S crissi Corteo di ombre fra il 1966 e il 1968 a Madrid (cercavo allora di rivivere e di ricreare senza provincialismo la mia Galizia privata, il Paese delle meraviglie dell’infanzia e dell’adolescenza, con le sue ombre, a volte nefaste, che tornavano dal passato, al quale si univa, tra il nostalgico e lo spettrale, il paese “da cui partirai e non tornerai” di tanti emigranti) e quando me ne andai a vivere a Londra, nel 1969, mi portai il manoscritto con l’intenzione di aggiungervi un paio di capitoli che avevo già abbozzato. Alla fine decisi di lasciare il libro com’era e rividi e corressi soltanto il capitolo intitolato “Palonzo”. Sebbene i suoi nove episodi possano essere letti anche in modo autonomo, come racconti, ho sempre pensato che facessero parte di un romanzo corale su un paese e uno spazio immaginari, con personaggi che si rivelavano successivamente, nel corso delle vicissitudini delle loro vite, in rapporto tra loro in maggiore o minore misura.
Alcune di queste storie ricevettero dei premi – così “La seconda persona”, il Gabriel Miró nel 1969, e “Il fiume senza sponde”, lo Hucha de Plata per i racconti nel 1970 – però non ebbi il coraggio di inviare il romanzo a un editore. Immaginai che la censura non avrebbe lasciato passare capitoli come “Caccia in luglio”; ma c’erano altri motivi per rimandare la pubblicazione del libro. Il principale era che dopo aver vissuto un anno a Londra mi ero immerso nel progetto narrativo di Larva, che si prospettava lungo, e per di più largo, perchè cercava di ampliare il castigliano e farlo uscire dai suoi cardini per riflettere il meticciato e il cosmopoliglottismo della grande città come riassunto del mondo, perciò decisi che era meglio che Corteo di ombre rimanesse ancora nell’ombra, senza vedere la luce nel Paese opprimente che mi lasciavo alle spalle, mentre l’Ingannatore carnevalesco del nuovo romanzo procedeva nel corteo di donne e di ombre della notte sulle rive del Tamigi. Nella vita libera di Londra, assorto nel gioco di dame e di lingue e di maschere di Larva, andai disinteressandomi di Corteo di ombre o forse mi sembrò di non comprendere più il suo piatto castigliano.
Una notte nevosa del gennaio 1970 a Londra, dopo avere cenato a casa di amici a Golders Green, nel nordovest della città, conobbi un tassista che risultò essere originario di Tamoga, o di un posto molto simile e vicino. Era arrivato in Inghilterra tra i sette e gli otto anni con i genitori e nel giro di un quarto di secolo aveva dimenticato quasi completamente la lingua materna. Cercava di dire frasi isolate in spagnolo che io lo aiutavo a completare e a pronunciare meglio. Arrivati alla mia destinazione, più a sud, a Queen’s Park, rimanemmo per una buona ora nella sua auto a fare pratica dello spagnolo di base della sua nostalgia ritrovata, avvolti dai fiocchi di neve che avevano già ricoperto di bianco il parco di fronte. Ogni frase, strappata a fatica dall’oblio, era accompagnata da un brandello di ricordo. Sì, sì, insisteva. Alla lingua imparata di nuovo era appiccicato il suo breve passato di bambino a Tamoga. Quel tassista londinese, di qualche anno più vecchio di me, tentava di reimparare la sua lingua e il suo passato perduti. Al contrario, io a Londra cercavo di disimpararli, di separarmi da un Paese e da un’atmosfera asfissianti. Il cartello della stazione di Tamoga – con due lettere rovinate – dice con grande proprietà: A(h)oga, “affoga”. Con la prospettiva del tempo, che è il miglior punto di osservazione, riesco a vedere che allora cercavo di allontanarmi da una Spagna che per me puzzava di canfora, se non di bruciato, e che indubbiamente faceva meno male a me che a Unamuno, la cui celebre frase è parafrasata in farsa e tradotta fedelmente dal narratore di Larva con l’esclamazione: “Spain pains me!”. E mi sembrava che la sovversione del linguaggio fosse la migliore aspirina per il mal dei Pirenei.
Rimanemmo per una buona ora nella sua auto a fare pratica dello spagnolo di base della sua nostalgia ritrovata, avvolti dai fiocchi di neve che avevano già ricoperto di bianco il parco di fronte.
Si avvicendarono gli anni e i libri, così come le altre città in cui vissi, e il dattiloscritto di Corteo di ombre rimase in fondo a una cassa in attesa che mi degnassi di spolverarlo e di dargli un’occhiata. Con il passar del tempo, lo ricordavo di tanto in tanto non senza un accenno di rimorso. Per esempio, nel 1991, quando vivevo a Berlino, pensai che magari avrei potuto offrirne un frammento per un dossier che mi dedicava una rivista tedesca; però allora non avevo il manoscritto a portata di mano. Qualche anno più tardi, in una conversazione alla fine di un pranzo a New York con uno dei miei editori nordamericani, mentre evocavamo i tempi del franchismo tirai in ballo il mio libro inedito, a cui si sarebbe potuto pensare come a un peccato di gioventù rinchiuso in Purgatorio. E un po’ più di un anno fa, parlando a Parigi con i miei editori francesi, Corteo uscì dall’ombra per affacciarsi nella nostra conversazione e risvegliare un interesse che allora non sapevo se avrei condiviso.
Trascorse qualche mese da quella conversazione a Parigi, anch’essa svoltasi dopo un pranzo, e nel romanzo che stavo scrivendo si infiltrarono tra i ricordi di un personaggio – sradicato come quel tassista londinese – alcune lontane evocazioni di Tamoga. Allora mi dissi che anch’io avrei dovuto rivisitare Tamoga. E per la prima volta dal 1970, non senza apprensione, mi misi a rileggere Corteo di ombre. Non ci furono intenerimenti paterni né saudades, ma nemmeno pseudomasochismi espiatori né cervellotiche freddezze. Io è un altro, un altro autore. Che conserva, ovviamente, i segni dei giri e dei raggiri del suo tempo. O, come direbbe divinamente Milalia, il protagonista di Larva: io sono quello che è oggi… In realtà, dopo tanto tempo, Corteo di ombre non mi lasciò altra scelta che essere suo lettore. Non ebbi, perciò, nulla da aggiungere né da togliere. E sono soddisfatto che il libro non si sia trasformato da Cortejo de sombras in Cotejo de sombras, “Confronto di ombre”, quella del testo primigenio con le estemporanee aggiunte e correzioni, quella dell’autore che ero con quello che sono oggi.
Apprezzo in modo particolare in Corteo di ombre il corteo, o il corteggiamento (che in spagnolo si può dire anche cortejo), della forma e dello stile, che da allora ho tentato di appaiare nella scrittura. E, al contempo, l’importanza dei personaggi nella narrazione, un altro dei miei amori che vincolano e rivelano che si racconta anche per mettersi nei panni degli altri.
Mentre finisco di scrivere queste righe, vedo dalla mia finestra una nave da carico che passa lungo la Senna, davanti all’isola di Saint-Martin, costeggia il paesino di Vétheuil e si perde in un’altra curva del fiume accanto alla vecchia casa di Monet. Il corso della Senna lo conosco quasi a memoria e posso anticipare che in seguito, nei pressi di Rouen, passerà davanti al padiglione di Flaubert a Croisset per cercare poi la foce e giungere al mare e forse dopo molte ore e onde sfiorare la costa di Tamoga che è stata molte volte anche quella della morte.
J.R.
19 novembre 2007
Estratto dal prologo a Corteo di ombre (Safarà Editore, 2022). Traduzione di Bruno Arpaia.