I mmaginate la scena: il salotto di casa Strachey a Belsize Park, vicino Hampstead Heath, una delle più grandi aree verdi di Londra, pieno di ospiti. In un angolo, seduta in poltrona, la madre di Lytton, vigorosa ottantenne, intrattiene il pubblico declamando commedie teatrali, ben attenta a espungere i particolari piccanti. È una sera di inizio febbraio, e sia Virginia che Katherine sono state invitate. Virginia ascolta divertita Lady Strachey, che recita tutti i personaggi, cambiando tono ed espressione, con una dizione impeccabile e l’ardore della lettrice appassionata. Conosce quella imponente signora vittoriana da anni, e sa che la lettura ad alta voce è non solo uno dei suoi passatempi preferiti, ma anche – come avrebbe scritto nel suo elogio funebre, nel 1928 – “uno dei suoi grandi doni di natura”.
Katherine, che frequenta quei salotti da qualche mese, si aggira silenziosa e guardinga nella sala. Probabilmente indossa uno dei suoi abiti à la parisienne, la frangetta le copre la fronte. Gli occhi attenti e mobilissimi – chi la conosceva soleva paragonarli a quelli di un gatto o di un uccello – si spostano rapidamente per catturare sguardi e parole. Di sicuro lei e Virginia si studiano da lontano, mentre parlano ad altri o sorseggiano un drink. Si sono viste il mese prima a una cena, ma non hanno legato. Ora, forse, attendono il momento giusto per avvicinarsi.
C’era qualcosa di prude in lei, almeno all’inizio, nei primi contatti: un moralismo preliminare, senz’altro una resistenza a lasciarsi toccare da qualcosa che la turbava e, pure, la incuriosiva.
Non sappiamo cosa si dissero, ma uno scambio ci fu senz’altro, perché l’indomani, 11 febbraio, in una lettera, Virginia raccontò a sua sorella Vanessa di aver chiacchierato brevemente “con Katherine Mansfield, personaggio sgradevole ma energico e assolutamente privo di scrupoli, in cui, credo, potresti trovare una ‘compagna’”.
L’ironia, probabilmente, faceva riferimento alla concretezza della sorella: Vanessa era una donna forte, terrena, sensuale. Virginia, da ragazza, si divertiva a chiamarla “il delfino”, nomignolo che rimase negli anni, per via della sua andatura ondeggiante e flessuosa. Era per questo che giocava a paragonare Katherine a sua sorella? Katherine doveva esserle parsa vibrante, e molto carnale, quella sera.
Del resto, le voci sul suo conto dicevano questo e altro, la descrivevano come una donna promiscua, curiosa di ogni esperienza, sempre pronta a sedurre e a concedersi. Non era vero. O meglio, non del tutto. Si trattava dell’esasperazione di unico lato di Katherine, quello febbrile, impulsivo, vorace. C’era molto altro.
Sempre Virginia era attratta, e al contempo infastidita, da chi sembrava avere confidenza con il proprio corpo e con il desiderio. C’era qualcosa di prude in lei, almeno all’inizio, nei primi contatti: un moralismo preliminare, senz’altro una resistenza a lasciarsi toccare da qualcosa che la turbava e, pure, la incuriosiva.
Di Vita Sackville-West le avrebbero detto che era una ‘saffica dichiarata’, di Katherine che era una accalappiatrice senza scrupoli.
Si trattava del tipo di reazione – o piuttosto di meccanismo di difesa – che avrebbe avuto anche durante il primo incontro con Vita Sackville-West, cinque anni più tardi. Di Vita le avrebbero detto che era una “saffica dichiarata”, di Katherine che era una accalappiatrice senza scrupoli. La pittrice Carrington, che aveva vissuto con lei a Gower Street, all’inizio entusiasta della sua presenza e dei loro gusti in comune – entrambe condividevano quello per il cross-dressing, e indossavano spesso capi maschili – era arrivata a dire che Katherine usciva tutte le notti in cerca di prede e aveva preso a spiarla, per controllare quando e con chi rientrava. Dorothy Brett, l’altra coinquilina, aveva scritto alla patrona delle arti Ottoline Morrell che tutti gli ospiti che arrivavano a casa sparivano, come per incanto, inghiottiti dalle stanze al piano terra, quelle di Katherine.
Questi e altri pettegolezzi dovevano essere arrivati a Virginia, che ne era stata senz’altro influenzata. Non a caso qualche mese più tardi, ad agosto – quando la loro amicizia si stava stringendo – Katherine le avrebbe scritto: “Non lasciarti influenzare da QUELLI. Non spendo il mio prezioso tempo a rifarmi i cappellini e a commettere adulterio. Sono troppo superba e orgogliosa per queste cose. Ma che pensino pure quello che gli pare…”.
Stufa di essere l’esotico oggetto dei gossip della cerchia degli amici di Bloomsbury – che predicavano la libertà ma si divertivano a malignare su di lei – con Ottoline sarebbe stata ancora piú diretta: “Al diavolo i Blooms Berries!”, scrisse.
Qualche mese più tardi, Katherine le avrebbe scritto: ‘Non lasciarti influenzare da QUELLI. Non spendo il mio prezioso tempo a rifarmi i cappellini e a commettere adulterio. Sono troppo superba e orgogliosa per queste cose’.
Del resto, il primo febbraio del 1917, pochi giorni prima di incontrare Virginia a casa Strachey, Katherine aveva lasciato Gower Street e si era trasferita, da sola, in un piccolo studio a Old Church Street, nel quartiere di Chelsea. È lì che Virginia sarebbe andata spesso a trovarla, dall’aprile di quell’anno in poi. In quella monocamera piccola, ma pulitissima, e arredata con gusto: il letto dietro un’ampia tenda, un cucinotto, alcuni cuscini colorati distribuiti a terra, dove Katherine – con indosso un kimono di seta a fiori – invitava gli ospiti a bere il tè. Al centro, un’unica grande finestra che aveva soprannominato “the Thou-God-seest-Me window”: era come se a volte, da lì, l’occhio di Dio la osservasse severo, intrusivo. La sensazione non le piaceva, perciò, spesso, scriveva rintanata accanto ai fornelli, con l’odore di noce moscata a farle compagnia.
La prima volta di Virginia a Old Church Street fu il 26 aprile. Quel pomeriggio era partita da Richmond con una missione precisa: convincere Katherine a pubblicare con la Hogarth Press.
Il 23 marzo, infatti, lei e Leonard si erano decisi. Virginia lo aveva annunciato in una lettera a Vanessa, quello stesso giorno: “Stiamo andando a Farrington Street per comprare la nostra pressa”. La “Eclipse” era stata ordinata, pagata e consegnata a Hogarth House il mese dopo – per l’esattezza il 24 aprile – dalla Excelsior Printing Company.
Era importante che Katherine accettasse di affidarle un racconto. Virginia fu convincente, Katherine fu lusingata e acconsentì di buon grado.
Appena due giorni dopo, Virginia era pronta a partire alla volta dello studio di Katherine. Uscita di casa, s’incamminò per la verde, alberata, Paradise Road, girò subito l’angolo per imboccare Eton Street, e così raggiungere la stazione dei treni di Richmond. Il treno costeggiò i giardini di Kew, tagliò in diagonale il Tamigi, attraversò i distretti di Chiswick, Hammersmith, fino ad arrivare a sud dei giardini di Kensington. Pochi passi a piedi, ed eccolo lì, il quartiere bohémienne di Chelsea, pieno di studi d’artista e camere per studenti. Virginia, che tanto amava passeggiare per Londra, godette senz’altro di quell’ultimo tratto a piedi, che le consentiva di guardare le vetrine, di studiare i passanti, immaginando le loro abitudini (tanto più che è proprio a Chelsea che avrebbe ambientato il suo secondo romanzo, Notte e giorno). Ma ecco il numero 141A di Old Church Street, ed ecco lo studio di Katherine.
Katherine aprí la porta, con la frangetta sulla fronte e il volto pallido, che la rendevano così simile alle bambole giapponesi che collezionava – le sue due preferite, che aveva battezzato O’Hara San e Ribni, la seguivano quasi sempre nei suoi spostamenti.
Virginia, a tutta prima, forse non seppe dove collocarsi, alta e magra com’era, abituata alle grandi falcate più che ai passetti da geisha. Ma la curiosità per quel luogo tanto diverso da casa sua, e per quella donna così singolare, le fece senz’altro brillare gli occhi, con quel lampo di vita e di malizia che l’attraversava ogni qualvolta era stimolata da una novità o da un’umana stranezza.
E poi, c’era un obiettivo da raggiungere: il racconto. Era importante che Katherine accettasse di affidarle un racconto. Virginia fu convincente, Katherine fu lusingata e acconsentì di buon grado. L’accordo fu preso, il sodalizio era nato. Difficile dire se l’occhio di Dio benedicesse o meno quell’unione. Quel che è certo è che, davanti alla finestra di un angusto studiolo, due grandi scrittrici cominciavano la loro amicizia sotto il segno della letteratura.
Estratto da Nessuna come lei. Katherine Mansfield e Virginia Woolf: storia di un’amicizia di Sara De Simone (Neri Pozza, 2023).