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amanta Schweblin è argentina, vive a Berlino. Autrice di racconti, ha da poco ha pubblicato in Italia il suo secondo romanzo, Kentuki (edizioni Sur, traduzione di Maria Nicola).
Kentuki è un romanzo costruito per storie parallele, racconti dal montaggio quasi seriale, che gravitano intorno agli aggeggi che danno il titolo al libro: dispositivi elettronici dall’aspetto di peluche che mettono in collegamento casuale chi li acquista. Si può decidere se “essere un kentuki” – incarnarsi in un animaletto e intrufolarsi nella vita del proprio padrone – oppure se “possedere un kentuki” e avere quindi la consapevolezza di essere osservati costantemente da occhi sconosciuti.
Il romanzo esplora il rapporto tra letteratura e tecnologia, tra esseri umani e kentuki: relazioni dai contorni familiari o perturbanti, che “servono a perpetrare storie minuziosamente intime, meschine e prevedibili”.
Da dove nasce l’idea dei kentuki?
Era da un po’ di tempo che mi occupavo di un problema che mi sembra esistere in letteratura: ogni racconto, poesia, romanzo in cui comparivano dei termini relativi alla tecnologia – per esempio una poesia in cui un personaggio riceve dei messaggi WhatsApp – automaticamente veniva etichettato come fantascienza. È strano. Tutto ciò che ha a che fare con la tecnologia si è inserito in modo molto naturale nelle nostre vite quotidiane, ma una volta messo su carta cambia il genere del libro. Ho iniziato a chiedermi perché succedeva, anche perché io in primis come autrice mi trovavo a fare uno sforzo enorme per evitare di citare Facebook, per evitare di dire che un tale personaggio aveva ricevuto una certa informazione tramite un social network. Mi sono chiesta come parlare di tecnologia senza che la tecnologia fosse un problema, e soprattutto di come parlare dell’aspetto che più m’interessa – la relazione che la tecnologia ti permette di avere con l’altro.
Un altro aspetto su cui riflettere era come scrivere un libro leggibile anche tra venti o trent’anni, che non scadesse. A un certo punto mi è venuto in mente questo dispositivo, il kentuki, e mi sono resa conto che risolveva questi problemi. Un po’ come se questo animaletto enucleasse in un oggetto i social e i dispositivi di comunicazione tecnologici che usiamo ogni giorno.
È vero, infatti pure il tuo romanzo è stato letto come una distopia tecnologia, anche se la tecnologia impiegata è quasi retrò. Ma forse proprio il fatto che non sia una tecnologia futuristica crea un effetto perturbante più forte, perché il confine tra famigliare e ignoto è più sottile.
È una tecnologia quasi retrò ed è una scelta intenzionale. Non volevo parlare del futuro ma del presente, di una tecnologia che abbiamo già a disposizione. Volevo che fosse un oggetto semplice, i kentuki al massimo usano il wifi. Ho capito solo durante la scrittura quante possibilità mi dava la scelta di dargli la forma di un peluche: è qualcosa di inoffensivo, non minaccioso; con un oggetto del genere si può stabilire una relazione simile a quella che abbiamo con i nostri animali domestici. Davanti agli animali si fanno e si dicono molte cose che non ci permetteremmo davanti alle persone, perché l’animale non ha linguaggio e pensiamo che non ci possa giudicare. Anzi, siamo noi a interpretare le reazioni dei nostri animali: fanno quello che noi vogliamo che facciano. Ovviamente con i kentuki a poco a poco il linguaggio interviene e le relazioni cambiano. Ma volevo che, soprattutto nella prima fase della relazione, si creasse l’impressione che il peluche fosse al nostro servizio, qualcosa da dominare, a cui essere superiori.
In effetti in tutte le relazioni i kentuki prendono una forma di sottomissione o dominazione. Anche quando subentra la violenza, i personaggi non riescono a farne a meno: crea dipendenza?
In qualche modo rappresenta quello che ci succede quotidianamente con i social. Quando hai un kentuki che si aggira per casa, oppure quando tu sei un kentuki che sta curiosando nella casa di qualcun altro, c’è qualcosa che ti tiene lì attaccato: è un grande interrogativo, che si instaura appena nasce collegamento. Chi è l’altro? Chi c’è dall’altra parte? Chi è davvero questa persona e come mi sta guardando, cosa vede di me? Finché questo interrogativo non trova una risposta, finché non si esaurisce questa sorta di tensione, che può finire bene o male, con una delusione o con un successo della relazione, non si può interrompere. Mi sembra che in ogni tipo di relazione ci sia sempre qualcosa che si rompe in modo irreparabile. E credo che in tutto questo abbia un ruolo anche il linguaggio.
Citi spesso le tue riflessione sul linguaggio in rapporto a questo romanzo. Tutti i personaggi trovano un modo per comunicare con i kentuki a un certo punto, per ricomporre forse questa identità frantumata dalla tecnologia. Quanto questo problema alla base del linguaggio è umano e quanto viene aggravato dalla tecnologia?
È una buona domanda, non so se ho una risposta e forse ho scritto questo romanzo proprio cercandola. Il linguaggio per me è sempre stato il tema, il problema per eccellenza. Tutti i miei libri, i miei racconti, il mio romanzo precedente hanno come problema di fondo il linguaggio. Forse sono diventata scrittrice per questo, sono sempre stata convinta che per riuscire a esprimermi con la sufficiente precisione, per dire esattamente quello che ho in testa e che voglio dire, avrei dovuto dedicarci tutta la vita e farne quindi il mio lavoro.
Credo che il linguaggio possa permetterci di capire qualcosa di noi e degli altri, è quello che fa la letteratura. Però è anche una grande fonte di malintesi e di rumore di fondo. Non voglio esagerare, però la comunicazione mi sembra sopravvalutata. Per questo mi interessa così tanto la relazione che abbiamo con gli animali. Spesso siamo convinti che la comunicazione sia l’unica via, ma forse ci sono altre strade per esprimersi.
Com’è cambiato questo tuo rapporto con il linguaggio quando ti sei trasferita a Berlino?
A Berlino vivo come una straniera e so che tra vent’anni continuerò a vivere come una straniera. È una cosa che ho accettato, sono le regole del gioco, e mi piace perché mi dà come scrittrice una prospettiva diversa su quello che succede, è come se vedessi tutto un po’ da fuori. Con il linguaggio succede qualcosa di altrettanto interessante. Ora capisco molto di più il tedesco ma quando sono arrivata non capivo nemmeno una parola, e mi sono accorta che spesso il malinteso è una grande fonte di idee. Sei convinto di aver capito quasi tutto, ma non hai mai capito del tutto quello che ti stanno dicendo e da lì nascono molte idee.
Anche il tuo spagnolo sta cambiando?
Sì, frequento molto la comunità ispanofona a Berlino e il mio spagnolo è diverso da quello di un cubano, di uno spagnolo, di un venezuelano. Con tutte queste varianti, possono sorgere malintesi anche parlando la stessa lingua. Quasi tutti ci esprimiamo in una sorta di spagnolo neutro per capirci meglio. Poi ogni tanto adottiamo singole parole che non fanno parte del nostro lessico, ma provengono da altre varianti dello spagnolo, per indicare cose molto specifiche che prima non ci appartenevano e non sapevamo come definire. Una volta che entri in questo meccanismo e lo capisci, quella parola diventa tua e inizi a usarla come se lo fosse. Vedo il mio spagnolo, che era molto
porteño, di Buenos Aires, trasformarsi in uno spagnolo che non appartiene a nessun luogo specifico. Da una parte è positivo perché sono molto più consapevole dei limiti del mio spagnolo, dove finisce la mia variante e dove inizia l’altra; d’altra parte può essere scomodo e difficile perché il mio territorio letterario continua a essere l’Argentina. I miei personaggi ogni volta che metto la penna sul foglio parlano come degli argentini e mi rendo conto che iniziano a parlare uno spagnolo un po’ diverso.
È un problema molto interessante perché mi sembra condiviso dalla metà degli scrittori della mia generazione. Riguarda altri scrittori latinoamericani come Mariana Enriquez, Vera Giacone, che scrive racconti straordinari, ma anche Valeria Luiselli, Lina Meruane, Guadalupe Nettel che sono tradotti, hanno visibilità, nella maggior parte dei casi vivono all’estero.
I tuoi riferimenti letterari guardano all’america latina o all’estero?
Sono cambiati nel tempo. Gli autori che hanno influenzato le mie prime storie sono Cortazar, Bradbury, Kafka, tre autori molti diversi che creano una sorta di congiunzione dentro cui mi piacerebbe stare. La scuola americana invece mi interessa per la narrativa. Sento di provenire dal mondo latinoamericano, ma di guardare alla prosa nordamericana. Dal mondo dei racconti di Gabriel Garcia Marquez, di Bioy Casares, ma anche dalla narrativa di Flannery O’Connor e di molte autrici contemporanee come Kelly Link, Amy Bender, Shirley Jackson che mi piace moltissimo, Elizabeth Strout. Cito tutte queste donne non per fregiarmi di femminismo, ma per una questione di gusto e di qualità. Sento che hanno una forza e una bravura che m’interessa moltissimo. Sono taglienti, dirette, emotive e questo mi piace molto.