L’ attraversamento della fantasia serve ad affermare positivamente, nella realtà, l’immaginario del soggetto: “Al posto di realizzare le nostre fantasie inconsce, di dissolvere i sintomi della nostra insoddisfazione e “realizzarci” (secondo il motto consumista “Be yourself”), ossia rendere oggettivi i nostri sogni fantasmatici, occorre attraversarli, ossia identificarci proprio con quei sintomi, rendendo soggettivi i nostri stessi paradossi, accettando le nostre contraddizioni, accettandoci come contraddizione soggettiva”.
Verificare, mettendo in pratica alla lettera, le fantasie che sostengono il desiderio significa anche toccarne con mano l’inconsistenza e l’insostenibilità. Il sintomo, allora, viene messo alla prova, osservato da lontano non grazie all’interpretazione simbolica della parola, bensì attraverso la messa alla prova della fantasia. Per farlo è necessario assumere un atteggiamento perverso, cioè agire fino in fondo le proprie fantasie immaginarie.
Entrambi i protagonisti dei testi che prenderemo in considerazione compiono, ciascuno a suo modo, tale operazione psichica. Il primo, Siti, quasi letteralmente. L’“operazione realtà prostituita”, ossia la scelta arbitraria di “provare come vive un ricco, per sei mesi da giugno a dicembre, […] capire cosa si prova a non negarsi nessun desiderio” è una posizione di “collaudo” delle fantasie di appagamento totale del desiderio perverso che il capitalismo offre. Walter, allora, aderisce pienamente all’ideologia del nostro mondo e ne vive l’inconsistenza e vedremo che la conclusione del romanzo, al termine di tale percorso, avrà implicazioni rilevanti a riguardo.
Carrère, invece, a partire da un altro tipo di prima persona, più vicina all’io testimoniale (ma in realtà, come vedremo, più simile di quanto non ci si aspetti a quella di Siti), fa i conti con il fenomeno dilagante dell’io e dell’identità, raccontando le vite degli altri e costruendo una serie di rispecchiamenti e proiezioni tra l’io narrante e la realtà. L’attenzione sarà allora rivolta alle ambivalenze e ai doppi giochi della prima persona.
In tali operazioni emerge un rapporto plurivoco della letteratura (ma è un discorso che si potrebbe estendere all’arte in generale) con la cultura – in senso ampio – egemone e quindi anche con l’ideologia. Un rapporto tra arti e cultura, che se nel XX secolo ha assunto spesso le forme di un rapporto dialettico, per esempio nelle forme del modernismo o delle avanguardie artistiche, nel presente è oggetto di una riconfigurazione che probabilmente ne disinnesca gli aspetti conflittuali. Fredric Jameson, nella sua analisi del Postmodernismo, ha messo in luce che la tendenza delle arti contemporanee è quella di configurare una totalità ideologica, linguistica ed economica alla quale è pressoché impossibile sfuggire:
[A]lcune delle nostre più amate e venerande idee radicali sulla natura della politica culturale possono rivelarsi obsolete. Per quanto distinte possano essere state tali concezioni […] condividevano tutte un unico presupposto, fondamentalmente spaziale, che si può riassumere nella formula parimenti veneranda della “distanza critica”. […] Siamo a tal punto immersi nei suoi volumi stipati e saturi che i nostri corpi ormai postmoderni sono privati delle coordinate spaziali e in pratica (per non dire poi in teoria) incapaci di distanziamento; […] la nuova prodigiosa espansione del capitale multinazionale finisc[e] con il penetrare e colonizzare quelle stesse enclave precapitalistiche (la Natura e l’Inconscio) che offrivano all’efficacia della critica punti di appoggio extraterritoriali e archimedici.
Sono convinto che le parole di Jameson siano ancora attuali e che anzi abbiano acquisito valore nel tempo. Sebbene non siano mai esistiti, probabilmente, rapporti puri, univoci, esclusivi tra arte e cultura, sempre di più acquista importanza, tra questi diversi piani, una relazione di collusione. Quest’ultima è il luogo in cui arte e ideologia convergono per poi divergere: le opere artistiche utilizzano modelli ideologici del discorso dominante per costruire il proprio impianto o la propria postura estetica ma sono in grado anche di creare spazi di ambiguità che mettano in discussione e facciano emergere le contraddizioni di tali modelli. In altre parole, la collusione è l’articolazione estetica dell’“attraversamento della fantasia” nelle opere d’arte, il piano di sovrapposizione e al tempo stesso la linea di fuga rispetto all’ideologia dominante. Osservare la collusione significa dunque esplorare una delle articolazioni più originali dei nostri tempi, in cui si sta verificando una significativa trasformazione dei rapporti tra i vari livelli di cultura nel nostro mondo.
Per comprendere il senso di tale concetto, può essere utile rievocare l’etimo del verbo e l’accezione che la semantica della lingua italiana ha rigettato. In latino, infatti, il verbo colludere ha una doppia accezione: costruito con l’ablativo fa riferimento, come in italiano, all’accordo fraudolento tra due o più soggetti; diversamente, costruito con il dativo, vuol dire “scherzare o giocare con qualcuno”. Quest’ultima accezione permetterebbe di cogliere il rapporto ambivalente tra letteratura, cultura e ideologia: un rapporto che, come la sfida in un gioco regolato, avviene attraverso momenti di collaborazione e momenti di conflitto. Se è vero, cioè, che le forme di scrittura che analizzeremo sfruttano e anzi per molti versi sono esse stesse un momento del cosiddetto processo di personalizzazione che contraddistingue la cultura nel presente, dobbiamo anche fare attenzione a non schiacciare completamente le opere sul testo della cultura complessivo, per utilizzare l’espressione di Lotman. Da quest’ultimo, dunque, vanno distinti alcuni specifici testi letterari che permettono di cogliere, ad un tempo, convergenze e divergenze o, meglio, (come è il caso degli autori presi in esame) le divergenze interne alle convergenze rispetto alla generale sfera della cultura. Come distinguere, cioè, i testi che subiscono l’ideologia dell’io da quelli che in qualche modo ne sfruttano ambivalenze e contraddizioni per incidere sulla realtà? Tale concezione articolata della cultura è tanto più utile in quanto mi sembra di primaria importanza evitare di riproporre un’analisi della centralità della prima persona che conduca una critica morale al narcisismo. A proposito Frederic Jameson è già stato eloquente:
il punto non è […] una diagnosi della nostra società e della sua arte in termini di cultura-e-personalità, come nelle critiche della cultura sul genere del fortunato libro di Christopher Lasch La cultura del narcisismo, psicologizzanti e moralizzanti […]: verrebbe da pensare che ci sono da dire cose molto più pericolose sul nostro sistema sociale di quelle rilevabili attraverso l’impiego di categorie psicologiche.
Mi sembra, invece, che occorra ancora affannarsi alla ricerca – rischiosa, per molti versi – di quelle parole pericolose. Forse la parola critica non significa altro. Vediamo allora come interpretare le parole di Cristopher Lasch, che ha indagato le cause sociali e le conseguenze del narcisismo nei vari campi della cultura, tra cui la letteratura. Parlando della grande voga autobiografica egli afferma:
sull’orlo di un’autentica scoperta interiore, questi autori si rifugiano nella parodia di se stessi, cercando di disarmare la critica anticipandola. Invece di rivendicare il significato della propria opera narrativa, cercano di sedurre il lettore.
In realtà dovremmo leggere la causalità in senso inverso: il narcisismo non è conseguenza del processo di personalizzazione bensì la leva psichica condivisa da tutti sulla quale il potere generalizza e rende egemone tale processo, come abbiamo visto. È senza dubbio scorretto considerare il narcisismo come una novità assoluta dei nostri tempi: esso è piuttosto una funzione indispensabile che il potere, nella sua forma contemporanea, stimola, incoraggia, aggancia. È l’ideologia nei suoi meccanismi immaginari, non il narcisismo in sé, che produce un individualismo radicale quanto velleitario. Le ragioni del predominio dell’io non andranno ricercate in un vaga analogia con l’esacerbarsi dell’ideologia dell’individualismo nell’epoca neoliberista (la spiegazione “mimetica” della produzione culturale non è sufficiente), bensì nel carattere responsivo e collusivo della cultura.
La letteratura in prima persona
Dunque, l’ipotesi è che una delle vie feconde per cogliere alcune specificità del presente culturale sia quella di indagare l’io nella letteratura, “il più lurido di tutti i pronomi”, l’“organo superbo della disconoscenza”, questa bestia intrattabile e ideologica, a un tempo aggressiva e difensiva, questo protagonista indiscusso dei messaggi e delle produzioni linguistiche dei nostri tempi, e di farlo prestando attenzione alla relazione collusiva con la cultura contemporanea.
Come ha correttamente notato Raffaele Donnarumma in Ipermodernità, la diffusione dell’io ha i caratteri di una pandemia, anche nel campo letterario. Ma perché focalizzarsi, come faremo nel primo capitolo analizzando l’opera di Walter Siti, proprio sulla questione autofittiva? La risposta risiede anzitutto nella convinzione che l’autofiction, sfruttando l’ambiguità dell’io, sia uno dei sintomi più forti dell’ipoteca immaginaria sulla realtà. “Fiction, d’événements et de faits strictement réels”, come l’ha definita nel 1977 Serge Doubrovsky, colui che è riconosciuto come suo capostipite: a partire da spunti reali, l’io narrante e omonimo dell’autore sviluppa un campo di autobiografia spuria, sfumata dalla finzione, e su fatti reali innesta episodi inventati, prequel, sequel o spin off, confondendo realtà e fantasia, mescolando simbolico e immaginario.
Ciò comporta – come del resto si sarà ormai accorto il lettore – un’evasione dal dibattito puramente teorico-critico, nel seno del quale è nata l’autofiction. Doubrovsky, infatti, afferma di aver pensato Fils, il romanzo che definito attraverso la categoria critica dell’autofiction, a partire dal “caso cieco” della classificazione delle autobiografie di Philippe Lejeune: la compresenza del cosiddetto “protocollo nominale”, cioè la corrispondenza onomastica tra autore, narratore e personaggio alla base del meccanismo autobiografico, e di un patto romanzesco, ossia di alcuni segnali testuali che spingono il lettore a considerare il testo frutto di invenzione, dà vita a un genere teoricamente paradossale. Laddove l’autobiografia reprime i fantasmi che disturbano il resoconto piano e fattuale di una vita, e con ciò stesso li tramuta in segnali sintomatici (contraddizioni, incongruenze, ecc…), l’autofiction sceglie di allucinarli e integrarli funzionalmente nella mimesi di un romanzo in cui l’opposizione tra realtà e proiezione fantasmatica cessa di essere pertinente. Per questo le distinzioni critiche che fanno riferimento alla separazione tra fattuale e fittizio, cui spesso corrisponde un atteggiamento “poliziesco” di ricerca e identificazione nel testo dei segnali di finzione, non riescono a cogliere l’aspetto più interessante dell’autofiction, ossia, appunto, quello di portare alle estreme conseguenze le tradizioni di romanzo e autobiografia: l’idea, da un lato, che il romanzo sia in grado di accogliere con esaustività insuperabile la complessità dell’esistenza particolare, che rappresenti “il solo fulgido libro della vita”; dall’altro, che l’autobiografia moderna costituisca il modello di trasparenza definitivo in grado di “dire tutta la verità” sulla vita di una persona. In ogni caso, nel corso del tempo si sono stratificate svariate definizioni del genere letterario. Anzi, prestando ascolto a Vincent Colonna, non si tratta nemmeno di un genere vero e proprio ma di una modalità di scrittura, di un archigenere, poiché, proprio come il romanzo, capace di fagocitare molti altri generi narrativi. Philippe Vilain, a sua volta, affidandole uno statuto semi-referenziale, la definisce come una “fiction homonymique qu’un individu fait de sa vie ou de partie de celleci”, in modo analogo a quanto faceva Doubrovsky. Walter Siti, al contrario, la descrive come un’autobiografia di fatti non accaduti. Più recentemente Lorenzo Marchese l’ha presentata in questi termini:
Componimento in prosa di varia lunghezza in cui l’autore scrive quella che in apparenza è la propria autobiografia, ma nel contempo fa capire attraverso strategie paratestuali e testuali che la materia della storia che si racconta è da interpretarsi come falsa, cioè non corrispondente alla realtà dei fatti avvenuti e non credibile come resoconto testimoniale.
Tuttavia, al di là delle preoccupazioni tassonomiche, ciò che mi pare importante è la collusione dell’autofiction con il discorso del capitalista e la cultura dell’io. È una considerazione che, d’altro canto, vale anche per l’io di Carrère, formalmente testimoniale, ma che in verità interseca tutte le questioni già sollevate sulla produzione immaginaria dell’identità. L’ambiguità della relazione tra realtà e finzione, la costruzione finzionale della propria personalità, la narrazione artefatta della propria storia e di quella altrui, che hanno sconcertato e affascinato i critici inquisitori di autobiografia prima e autofiction poi, sono tutti aspetti fondamentali della produzione dello scrittore francese. E anche in questo caso sono ampiamente interpellate le strategie rappresentative del sé centrali nella cultura contemporanea. Si dà, cioè, uno spazio di collusione che si manifesta nell’espressione indotta dell’Io, invitato a mettersi a nudo, a esibirsi oscenamente di fronte ai fruitori, a trasformarsi in una cascata di fantasie.
L’io, allora, diventa il racconto testuale, necessariamente immaginario, finzionale e giubilatorio: “Da quando produco, da quando scrivo, è il Testo stesso che mi spossessa (felicemente) della mia durata narrativa”. L’io e la sua parola sono in relazione diretta con il godimento dell’invenzione immaginaria proiettata su di sé, cioè con l’io ideale. L’io nello stadio dello specchio è un prodotto dal doppio volto: allorché il bambino scopre la propria corrispondenza in un’immagine riflessa, che gli dà anche un senso di unità e di onnipotenza, scopre anche l’impossibilità di coincidervi. Si configura così la situazione per cui l’immagine di sé avrà sempre tratti alienanti e sostanzialmente autonomi rispetto al soggetto di cui è il riflesso. Abbiamo insomma un io strutturalmente frustrato e dunque implicitamente aggressivo, anelante verso l’immagine, ma che non potrà mai coincidere con essa.
L’autofiction potrebbe allora rappresentare il paradigma di questa proiezione contemporanea, di questo supplemento artificiale che sconvolge le distinzioni più intuitive e costringe a ripensare il rapporto del soggetto e della sua autorappresentazione con la realtà. Proprio quest’ultima e il grado di sincerità, del resto, sono state, sin dai tempi di Rosseau, la bestia nera dell’autobiografia. Attraverso la prima persona autofittiva, è possibile scavalcare il problema senza risolverlo, lasciare aperto il paradosso, tracciando arbitrariamente i confini mobili che creano tutto il piano di ambiguità proprio delle scritture d’autobiografia in prima persona. In questo campo, che si configura spesso come una giungla di alibi incrociati, si gioca il teatro finzionale e proiettivo dell’io, che mescolerà realtà e fantasie attraverso lo strumento della scrittura. L’autofiction è dunque l’autobiografia (necessariamente) allucinata dell’Io, di quel “discorso che si recita” in prima persona? E leggere un’autofiction non corrisponde forse all’osservazione linguistica del soggetto trascinato dal proprio fantasma?
Un estratto da L’io di carta di Giacomo Tinelli (edizioni del verri, 2022).