U no dei romanzi che ho odiato ciecamente, nei tempi recenti, è stato Una vita come tante di Hanya Yanagihara. Quando uscì, feci quella cosa che tanto manda in bestia autori e fan degli autori, ma che a me sembra del tutto naturale e innocente: ne ho lette alcune pagine in libreria. Non molte, non sarebbe stato per l’appunto naturale. Una decina, mi pare. E ho pensato: «Già fatto. Da Purdy. E meglio». Ogni recensione entusiastica, ogni parere incoraggiante da parte di stimati lettori, consolidava il mio pregiudizio. Romanzo queer. Indistinzione di genere. Sadomasochismo e amore inscindibilmente attratti come i quark nel protone. Torture porn. Indubbiamente, un catalogo di articoli “molto moderno”. Ma già fatto. Leggevo le frasi tornite nella traduzione sempre impeccabile di Luca Briasco e pensavo: «finge. È un fake. È un fake Purdy». Si narra che Glenn Gould, parlando delle ottave di Horowitz, che ai fan di Horowitz risultavano un virtuosismo divino, abbia detto: «He fakes them». Le finge. E poi Gould, in una delle sue scorribande notturne in sala d’incisione, sciorinava le sue ottave, quelle vere. Ora io non sono in grado di distinguere il tasso di falsità delle ottave di Horowitz sulla base delle ottave di Gould, ma sono in grado di distinguere la falsità delle emozioni della Yanagihara, brillanti e virtuosistiche quanto si vuole, e delle prove psicofisiche cui costringe i suoi personaggi e il lettore, rispetto a quelle di Purdy. Per parafrasare un passo immortale della “Signora col cagnolino” di Cechov: quelle della Yanagihara saranno tutto quello che volete, ma non sono emozioni. E aggiungo: Purdy è il film. La Yanagihara è la serie.
Sono caduto vittima di puro e semplice odio letterario, e se tutto questo primo paragrafo vi sembra violare ogni regola di correttezza circa la valutazione delle opere letterarie, avete ragione. È solo che, mentre leggevo quelle pagine di un romanzo dal successo planetario – meritato o no, sul serio, non sono in condizione di giudicare – pensavo: «Dove stavano queste legioni di lettori assetati di tormento, di amori disturbati, di rapporti servo-padrone, di omosessualità che diventa un caso speciale di una più generale, e post-sessuale, rivolta contro ogni tentativo di fare dell’amore un sogno docile; dove stavano tutti questi adoratori del dolorismo quando pubblicava le sue cose nel vuoto dell’indifferenza quasi completa James Purdy?» La mia risposta è che, per quanto brava sia la Yanagihara, lei ha avuto successo e Purdy no perché lei è un fake. Confessato l’odio, dichiaro l’amore sulla base di quello che ho letto veramente: quasi tutti i romanzi di Purdy, quasi tutti i racconti. In originale.
Veniamo a Purdy finalmente. In realtà, non ancora. Poiché James Purdy è uno degli scrittori più violenti della storia della letteratura, sono indispensabili alcune divagazioni sulla violenza in letteratura, e mi aiuterò con William Shakespeare, che ne sapeva un po’ più degli altri venuti prima e dopo di lui – in arte dopotutto, a differenza che nella scienza, non c’è necessariamente evoluzione.
Cos’è violento? Un terrorista che decapita un uomo è un orrore, ma non è esattamente, secondo me, qualcosa di violento. L’esecutore di quell’atto orribile è un burattino, un’appendice intercambiabile e anonima di una fede religiosa potenziata al punto da diventare pazzia. C’è qualcosa di meccanico, di irresponsabile, di impersonale in quel gesto ripugnante. Non c’è intelligenza in quell’atto, non c’è reale volontà, non c’è scelta, non c’è umanità. E, per strano che possa sembrare, molti orrori commessi dagli uomini, per queste ragioni, non sono violenti come, per esempio, la vendetta di Otello su Desdemona o di Amleto su Re Claudio. Negli atti terroristici, direi che il credo religioso è violento, ma non l’atto stesso. La violenza voglio conoscerla e comprenderla, come ogni comportamento umano sia pure aberrante, l’atto che ne consegue mi suscita solo disgusto. Se il dramma di Amleto fosse concentrato nel momento dell’assassinio del re usurpatore e dei suoi complici, sarebbe solo una mattanza. Ma prima ci sono cinque atti, e sono quelli in cui la violenza entra nel sangue e nelle ossa di Amleto in primo luogo, e dunque dello spettatore e del lettore.
Quella terroristica non è violenza, è distruzione pura e semplice. Mettono a morte gli altri ma, nonostante i loro proclami nichilistici e i loro suicidi in nome di una divinità, non hanno un goccio di morte nel loro sangue e si vogliono liberare tanto dalla morte quanto dal destino umano della violenza. La loro morte infatti è in realtà purificazione, quella delle vittime condanna e pena eterna.
Dopo aver letto Purdy sembra che molti altri scrittori, quando tematizzano la violenza, non facciano molto più che offrire un crudo affresco d’ambiente ispirato al tramonto dell’Occidente.
E allora cos’è la violenza, nel campo protetto della letteratura, dove l’immaginazione può scorrere fino allo spettro estremo delle aberrazioni senza pagare il prezzo alla realtà? La violenza non è ciò che fanno o patiscono i personaggi, ma è quello che hanno nel sangue e nelle ossa prima di compiere un atto irrevocabile. Ci sono scrittori che, quando hanno voglia di “esplorare l’abisso”, o semplicemente di scendervi, si limitano a questo: creano un disfunzionale, uno psicopatico, un mostro, una proiezione di incubi infantili o adulti, che è riconoscibile come tale solo dal momento in cui e dal modo in cui comincia a perdere il controllo. Non si è mai in dubbio, come per Amleto, che non siano affatto pazzi, che la loro pazzia sia finta, sia strategica, sia politica: quella pazzia o disfunzionalità o ipostasi di malvagità è certa, e serve a giustificare la violenza, il dolore, a volte il terrore di cui il lettore sarà saziato.
Questi personaggi, a volte più realistici, più borghesi, a volte più espressionisti e per così dire antisistema (penso al Patrick Bateman di American psycho) a volte spudoratamente funzionalisti (Anton Chigurh di No country for old men) sono molto efficaci nel rafforzare l’idea risaputa che viviamo in un mondo violento, in una società impura, ma non ci dicono nulla quanto alla natura della violenza come una delle forze del destino umano che può agire in ognuno di noi, qualunque sia la civiltà in cui siamo collocati, anche il migliore dei mondi possibili. In questi mostri la reale esigenza è di esorcizzare il male, di ripulirsene massacrando gli altri, e di purificare il mondo che in tal modo gli si consegnerebbe in tutta obbedienza. Per opposizione, lo stesso accadrebbe eliminando loro: ed è questa triviale tensione che lo scrittore mira a produrre nel lettore. Prendete il Chigurh di No country for old men. Se fosse stato eliminato – fisicamente eliminato – ecco risolto il problema del male: e sarebbe sorto il messianico Paese per vecchi. Ma a Elsinore, o nella Cipro di Otello, le cose non sono così semplici. La tensione non è solo di adattamento tra uomo e ambiente, tra natura e società, o tra segni contrapposti di visioni morali speculari. Non ci si può immedesimare realmente in Bateman o in Chigurh, ma in Otello e Amleto e perfino in Riccardo III, sì. Perché, come noi, che non torturiamo e uccidiamo nessuno, non letteralmente perlomeno, quei personaggi hanno la violenza nel sangue e nelle ossa ben prima di commettere i loro delitti. Quando arriva il colpo di spada, o lo strangolamento, il sipario sta per calare.
E allora, dopo aver letto Purdy mi sembra che molti altri scrittori, quando tematizzano la violenza, non facciano molto più che offrire un crudo affresco d’ambiente ispirato al tramonto dell’Occidente. Da questo punto di vista, la loro stessa idea di violenza è un preconcetto occidentale. Vediamo così la violenza del capitalismo; la violenza dell’America; la violenza dell’uomo bianco; la violenza della cultura delle armi; la violenza del maschio. E così via. Ogni cardine dell’occidente viene messo sul banco degli imputati, e satireggiato o criticato nel suo preteso porsi quale fondamento di civiltà alla luce del capovolgimento storico e culturale rivelatore della sua innata violenza. L’unilateralità, la pochezza di questo approccio non può che risultare stucchevole come stucchevoli sono i corollari che ne discendono – letterariamente – in queste opere: dalla certezza dell’amore, alla certezza del non-amore. Dalla certezza del rapporto, alla certezza del non-rapporto. Dalla certezza dell’uomo, alla certezza dell’inanimato “landscape” o di ogni animale non umano. Dalla certezza del potere, alla certezza della marginalità. Dalla certezza dell’eterosessualità, alla certezza di una sessualità del tutto priva di orientamento. No country for old men: quanta sicumera nel capovolgimento operato da quel “no”.
Torno alla categoria della tortura: è una tortura macchinale, una catena infinita di cause ed effetti che fanno scattare la successiva stretta dello stivaletto spagnolo. Il lettore legge per sapere quanti altri giri di vite ci saranno, se e quando finalmente i personaggi saranno stritolati dal dispositivo sadomasochistico allestito dallo scrittore, che in effetti è il dispositivo di autocritica occidentale – benefico dispositivo, sia chiaro – ma divenuto ormai ottuso e letterariamente sterile, perché vittima dello stesso egocentrismo che voleva disinnescare. Shakespeare non faceva così. Dickens non faceva così. Persino Poe non faceva così. Poiché non si preoccupavano di criticare eminentemente l’uomo occidentale, proprio per questo, ci parlavano della violenza dell’uomo in quanto tale, l’uomo vero nel mondo vero, per come loro realmente lo vedevano. La loro satira, la loro violenza, il loro dolore, il loro terrore erano più ingenui e più liberi.
Quando si definisce Purdy come un esploratore degli abissi, un indagatore del cuore oscuro dell’uomo, si rischia un grosso fraintendimento: credere che quello sia il suo core business.
Purdy, che viveva a New York – centro dell’autocritica occidentale – ma la riteneva «la città più provinciale del mondo», vede l’uomo reale, bianco, nero, nativo americano (di cui Purdy ha fornito rappresentazioni insuperate nella letteratura americana, per penetrazione e realismo), non l’uomo divenuto “problema” dal punto di vista della capitale dell’Occidente. Per questo non assume mai la dimensione del torturatore satirico, del provocatore culturale pro o contro il politicamente corretto, non è un raffinato boia cosmopolita e accademico che, a freddo, crea collisioni di laboratorio tra istinti e morale, tra “individuo” e “società”, tra appartenenze sociologiche, e non gioca con la parte dolente delle nostre anime o dei nostri corpi per contribuire al discorso del declino occidentale, della crescente inefficacia del suo potere coesivo e della sua affannata fabbricazione di classificazioni sempre più inclusive, inoffensive e generiche. Né crede all’immaginaria e consolatoria fisica delle certezze e delle anti-certezze che quel discorso propala. Né solletica le presunte contraddizioni di una morale fin dal principio irrealisticamente rigida e conformista (e che come la mitica età dell’oro, non è mai nei fatti esistita) e usata dunque solo come mero “prop” scenico per poter poi dire di fronte alle violenze del presente: No country for old men. Tutto ciò non è il suo obiettivo e nemmeno lo trova interessante. Il country di Purdy è molto più complesso per essere descritto da un’affermazione o da una negazione.
Quando leggete che Purdy è un esploratore degli abissi, un indagatore del cuore oscuro dell’uomo, si rischia un grosso fraintendimento: credere che quello sia il suo core business: il cuore di tenebra, la sessualità disturbata e sofferta, l’emarginazione sociale e psichica, le correnti buie sotto la superficie specchiante del mare. In un certo senso lo è, ma non nel significato provinciale che riscontriamo in altri autori. Perché Purdy fa molto di più, di più ampio, di più umano, che non sposare l’astratto partito preso per il “negativo”; Purdy, anzi, era pienamente e anche provocatoriamente positivo, dunque esposto e vulnerabile. Ha spostato l’asse del disagio dal fulcro storico-politico per cui ogni disagio non è in ultima analisi che un freudiano disagio di civiltà (convinzione particolarmente fortunata in America, che attraversa tanti scrittori anche non impegnati per arrivare fino al manifesto di Unabomber), per riportarlo dentro il cuore caotico di ogni singolo uomo. E sì, l’ha pagata.
1.
Sarebbe troppo oneroso prendere i tanti passi dell’opera di Purdy che mostrano la sua unicità, e la sua, a mio modo di vedere, superiorità poetica e forse emotiva rispetto a altri “esploratori degli abissi umani” che in realtà sono dei sociologi, dei documentaristi travestiti o scrittori di effimeri feuilleton. Ma dopo questa estesa considerazione teorica sarebbe delittuoso non evidenziare alcuni tratti particolarmente significativi dell’opera di Purdy, citandone alcuni passaggi. Dicevo che il dolore, la sofferenza, non sono il suo core business. Purdy, nel suo secondo splendido ma sommesso romanzo, Il nipote, strazia il lettore con un sentimento tra i meno affilati al mondo (quando non è maneggiato da lui): la nostalgia. Certo, la nostalgia può pungere acutamente, lo sappiamo bene. Ma non la nostalgia che non spera più nella cosa perduta, e che ha trovato nuova speranza lungo percorsi inaccessibili ai nostalgici che ancora si tormentano. Nel libro non c’è nessun acuto dolore, nessuna intollerabile sofferenza che però, guarda caso, uno dei personaggi potrebbe reggere e addirittura gustare perché è “un mostro”. Queste cose le fanno gli scrittori “imitatori di voci”, gli inflazionati “esploratori degli abissi”. Incardinano un dolore, per partito preso, e poi tutt’attorno l’orlo del baratro ballano la loro raccapricciante danza di morte.
Ma qui il dolore per un ragazzo scomparso in una guerra lontana, non s’incardina in un luogo cruciale, e quasi non ha spettatori, non ha testimoni: si disperde giorno dopo giorno. Parenti, amici, conoscenti, sono un pulviscolo turbato dall’eco smorzata di uno sparo dal fronte lontano. Questa dispersione è la logica conseguenza del fatto che in Purdy (come in Shakespeare) la mostruosità non si rivelerà provvidenzialmente in qualche prossimo o lontano futuro; la mostruosità si è già data ovunque fuori dalle potenzialità umane, come una proprietà fondamentale della natura. Ecco perché la nostalgia, andando incontro al suo naturale esaurimento e non a un dolore insopportabile, decentrata e trascurabile, volatile eppure persistente come la puzza di ketchup dalla vicina fabbrica, è ancora più tagliente.
Il massimo dolore, la massima sofferenza, lo strazio più lancinante è già alle spalle. Il racconto non può “rivelare i lati oscuri”, perché i lati oscuri, semmai, ora bisogna cercare di coprirli, o di conviverci, o di dimenticarli. Il corpo è già stato mostrificato, le guerre lo hanno già fatto esplodere, e bisogna trascinarsi lentamente verso le bende, le medicazioni, in un percorso non banale dove non si sa quali siano le bende, le medicazioni: non c’è terapia. La vittima, è già sapientemente – direi perfettamente, con la perfezione di un Dio della tortura – torturata. Desdemona è morta prima ancora che cominci il dramma, è già assassinata quando Otello racconta, da volgare miles gloriosus, di averla conquistata raccontandole dei suoi stupefacenti viaggi tra i cannibali, nella scena terza del primo atto:
Gli antropofagi, e gli uomini ai quali cresce la testa sotto alle spalle;tali cose Desdemona ascoltava con profondo interesse;
e se doveva allontanarsi per faccende di casa, le sbrigava in gran fretta,
tornando con orecchio teso ai miei racconti.
È Shakespeare (la mediocre traduzione italiana da cui ho attinto, e di cui non cito gli autori, perde anche il metaforico, dopo aver parlato di cannibali, “divorare il mio discorso”) ma questo è anche il mondo di Purdy. Un mondo dove una donna “seriously incline” con “greedy ear” a ascoltare di antropofagi e uomini le cui teste crescono sotto le spalle, e si innamora perdutamente (nel vero senso della parola) di colui che racconta queste fole, queste spacconate, questi eccessi, e proprio in virtù della pazzia che sta in queste fole, in queste spacconate, in questi eccessi. Allo stesso modo, in Purdy, il Capitano Stadger del romanzo Eustace Chisholm and the Works uscito nel 1967 (che in italiano è stato disperatamente tradotto con “Rose e cenere”) il quale dal punto di vista della seduzione riveste il ruolo della Desdemona del rapporto, si innamora della recluta Daniel Haws che, per un inaudito fenomeno di sonnambulismo, entra una notte nella sua tenda, nudo. Il Capitano Stadger diventa lo spasimante che vuole entrare nel mondo onirico di Haws, e lo farà con le armi – alla lettera – di cui dispone. Il Capitano Stadger farà a pezzi la recluta Haws, perché è così che deve andare un rapporto incominciato con una recluta che, sonnambula, entra nuda proprio nella tenda del superiore incaricato del suo addestramento. In Purdy l’amore non è mai astratto. Questo, se volete, è un amore da campo militare, un amore come quello tra Palla di Lardo e il sergente Hartman in Full Metal Jacket, ma dipinto con così veritiera presa delle ragioni umane da diventare universale.
Così, tolte le distinzioni di genere del tutto ovvie in Shakespeare, quando forma le sue indelebili coppie fatali, si coglie la loro somiglianza con le coppie fatali di Purdy, in cui il genere ridiventa quello che era al principio non della storia umana, ma della natura: un mistero indefinito basato su un dimorfismo del tutto casuale, non una chance di empowerment. La civilizzazione a Purdy non ispira alcuna simpatia, e pertanto quelle distinzioni di genere in Purdy non sono tolte perché fosse anticipatore o consapevolmente queer o alternativo, insomma per un discorso polemico o politico – anzi per molti aspetti era duramente reazionario, sosteneva che il jazz non fosse stato inventato dai neri ma da quei neri che erano entrati a contatto con l’America bianca, mentre in Africa si erano fermati ai primitivi ritmi di danza; che la sua lettura più formativa fosse stata la Bibbia nella versione di Re Giacomo; disse che Susan Sontag, rea di aver definito The nephew “dangerously close to sentimentality”, un giudizio snob ma legittimo, era “one of the apostles of the anesthetic way of life” la cui sindrome era “I will not feel”; era contrario all’uso di qualunque sostanza stupefacente, dall’alcol al tabacco, per non parlare delle droghe leggere o pesanti. Non doveva essere semplice frequentarlo, e quando anni fa passai davanti alla sua casa di Henry Street a Brooklyn Heights non ebbi alcuna tentazione di disturbarlo.
La spiegazione di Otello, cui era stato chiesto come avesse fatto, con inquisitività oggi diremmo razzista, a conquistare Desdemona (sostanzialmente il mostruoso Otello, il calibanesco Otello, deve giustificare l’amore che Desdemona, creatura di Dio, prova per lui) risulta sorprendentemente vicina alle considerazioni sull’amore di molti personaggi di Purdy. I quali, di fronte al medesimo interrogativo, rispondono: anche lei (o lui) è un mostro, non è una creatura di Dio, e il Dio stesso in cui credete è un mostro come me: io l’ho visto. Anche la recluta Daniel Haws, con tutto il suo candore, con il suo sconcertante deambulare notturno, in sogno, vuole il peggio. Vuole la tenda del Capitano Stadger e desidera sperimentare la “perfect weapon”, l’arma perfetta che il suo superiore si è procurato:
Il capitano adesso teneva l’arma davanti a Daniel. Quando il soldato la vide, riconobbe uno di quegli immemoriali strumenti di distruzione menzionati dalle Scritture lette dal suo predicatore quando da bambino lui e sua madre frequentavano la Chiesa dei Discepoli di Cristo molto tempo fa.
Questa “arma perfetta” che viene da un passato “immemoriale” e mitico, sono come i cannibali misteriosi visti da Otello nei suoi mirabolanti viaggi. (Per inciso, è questa vaghezza poetica nei contorni degli strumenti del fantastico e dell’orrifico – che riflette la vaghezza poetica dei contorni del loro stesso desiderio – a distinguere Shakespeare e Purdy (o Lovecraft) da uno Stephen King, in cui il terrore è precisato e seriale come una lattina di Coca-Cola, e dunque letteralmente più spaventoso ma spiritualmente innocuo). Amare vuol dire proprio questo, tendere la mano a Otello, a colui che vi ha affascinato con i cannibali, e come un cannibale vi divorerà, avendo preso come pegno d’amore eterno lo scintillio negli occhi della vostra complicità, il vostro “orecchio teso” e non avere più tempo per altro.
I personaggi di Purdy amano disperatamente e incontrollatamente l’oggetto del loro amore, così come Otello ama sinceramente Desdemona, ma sono dei mostri, le loro più accalorate motivazioni o giustificazioni per quel sentimento che tutto vince sono mostruose e proprio per questo inappellabili, e accettate con fatalismo anche da chi non può che provarne ribrezzo. E l’amore non ridimensiona, ma accresce smisuratamente la loro mostruosità. E la cosa più bella, più seducente, più estatica per loro è amare da mostri, cioè senza freni e senza riguardi per il mondo. Il che non vuol dire, nonostante quanto ho detto poco sopra riferendo di cannibali e di torture, “farsi del male”. Ho parlato di cannibali e di torture, ma come forma d’amore, e resto fermo nel punto perché così Purdy, in modo inaccettabile se volete, chiede e scrive chiaramente.
Proprio questo distingue Purdy dai soliti predicatori del binomio amore e dolore, dove il dolore in realtà è soltanto un amore in mancanza di meglio. Purdy salva, riscatta il dolore tutto intero. Salva, riscatta la tortura e il cannibalismo e le “armi perfette” tutti interi. E salta anche la presente ossessione sul consensuale/non consensuale. È ovvio che l’oggetto del desiderio non è anche oggetto di una transazione consensuale nella misura in cui è desiderato al di là della propria stessa vita in una distorsione fatale della volontà. «L’amore», diceva Purdy, «non è panna montata. I Greci lo sapevano». Mi spiace se tutto ciò suona impresentabile e, ripeto, mostruoso, ma mi sono assunto il compito di raccontarvi Purdy, non la versione censurata.
Ma la sua produzione, se valutata solo tramite i romanzi più violenti come Eustace Chisholm o In narrow rooms (certamente tra i suoi capolavori) sarebbe ingiustamente considerata, perché è fatta anche di romanzi e racconti, non meno sconvolgenti, e che non offrono delizie sadomasochistiche particolarmente esplicite. Mi riferisco ad esempio alla trilogia battezzata “Sleepers in Moon-Crowned Valleys”, composta dai romanzi Jeremy’s Version, The House of the Solitary Maggot, e Mourners Below. Jeremy’s Version è un romanzo di amore – amore alla Purdy, amore che riscatta e salva tutto – tra una madre e un figlio. La scena più violenta del libro è quella in cui la madre, da dietro il cancello della villa in cui si trova il figlio, gli stringe le mani. Il figlio, come se avesse avuto un orgasmo, o come se fosse stato folgorato da una visione di beatitudine divina, dopo che la madre è ripartita, presentendo che non la vedrà mai più, si lascia cadere di schiena su un letto di calendule. È una scena, al contrario di quelle di tortura e crudeltà che ho citato in precedenza, quasi di stucchevole melodrammaticità. Eppure è violenta, è cruda, è straziante. E si regge solo sulla primitiva rivelazione di felicità che un figlio prova alla semplice vista della madre.
Ho detto prima che in The nephew Purdy usa una sola arma per increspare le acque di una placida cittadina di provincia, quella della nostalgia, quella di un ragazzo che non torna dal fronte. Questi esseri semimostruosi, che sono in realtà semplicemente degli uomini, possono provare la nostalgia nelle sue più delicate e riposte sfumature perché nascondono dentro di sé tutti i registri dei suoni più angelici e divini: il sussurro, la carezza, l’abbraccio, il bacio, la cura, il dialogo, il rimprovero amorevole. E li usano. Il problema è che questo arsenale, come fosse un diverso aggregato di una stessa materia, come l’acqua e il ghiaccio, non è separabile dai cannibali, dagli antropofagi, e dall’irresistibile predisposizione a ascoltare le storie di chi li ha veduti. Sanno accarezzare e baciare da mostri. E sanno colpire e crocifiggere da innamorati. E quando seppelliscono un fratello amato e odiato, come fa Fenton col fratello minore Claire, che lui stesso ha soffocato, nel racconto 63: Dream Palace, lo congedano, portandolo tra le braccia, con un insulto carico di amore quanto di volgarità:
It took him all night to get himself ready to carry Claire up, as though once he had put him in the chest, he was really at last dead forever. For part of the night he found that he had fallen asleep over Claire’s body, and at the very end before he carried him upstairs and deposited him, he forced himself to kiss the dead stained lips he had stopped, and said, “Up we go then, motherfucker”.
Una cadenza conclusiva perfetta sul turpiloquio. La traduzione italiana (cito da quella di Floriana Bossi nell’edizione Einaudi del 1960) non è all’altezza purtroppo, perché l’insulto fraterno è intraducibile come perduto è il senso ascensionale del verbo:
Gli ci volle tutta la notte per risolversi a portare Claire di sopra, come se una volta messo nella cassa fosse veramente morto per sempre. Nel mezzo della notte si accorse di essersi addormentato sul corpo di Claire, e proprio alla fine, prima di portarlo di sopra e di deporlo, forzò se stesso a baciare le morte labbra macchiate che egli aveva chiuse per sempre, e disse: – Andiamo, allora, fottuto di mamma.
Quel “motherfucker” finale costò a Purdy la censura nella prima edizione, uscita in Inghilterra per le cure di Dame Edith Sitwell. I censori come sempre vedono lontano. Allora, nel 1956, “motherfucker” non era una parola morta, come oggi. Così come morta, secondo Purdy, era “fuck”. Parole per lui, come disse in una delle ultime interviste, inutilizzabili. Purdy qui prende un’oscenità e la trasforma in un amen, anzi, in una parola ancora più potente di amen, che è una parola morta anch’essa, ormai.
2.
Non lo ricordavo, ma rileggendo 63: Dream Palace mi accorgo che viene citata una rappresentazione di Otello. Coincidenza non casuale. Otello, l’eroico soldato moro e apparentemente anche volgare soldato vanaglorioso, un uomo smisurato ed eccentrico – non così lontano dal deforme Riccardo III – che per sedurre la donna che ama con tutto se stesso ricorre a gulliveriani racconti di viaggi in ignote terre abitate da mostri, doveva colpire Purdy forse perché, come me, credeva che Otello non si stesse affatto vantando, ma che quei mostri li avesse visti veramente, là nelle terre ancora non completamente mappate, e attorno a sé, tra i consiglieri e gli amici più cari, e allo specchio. È questo che lo lega a Desdemona, la quale è imbrigliata nella stessa geografia in parte reale, in parte fantastica. Ed è questo che, come logica conseguenza, perde entrambi. Hanno una curiosità e un’inguaribile attrazione per la vitalità del barbarico, che emerge fin dai tempi del corteggiamento, quando ogni elemento dell’avvicinamento erotico è più chiaro, più netto, più violento.
La violenza incondizionata e anticlimatica di Purdy, il suo introdurci subito, a pagina uno, a un veterano sfigurato, a un vecchissimo milionario e voyeur, a uno stupratore semianalfabeta, a un selvaggio degli Appalachi, o semplicemente a un ragazzo che si taglia i capelli così corti da scatenare la massima ostilità nella sua famiglia borghese, o a una moglie che non accetta il cognome da maritata e per questo diventa prima lo zimbello di un party, poi viene pestata per strada dal marito (è il racconto “Non chiamarmi col mio nome” incluso nella raccolta omonima del 1956, da poco ripubblicata nella traduzione di Floriana Bossi, riveduta, dall’editore Racconti. L’assonanza col titolo del film di Guadagnino non è sospetta: il racconto originale si intitola Don’t call me by my right name) non hanno nulla a che fare nemmeno con la letteratura per così dire asociale, dark o presunta tale dei cantori dell’amore malato, malsano, sinistro, disturbato. A meno che vi sembri che quello tra Otello e Desdemona sia soprattutto il racconto di una affettività disturbata e una parabola antisociale. Per risolvere l’equazione di molti di questi scrittori dark, basta avere a disposizione il manuale dei disturbi psichiatrici.
Un po’ di anoressia, un po’ di disturbo dell’orientamento sessuale, un po’ di fobie e dipendenze sparse (eccettuato occasionalmente l’alcol, le dipendenze in Purdy non appaiono quasi mai: doveva ritenerle “morte” come elemento narrativo, alla stessa stregua sul piano del linguaggio della parola “fuck”) e poi la grande metropoli, la sua pressione ambientale a far deflagrare il tutto. Pretendono di essere parabole asociali o antisociali e sono invece un riflesso fedele di un malessere che si può sempre trovare nell’aria di una città, di un tempo storico determinato. È doloroso, leggere questi libri, ma non sono violenti. Sono torture superficiali. Le loro ferite lasciano il segno, ma è un trucco di scena. Il loro progressivo scendere nell’abisso sa di reportage, e come un buon reportage è calcolato e drammaturgicamente architettato secondo un’intensificazione accumulativa. Invece, quando aprite un libro di Purdy, tutto quello che di violento e di disturbante accade da pagina due in avanti, è già accaduto in forma densissima e rarefatta nella prima proposizione di pagina uno.
Il sipario si apre immediatamente sulla tortura consumata. Il climax della scena gore è già avvenuto (e non nell’inevitabile flashback infantile, la rimossa storia di abuso pronta a spiegare la devianza; a Purdy non appartiene questo pregiudizio sulla totale inermità infantile, sulla completa incapacità di trasformazione e dunque passività a priori dell’infanzia). In questo modo, nei libri di Purdy, quando sulla pagina si verifica un’altra scena gore, in realtà è la scena d’amore. Ecco un esempio di questo immediato inaugurarsi su una scena già violentata, nell’incipit di Narrow rooms (mia la traduzione):
L’EMBRIONE UMANO è raggomitolato in una palla con le narici tra le ginocchia.Al momento della morte la pupilla si spalanca.
Vance De Lakes attese per un tempo interminabile nell’ufficio del dottor Ulric […] e sfogliare i due libri di medicina da cui sono tratte le frasi citate sopra era non meno nauseante degli odori.