel 1934 trascorrerà un anno in Russia in occasione del primo congresso dell’Unione degli scrittori sovietici all’interno del quale saranno discusse e messe a punto le linee del “realismo socialista”. Qua conoscerà personaggi di primissimo piano come Gor’kij e Malraux (di cui poi diventerà amico) e l’anno seguente sarà uno degli organizzatori del Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura tenuto a Parigi, dove sfilerà il meglio dell’intellighenzia di sinistra dell’epoca. Negli anni Trenta, all’ombra del fronte popolare (o poco prima) è uno degli animatori dell’Università operaia parigina dove tiene corsi sui primi atomisti – Democrito, Epicuro, Lucrezio – che diventeranno un libro pubblicato nel 1936 intitolato I materialisti dell’antichità. Nel settembre del 1939, piuttosto improvvisamente (ma meno per chi ha avuto modo di leggere la corrispondenza di quegli anni con la moglie Henriette) abbandona il partito: la causa scatenante è l’invasione della Polonia da parte dell’URSS in seguito alla clausola segreta siglata dal patto Molotov-Ribbentrop. L’abbandono comporterà la sua condanna da parte del partito, in particolare per voce del filosofo Henri Lefebvre e di Aragon, molto duro e stalinista e zelante nel trascinare nel fango la memoria dell’ex amico (che nel frattempo ha perso la vita dalle parti di Dunkerque) trasformando la sua dissidenza in tradimento e accusandolo di essere stato spia al soldo degli inglesi.
Nel dopoguerra, tra i più impegnati a riabilitare la memoria di Nizan sarà Sartre, che negli anni precedenti aveva considerato l’amico una specie di maestro politico, il suo insegnante di marxismo. Duramente colpita dall’anatema ufficiale, l’opera di Nizan è tornata in auge negli anni Sessanta in occasione della riedizione di Aden Arabia per opera dell’editore Maspero (cui sono seguite, a raffica, le riedizioni delle altre sue opere). Una famosa prefazione dello stesso Sartre rilanciava sonoramente la figura di Nizan come riferimento per la contestazione giovanile pre-sessantottina (“A questi angry young men chi potrà parlare? Chi spiegherà le ragioni della loro violenza? Nizan è il loro uomo”) e in effetti dei risultati ci furono: Aden Arabia e altri suoi libri diventarono letture frequentate in quei tempi da un pubblico che poco badava al ruolo di intellettuale di partito che Nizan aveva interpretato fino a poco prima della morte e che poco consenso avrebbe naturalmente riscosso in un contesto movimentista e dai forti accenti anti-sovietici, quale quello dei giovani ribelli degli anni Sessanta e Settanta.
Il dibattito intorno al dogmatismo politico di Nizan è al centro della riflessione critica che in Francia e altrove ancora si dedica saltuariamente allo scrittore. Non è questa la sede per contribuire al non facile scavo nelle motivazioni psicologiche e sociali, alla ricostruzione del contesto storico e culturale che hanno portato lui come molti altri a sacrificare una parte della propria libertà critica in nome della fedeltà al partito: già nei primi anni Trenta, pre-purghe staliniane, chi voleva sapeva trovare valide motivazione per diffidare di quella strada (uno su tutti: André Gide, allora decano della letteratura francese e molto apprezzato dallo stesso Nizan, col quale intrattenne rapporti di amicizia e reciproca stima). Di certo, rigidezze di chiara matrice ideologica erano coscientemente abbracciate da Nizan e tracce se ne trovano nelle sue opere: molto meno tuttavia di quel che si potrebbe pensare affidandosi alla sua biografia. Questo vale in particolar modo per il primo libro, Aden Arabia, un testo di rottura, istintivo, difficilmente classificabile e ancora capace di parlare e spronare con la sua lingua infuriata e la sua cupezza emotiva.
Aden Arabia mette in scena il conflitto interiore violentissimo tra l’impegno e la tentazione del nichilismo.
Nel 1926, al secondo anno di École Normale, Nizan viene a sapere di un ricco esportatore e produttore di cuoio, tale Antonin Besse, che cerca un insegnante per il figlio durante un lungo soggiorno a Aden, oggi città yemenita, allora parte dell’impero britannico. Nizan soffre all’epoca di forti attacchi depressivi e già maturano in lui i germi di una insofferenza radicale nei confronti del suo mondo, della borghesia parigina, delle nobili vette umanistiche della cultura accademica francese: perciò abbraccia l’idea di una fuga verso un ipotetico altro mondo, idea che sarà tuttavia pesantemente smentita dal viaggio e criticata nel libro. Si presenta dall’industriale e ottiene il lavoro: soggiorna a Aden per sei mesi dopo un viaggio durato tre settimane, anch’esso parte del resoconto. Il libro sarà scritto tra il 1928 e il 1930, due anni dopo il viaggio e pubblicato nel 1931 da Rieder, un editore vicino al partito comunista. Quelli immortalati in questo primo libro sono gli anni della nascita della passione politica che lo porterà ad aderire al partito, ma questo elemento progressivo reagisce in maniera fortissima con una più oscura e molto più distruttiva pulsione intima che potremmo ascrivere a un retaggio decadentista e che determina la miscela di pensiero e la tonalità emotiva della prosa di Nizan.
Aden Arabia mette in scena il conflitto interiore violentissimo tra l’impegno e la tentazione del nichilismo, tra la rivelazione insormontabile di un’angoscia esistenziale e un’altrettanto profonda e potente ingiunzione alla prassi rivoluzionaria, tra gli abissi impalpabili della solitudine dell’individuo e la materialità di un mondo che in quanto tale, in quanto concreto, può o deve essere cambiato, migliorato. Questa lotta non è risolta e la scrittura concitata, disomogenea e spigolosa del libro ne è sintomo e traccia: stilisticamente Aden Arabia si avvicina, per la densità, l’oscurità e la veemenza del dettato, alla prosa poetica di Rimbaud: una “stagione all’inferno” dalla quale si riemerge (o almeno lo si tenta) per forza di militanza. Aden Arabia è anche un viaggio iniziatico e un racconto di formazione: quella legata alla prima uscita dai contesti familiari (“gli unici gruppi che mi avessero accolto erano stati scolastici, universitari, famigliari”) e a una presa di coscienza paradossale poiché ciò che scoprirà il giovane narratore nel leggendario oriente sarà una rivelazione dell’essenza stessa della sua vecchia Europa. La prosa di questo libro è un flusso verbale continuo e strozzato che ha molto dell’invettiva, del pamphlet, della provocazione o addirittura dell’imprecazione, dello sfogo sarcastico e della poesia (ma una poesia del tutto priva di lirismo e fusionalità: una poesia a denti stretti, aspra e sanguigna); la rabbia e la demolizione dei valori borghesi sembrano il suo tratto fondamentale, ed è proprio in questa direzione che il libro raggiunge la massima intensità: questa forza e motivazione cieca e giovanile, la capacità di fonderle in una lingua potente ed evocativa, Nizan non le ritroverà in nessuna altra opera.
“Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita”: così recita il celebre e fulminante incipit del libro (diventato traccia di esame di maturità in Italia nel 2012). Aden Arabia colpisce violentemente, insistentemente e piuttosto sadicamente alcuni solidi miti della cultura occidentale: anzitutto, abbiamo appena visto, quello della giovinezza felice (“E si può ben essere d’accordo, la nostalgia per i propri vent’anni è quasi infallibilmente insincera” chiosa Piergiorgio Bellocchio nella sua introduzione all’edizione italiana de La cospirazione). I fasti della cultura alta e accademica sono oggetti di ripetute ingiurie: “I filosofi saranno soltanto i cani da guardia del vocabolario degli storici di quel medioevo in cui le parole avevano più di un significato”. Cito una delle tante frase citabili perché quel sintagma, “Cani da guardia”, diventerà il titolo di un irriverente saggio-pamphlet antiaccademico pubblicato da Nizan l’anno dopo Aden Arabia, nel 1932: un libro pesantemente univoco e certamente fazioso ma anche profondamente catartico per il modo in cui liquida senza possibilità di replica l’ambito del sapere che l’occidente più insistentemente ha utilizzato come strumento di esclusione e distinzione: la filosofia.
Ma Aden Arabia colpisce il lettore attuale in misura ancora maggiore per l’originalità dei suoi attacchi ai miti coloniali e a tutta una vulgata immaginaria legata alla celebrazione del viaggio (il viaggio come strumento di liberazione e rinascita, il viaggiatore come uomo libero, il viaggio come apertura verso altre culture, eccetera) che finirà dritta dritta, pochi decenni dopo e con l’affermarsi del turismo di massa, nei pieghevoli delle agenzie turistiche. Qui, al contrario, chi viaggia è ritratto come caricatura dell’individuo astratto e impotente:
I viaggiatori, come tutti gli altri, vengono trascinanti in ogni direzione da potenze che nessun oggetto soddisfa: dall’amore senza amante, dall’amicizia senza amico, dalla corsa senza percorso, dal motore senza movimento, dalla forza che mai è in atto: non oggetti, non prospettive, non occasioni. Liberi, ma come i saggi che paralizzano a una a una le parti dell’umanità e chiamano questa mutilazione “saggezza”.
Nelle descrizione peraltro notevoli del libro non troverete nessun traccia di paesaggismo, nessuna ammirazione cartolinesca, nessun indulgere alla contemplazione letteraria (“Ci sono scrittori che parlano delle lezioni contenute nei paesaggi: fingono di credere che pietre e cielo si abbandonino a una mimica che fa di loro dei precettori.”), tanto meno troverete i cliché delle popolazioni locali amabili e accoglienti (“c’erano gli indù, gli arabi, i negri: impenetrabili”).
Nizan smonta uno a uno gli alibi del viaggiatore, i suoi incanti forzosi, le sue proiezioni e stereotipi: quello che Saïd quasi cinquant’anni dopo rubricherà sotto l’etichetta di orientalismo e che Nizan definisce con espressione più fantascientifica “ucronie della vita interiore”. Se dunque negli anni Sessanta, con la guerra di Algeria ancora in corso o da poco conclusa, i giovani francesi lo rileggeranno con interesse sarà certamente a causa di questo marcato elemento anticolonialista, un discorso parossistico e spiazzante (e anticipatore di approcci teorici e studi a venire), perché, scrive Nizan: “Aden era un’immagine assai ristretta di nostra madre Europa: era un concentrato di Europa.” In quel lembo di penisola arabica all’incrocio di flussi commerciali lo scrittore non sembra vedere altro che la verità rimossa del mondo occidentale: lo sfruttamento e lo scandalo di un continente inghiottito dall’Europa e dal suo dominio economico. Strutture e relazioni di potere appaiono in quella terra lontana e scarna per quello che sono, senza gli infingimenti decorativi che in Europa li camuffano o “naturalizzano”. Nizan non fatica a identificare nelle popolazioni dei paesi colonizzati un proletariato globale profondamente sottomesso agli interessi dell’occidentale “homo oeconomicus” (cui è dedicata la tesissima tirata finale) ma potenzialmente rivoluzionario.
Al netto di tanti contenuti politici, il libro resta formalmente lontanissimo dagli imperativi zdanoviani del realismo socialista che pure interessarono Nizan tra Mosca e Parigi. Aden Arabia è un libro formalmente espressionista e come si diceva portatore di una contraddizione e una rabbia così nette che non si può non sospettarne una genesi profondamente irrazionale. Simmetricamente il suo ultimo libro, La cospirazione potrebbe facilmente apparire disfattista agli occhi di un lettore di sinistra più ortodosso (così è stato infatti, nei decenni passati). Vale la pena ricordare quanto scrisse Rossana Rossanda nella sua introduzione a I cani di guardia (La nuova Italia), dove accanto alla definizione polemica di un Nizan arci-comunista, smorzò il giudizio caratterizzando “la sua “determinazione alla “non obiettività” come antidoto alla melensaggine d’uno scontro di idee diventato balletto”. Marco Revelli, esprimendosi sulla sua scelta di riproporre La cospirazione negli anni Novanta (da Baldini & Castoldi), ribadiva il valore della voce di Nizan in un contesto storico dove prevaleva “una concezione quasi hollywoodiana del secolo, che riduce il Novecento a una graziosa collana di medaglioni con Kennedy e papa Giovanni. Senza rotture né lacerazioni. È la storia che piace a Walter Veltroni e alla sinistra di questa fine secolo.”
In questo senso, conclude Revelli, Nizan è “un destabilizzatore radicale, una figura assai poco edificante che fece dell’estremismo una scelta di vita.” Rossanda scriveva nel 1970, Revelli nel 1997, sono passati vent’anni e la stessa preoccupazione è più giustificata che mai: l’eutanasia della sinistra sembra compiuta e al buonismo veltroniano è subentrata la calma piatta, una endemica docilità se non adesione vera e propria ai dettami dell’esistente con tutte le punte di violenza irriflessiva che questo comporta, comprese quelle di chi – fuori dal nostro mondo – questa mansuetudine appagata vorrebbe distruggere. In un simile contesto torna ad essere più che mai stimolante il primo libro di Nizan, il suo estremismo è una terapia d’urto alla mitezza compiacente, al sonno del pensiero realmente contradditorio, alla delocalizzazione della violenza, alla remissione di ogni seria e condivisa conflittualità: “Non bisogna temere di odiare” scrive verso la fine del libro,
Non bisogna vergognarsi di essere fanatici. Io devo loro del male; poco è mancato che mi perdessero. L’odio si arricchirà dell’ira di sapere che esso è una diminuzione dell’Essere, una condizione che ha per madre la povertà.