J ean-Philippe Toussaint è uno scrittore belga nato nel 1957 che, malgrado la scarsa fama in Italia, è incluso di frequente negli elenchi dei più importanti scrittori francofoni contemporanei. Lo si cataloga come un erede del Nouveu Roman, anche se più comico, o di Beckett. La sua scrittura viene a ragione definita minimalista, tanto per lo stile che per una costante quasi completa assenza di trama. I protagonisti dei suoi romanzi non si fanno problemi a impiegare il loro tempo in attività quali la pulizia di un polpo o la ricerca di un tubo di palline da tennis. Spesso li troviamo ritratti in luoghi quieti e silenziosi, mentre guardano la notte o la pioggia da dietro una finestra. Si ha così l’impressione di sperimentare un lusso durante la lettura di Toussaint, o una strana calma imposta, che a tratti rischia di risultare snervante.
Si ha l’impressione di sperimentare un lusso durante la lettura di Toussaint, o una strana calma imposta, che a tratti rischia di risultare snervante.
Il libro d’esordio è La stanza da bagno. La trama: un giovane ricercatore si chiude in bagno per giorni interi, ignorando ostinatamente i suoi impegni. Quando riceve l’invito per un misterioso ricevimento all’Ambasciata austriaca, si chiede se non sia opportuno uscire, ossia: “affrontare il rischio, il rischio di compromettere la quiete di una vita astratta per” (la frase non prosegue oltre). Ecco così che, alzatosi dalla vasca, decide senza alcun motivo apparente di partire per Venezia, anche se solo per tornare a chiudersi in un’altra stanza, stavolta d’albergo, dove passa ore a giocare a freccette.
La prima edizione italiana di La stanza da bagno reca sulla copertina un quadro di Mondrian. Il nome del pittore olandese appare verso la metà del libro: “Della pittura di Mondrian mi piace l’immobilità. Nessun pittore si è avvicinato tanto all’immobilità. […] In Mondrian l’immobilità è immobile”. Evidentemente il protagonista ne subisce il fascino, ma deve constatare con fastidio che schivare relazioni e impegni lavorativi non significa potersi sottrarre del tutto allo scorrere del tempo. Eccolo ragionare a bordo del treno per Venezia:
Immobile. Attento al movimento, unicamente al movimento, al movimento esterno, evidente, ma anche al movimento interno del mio corpo che si distruggeva, movimento impercettibile a cui cominciavo a dedicare un’attenzione esclusiva, su cui volevo concentrarmi con tutte le mie forze. Ma come coglierlo? Dove constatarlo?
Se la pittura di Mondrian, a sentire il protagonista, riesce, insuperata, a ritrarre l’immobilità (“l’assenza di ogni prospettiva di movimento”), Toussaint invece sembra essersi posto l’obiettivo di cogliere quel movimento, impercettibile e spaventoso, a cui neanche il più ostinatamente immobile dei personaggi può sottrarsi. Come la dama bianca, il dolce in cui la pallina di vaniglia non può che sciogliersi sotto il cioccolato bollente. O come Venezia, che ogni anno sprofonda di qualche millimetro (“Ogni volta che scendevo l’ultimo gradino di una scalinata, saltavo giù a piè pari, e, aspettando Edmonsson in basso, l’invitavo a fare altrettanto. Dato che la città sprofonda trenta centimetri ogni secolo, ci si poteva aspettare, premendo con forza i passi sul marciapiede, di contribuire al suo inghiottimento”).
In Monsieur – il secondo libro di Toussaint, l’unico scritto in terza persona, quello dalla comicità più slapstick – si ricomincia da dove avevamo lasciato:
Prima avrebbe potuto immaginarsi facilmente due entità distinte, sfortunatamente astratte, separate in tutti i punti, di cui una, immobile, era lui, che era sempre stato tranquillo, e l’altra era il tempo in movimento sul suo corpo, mentre ora si faceva strada in lui l’idea che non c’erano due entità, ma una sola, un vasto movimento che ora lo trascinava via, senza resistenza.
Al protagonista di Monsieur le cose semplicemente accadono, come per caso, senza che lui faccia alcuno sforzo. Questa intrinseca mancanza di spiegazione risuona nelle ripetizioni di fisica che Monsieur impartisce al giovane nipotino:
Monsieur, il quale evidentemente poteva realizzarsi solo in una condizione stazionaria, si spostava a quanto pareva senza transizione e la sua energia, come del resto quella dell’elettrone, quasi fosse il gioco delle tre carte, effettuava un salto discontinuo in un determinato momento, oplà, ma era impossibile determinare in quale momento quel salto sarebbe avvenuto poiché non c’era ragione, secondo l’interpretazione di Copenaghen, che avvenisse in un dato momento piuttosto che in un altro. Ma secondo Monsieur [il nipote] non avrebbe capito. No (non era nel programma).
Come gli scrittori del Nouveau Roman, Toussaint evita scrupolosamente di fornire una caratterizzazione psicologica che motivi le azioni dei personaggi. L’immobilità dei suoi personaggi si spezza di colpo, ma quasi sempre Touissant rinuncia a descrivere la maturazione o le cause di tali avvenimenti.
In un’intervista con Micheal Silverblatt, il mitico conduttore del programma radio Bookworm, Touissant spiega che per descrivere la sua scrittura al termine minimalista preferisce il termine infinitesimale. Quest’ultima definizione in effetti permette di accogliere delle particolari sequenze, brevissime sul piano temporale, in cui l’energia potenziale accumulata in tutte le precedenti pagine di staticità si riversa in modi inaspettati. In La macchina fotografica si può trovare uno di questi scoppi di energia, in una scena molto simile a una che si trova in un romanzo di Daniele Del Giudice, Lo stadio di Wimbledon, solo di pochi anni precedente (nella postfazione a La stanza da bagno che accompagna la recente ripubblicazione di Amos Edizioni, il traduttore Roberto Ferrucci racconta di un incontro fra i due scrittori avvenuto a Venezia: sembra che Toussaint fosse emozionato, al cospetto di un autore che ammirava, seppure non fosse tanto più vecchio di lui). In entrambe le scene appare una macchina fotografica, abbandonata da qualcuno (in Del Giudice ci troviamo in uno stadio, in Toussaint su una nave che attraversa la Manica), ed entrambi i protagonisti progettano di appropriarsi della macchina: quello di Del Giudice però traccheggia un po’ troppo, e così arriva un altro uomo a prenderla – non il proprietario. Potrebbe essere stato il protagonista di Toussaint, il quale, impossessatosi della macchina, scatta delle foto freneticamente e senza neanche prendere l’inquadratura, gettandola poco dopo nel mare. Cosa c’è in quelle foto prese alla rinfusa?
Quella trasparenza che avevo ricercato con tanto affanno alcuni anni prima quando avevo provato a fare una foto, una sola foto, qualcosa come un ritratto, un autoritratto, forse, ma senza di me e senza nessuno, soltanto una presenza, intera e nuda, dolorosa e semplice, senza sfondo e quasi senza luce.
Ancora:
la foto sarebbe stata sfocata ma immobile, il movimento sarebbe stato arrestato […] ci sarebbe in essa tutta la distesa che precede la vita e tutta quella che la segue, appena più distante del cielo che avevo sotto gli occhi.
Quella foto, mai sviluppata, sarebbe stata essenzialmente un Mondrian. E, di nuovo, sta lì come termine opposto alle intenzioni del romanzo. A dire il vero, in La macchina fotografica osserviamo un cambiamento: stavolta l’indolenza del protagonista sembra quasi una tattica, un’attitudine voluta e non necesariamente nociva:
la mia manovra d’approccio, assai oscura in apparenza, aveva per così dire l’effetto di ammorbidire la realtà contro la quale cozzavo – come si può ammorbidire un’oliva, ad esempio, prima di infilzarla con successo sulla forchetta –; […] la mia propensione a non precipitare mai niente, ben lungi dall’essermi nefasta, mi preparava un terreno favorevole dove, quando le cose mi fossero sembrate mature, avrei potuto fare centro.
Nello stesso spirito, più avanti viene espressa ammirazione per un problema scacchistico formulato da Gyula Breyer, in cui per cinquanta mosse si rinuncia a mangiare alcun pezzo o a muovere anche solo un pedone: “(interessante questa variante Breyer, tutta di tergiversazioni apparenti, ritirate tattiche, ma che, come se niente fosse, gettava le fondamenta di una posizione solida come roccia)”.
Questa strategia, e i suoi inconvenienti, sono ancor più centrali in La televisione, il quinto libro di Toussaint, forse il più divertente. Anche stavolta il protagonista è un accademico. Dovrebbe cominciare a scrivere un saggio su Tiziano Vecellio, e perciò decide di restare a Berlino per l’estate, lasciando partire moglie e figlio per il mare. L’inizio del lavoro di scrittura però è difficoltoso:
Ho sempre lavorato molto bene a mente, lasciandomi a poco a poco impregnare dal libro che progettavo di scrivere, seguendo semplicemente il filo dei miei pensieri, mentre, senza che io facessi nulla per deviarne il corso, una moltitudine di impressioni e fantasticherie, di strutture e di idee, spesso incomplete, sparse, incompiute, in gestazione o già concluse […] affluivano piano piano nella mia mente. […] E, pacifico, sempre disteso sull’erba del parco di Halensee, pensavo che, insomma, nella prospettiva stessa di scrivere, non scrivere è importante quanto scrivere. Ma forse non dovevo abusarne (e infatti questo è l’unico piccolo pericolo che potrei correre in questi tempi).
Nei progetti del protagonista il saggio dovrebbe scaturire da un aneddoto di Alfred De Musset, che racconta di come l’imperatore Carlo V si sarebbe chinato per raccogliere un pennello caduto dalla mano di Tiziano. Aneddoto che significa la sottomissione del potere temporale all’arte, certo, se non fosse che l’interesse del protagonista non riguarda le ragioni per cui il pennello viene raccolto, ma quelle per cui esso cade: Carlo V diviene allora il rappresentante d’eccezione di tutte le interferenze che disturbano la concentrazione dell’artista, il suo flusso di pensieri. La televisione infatti racconta gli ostacoli e le distrazioni in cui si incappa nell’attesa di cominciare un libro. In un certo senso lo si può intendere come il rovesciamento dei primi romanzi, in cui i protagonisti – reclutanti, indolenti, imballati – scoprivano loro malgrado un movimento in cui erano coinvolti, qualcosa che di fatto agiva dentro di loro. Qui invece il protagonista-scrittore sembra averne già preso coscienza, tant’è che ha tutta l’intenzione di cominciare il suo lavoro, anche se «senza commettere l’errore di affrettarsi», ed è convinto che prima o poi riuscirà a tirar fuori qualcosa dai pensieri che lo attraversano, come Michelangelo di fronte al blocco di marmo (a patto di non venire ingurgitati dai flussi malefici della televisione: alcuni brani del romanzo sembrano presi da un saggio contemporaneo sull’economia dell’attenzione e la dipendenza dagli schermi).
I libri di Toussaint sono contraddistinti da una scrittura ironica, paradossalmente priva di conflitti, che forse qualcuno definerebbe leziosa. Ma anche da malinconia, e orrore di fronte allo scorrere del tempo.
L’urgenza e la pazienza è il titolo di un libriccino ricavato da alcuni testi non narrativi di Toussaint. L’equilibrio tra queste due disposizioni, si afferma nel capitolo che dà il titolo alla raccolta, sarebbe la chiave per leggere ogni opera letteraria. Per il nostro, la pazienza di certo prevale («L’urgenza è uno stato della scrittura che si ottiene solo al termine di una infinita pazienza»), ma non è possibile ignorare quel momento infinitesimale, di grande intensità, in cui finalmente appare l’urgenza. Spesso sono connotati da una violenza insolita, eccessiva: in La stanza da bagno ad esempio leggiamo di una freccetta che inaspettatamente si conficca nella carne di un personaggio, mentre La malinconia di Zidane è tutto dedicato alla famosa capocciata della finale dei mondiali (“un gesto calligrafico” che “non ha potuto che accadere al termine di un lento processo di maturazione, di una lunga genesi invisibile e segreta”), e anche nei romanzi più recenti, che formano la Tetralogia di Marie, se ne ritrovano esempi spettacolari, come la corsa di un cavallo di nome Narita sulla pista di un aeroporto in Fuggire, o un uso improprio dell’acido cloridrico in Fare l’amore (questo ciclo di romanzi, più recente, mostra un distacco netto dallo stile dei precedenti: è lo stesso Touissant ad ammettere nell’intervista a Silverblatt che, dopo La televisione, i suoi intenti letterari si sono fatti più classicamente lirici).
La caratteristica che dunque rimane evidente in tutta la produzione di Toussaint è questo meccanismo di improvvisa rottura delle stasi, in cui spesso si risolvono i suoi romanzi. Eppure, talvolta questo meccanismo si inceppa. Ne risultano dei libri contraddistinti da una scrittura ironica, paradossalmente priva di conflitti, che forse qualcuno definerebbe leziosa. Ma c’è anche malinconia, e orrore di fronte allo scorrere del tempo. In definitiva, si trova in lui una fondamentale differenza, che emerge tanto chiaramente quanto più si fa flebile e incerta, che rende manifesta l’impossibilità di scrivere un Mondrian.