L a scena finale di Klara e il sole di Kazuo Ishiguro – l’ultimo romanzo del premio Nobel – è identica all’immagine con cui si apre Gunnm, un manga di Yukito Kishiro serializzato in Giappone dal 1990 e uscito in Italia col nome di Alita. Non solo: il presupposto centrale della trama del libro di Ishiguro – il rapporto fra un androide da compagnia e la ragazzina di cui si deve occupare – è in sostanza identico a quello di Robbie, il primo racconto del ciclo dei robot di Isaac Asimov, uscito nel 1940.
Questo è tutto fuorché un caso. Negli ultimi anni la fantascienza è per molti versi uscita dalla nicchia in cui era stata rinchiusa dal discorso intellettuale per gran parte del Novecento: c’entrano ragioni commerciali; c’entra una sorta di stanchezza del romanzo mimetico borghese; c’entrano alcuni cambiamenti radicali della società contemporanea – l’impennata dell’intelligenza artificiale, l’infittirsi di catastrofi climatiche sempre più innegabili – che la fantascienza a volte ha predetto e che è comunque più attrezzata per raccontare. Questa lenta ascesa, che raggiunge il suo culmine nella prossimità fra il romanzo di Ishiguro e tropi assodati del corpus fantascientifico, potrebbe essere vista come la tardiva canonizzazione di uno dei rami più fertili dell’invenzione narrativa dell’ultimo secolo. Oppure potrebbe essere vista come un’appropriazione, un rapimento.
Scrutando la piana del romanzo dalla vetta delle loro torri di porcellana, gli autori di Letteratura Seria scorgono in lontananza l’accampamento della speculative fiction, di cui loro – ormai sterili per l’età – bramano la prole numerosa e vivace. Forti dei cannoni della Critica, in sella ai poderosi destrieri delle Pagine Culturali, i vecchi ma ancora agguerriti Letterati irrompono fra le catapecchie, rapiscono i giovani zotici e li conducono di forza nella Cittadella dell’Arte. Con un paio di Approfondimenti Psicologici per coprire le cicatrici e di Iperbato una spruzzata sulle clavicole a mascherarne gli afrori, riescono a trafugarli oltre gli augusti cancelli. Che futuro li attende? Forse la nostalgia degli orizzonti vasti li porterà a deperire; forse un giorno verranno smascherati e linciati sulla pubblica piazza; forse la rabbia adolescenziale li spingerà ad appiccare il fuoco ai palazzi di marmo e rubino. O forse alla lunga si sentiranno a casa, relegando le notti all’addiaccio agli incubi dell’età adulta, tanto da convincersi che il rapimento era un ricordo falsato dagli anni di quella che era solo una gita in campagna. Chissà, magari la cittadella era sempre stata casa loro.
Klara e il sole è narrato in prima persona da Klara, il robot, che racconta la vicenda dal periodo in cui la bambina malata di cui andrà a occuparsi, Josie, la adocchia in negozio fino a quando, con l’inizio dell’università, la lascia in discarica. Klara entra nella vita di Josie – nella sua casa, nella sua società – accompagnando chi legge alla scoperta di una distorsione distopica del mondo contemporaneo. Come in altri romanzi di Ishiguro, la trama è archetipica ed esile, e la forza del libro deriva in larga misura dal progressivo disvelamento del contesto. Apprende che Josie aveva una sorella, morta da piccola; che l’Inghilterra in cui è ambientata la storia è stratificata in classi separate da un miglioramento genetico rischioso che è la ragione della malattia di Josie; che Klara è stata acquistata anche nella speranza che potesse imparare abbastanza, della piccola, da diventarne una replica qualora fosse morta. Ma nonostante questo le avrebbe garantito un impiego più prolungato, Klara si impegna perché la bambina resti in vita. Inventa un culto di un dio-sole, ispirato dalla propria necessità di ricaricarsi con un impianto fotovoltaico, e giunge a promettergli fioretti e sacrifici perché Josie abbia salva la vita.
Come in altri romanzi di Ishiguro, la trama è archetipica ed esile, e la forza del libro deriva in larga misura dal progressivo disvelamento del contesto.
L’intelligenza di Klara è al contempo acuta ma vergine, il che le conferisce una curiosità da adolescente ma un equilibrio interiore da adulta, facendone una narratrice affascinante e meticolosa, a tratti tenera o comica nella sua ingenuità. La sua voce – resa magistralmente da Susanna Basso nella traduzione italiana – è preternaturalmente neutra senza essere fredda, con una precisione di dettaglio acuta ma leggermente obliqua, come fuori asse. La sua cadenza sistematica ma sempre appena sbilenca è sia umana che aliena. Chi legge la trova straordinariamente simile a qualcosa di cui non può avere esperienza, cioè la voce narrante di un’intelligenza che ha imparato dall’umano ma che umana non è. Questo è un risultato letterario straordinario, tanto più perché una complessità formale del genere è molto rara nella storia della fantascienza. D’altro canto, è innegabile che – visto dalla prospettiva di quella storia – Klara e il sole si riveli in molti aspetti carente.
Se la fantascienza è narrativa di idee, quelle di Klara e il sole sono in larga misura già viste. Il world-building è appena accennato. Ci sono delle contraddizioni logiche che Ishiguro non sana: la mentalità artificiale di Klara – la distinzione fra ciò che sa in modo innato e ciò che deve apprendere dal mondo – sembra calibrata per incantare chi legge con la propria scaltra ingenuità, senza una vera teoria di come tale mente potrebbe funzionare. Ishiguro sembra voler sostenere, col culto del sole inventato da Klara, che una sorta di mentalità magico-religiosa sia intrinseca ai processi razionali. Ma non spiega come è possibile che il suo robot “inventi” un culto del sole. Cosa è ”natura”, cioè programmazione, e cosa è “cultura”? Se la trama di Ishiguro deve aiutarci a riflettere – obliquamente, per metafore e lampi, come fa la sci-fi – sull’intelligenza artificiale, queste domande devono avere una risposta nel libro. Non ce l’hanno; e cercandola e non trovandola ti rendi conto di qualcosa.
Leggi pagina dopo pagina di un romanzo appassionante, sedotto da un lavoro linguistico raffinatissimo, dall’intelligenza di Ishiguro nel ricostruire i processi mentali ma anche nel far apparire i dettagli visivi – e in tutta questa passione e seduzione forse tralasci di considerare che quello che hai fra le mani potrebbe essere, per molti versi, un racconto lungo del periodo classico della fantascienza, un po’ imbellettato. Senza negare la profondità stilistica e psicologica di Klara e il sole, cioè, ti sorge il sospetto che la “letteratura” sia solo quella roba lì: la presentazione formalmente raffinata e agghindata di introspezioni realistiche di idee già viste, relegate sinora ai bassifondi solo perché la loro sintassi non rispettava il dresscode e i dialoghi erano tutti un po’ goffi. È un sospetto fondato?
Spoiler: no, non lo è. Ma per capire come mai – e mettere a fuoco cosa rende Klara e il sole un romanzo spiazzante e grandioso – è utile considerare un caso di contrasto, esattamente come per capire se un dipinto è vero è utile studiarne uno falso. Il falso, in questo caso, è Macchine come me di Ian McEwan.
Macchine come me è un romanzo del 2019 che parla, proprio come Klara e il sole, di androidi. Come Ishiguro, McEwan appartiene a una tradizione di romanzo letterario, classico, mimetico, comunque lo si voglia chiamare; ha flirtato a lungo con la fantascienza, ultimo di una lunga tradizione britannica nobilitatata da Kingsley Amis, ma questo romanzo è il primo in cui si sia misurato direttamente coi tropi del genere. In un’Inghilterra thatcheriana in cui Turing è rimasto in vita rivoluzionando l’informatica già negli anni ’50, un perdigiorno eredita dei soldi e decide di comprarsi uno dei primissimi androidi intelligenti messi sul mercato. Ma la macchina intelligente si rivela troppo intelligente: va a letto con la sua fidanzata; convince il padre di lei di essere un partner migliore per la figlia; aiuta il proprio acquirente ad arricchirsi giocando in borsa ma poi, maturando una coscienza, dona tutto ai poveri; in un alterco gli rompe un braccio e lo minaccia di conseguenze ben peggiori se proverà a disattivarlo. Alla fine, esasperato dalla perdita economica, il narratore lo coglie di sorpresa e lo distrugge; in conclusione, Alan Turing lo accusa di avere ucciso un essere vivente.
Se nel romanzo “classico” la coerenza psicologica e sociale è fondamentale, nella speculative fiction lo è la coerenza logica del mondo che si va a costruire.
Per certi versi, il romanzo di McEwan è molto più rispettoso delle regole della fantascienza di quello di Ishiguro. Il mondo della storia è ricostruito con una capillarità a tratti frustrante, in lunghissimi excursus pseudostorici sull’opposizione a Thatcher e lo sviluppo della robotica. Le caratteristiche specifiche della tecnologia inventata – l’intelligenza artificiale – risultano più centrali nella trama. La stessa conclusione sembra proporre una tesi filosofico-tecnologica, come certi racconti di Asimov o LeGuin; in questo caso, una illustrazione narrativa dell’idea di Turing secondo cui una macchina che in conversazione sembra intelligente vada considerata a tutti gli effetti tale.
Come in Ishiguro, però, l’impianto del romanzo mostra certe lacune teoriche difficili da ignorare. L’intera trama – tesa a dimostrare che i robot, intelligenti, dovrebbero avere diritti – si regge sull’inspiegabile reticenza del protagonista a far valere tale supremazia. Se il robot è, dal punto di vista legale, un oggetto, non ci si spiega come mai il suo proprietario non invalidi i bonifici che esegue; come mai non faccia causa al produttore per i danni che ha causato anziché distruggere una sua costosissima proprietà. Ma è solo l’inizio: non ci si spiega come mai un signor nessuno con qualche decina di migliaia di sterline riesca ad accaparrarsi uno dei primissimi, attesissimi androidi pensanti; come mai una ditta venda a pochi soldi una macchina in grado di speculare e vincere sempre in borsa anziché usare questo sistema per guadagnare in proprio. Queste domande, ognuna di per sé minore, suscitano un’impressione iniziale di pressappochismo che però, andando avanti, stinge in una sorta di malafede. Se la letteratura speculativa è una forma di esperimento mentale, quello di McEwan non dimostra niente, perché le condizioni al contorno risultano scelte artatamente per giustificare la conclusione che desiderava.
McEwan ha voluto scrivere un libro che fosse una storia di idee, in grado di svilupparle proiettivamente per giungere a una conclusione filosofica. È ciò che fanno i grandi romanzi di LeGuin, di Dick. Al contrario che Dick e, in certa misura, LeGuin, McEwan ha voluto farlo facendo “letteratura classica”, cioè con un’attenzione alla psicologia a-tutto-tondo e al contesto socioeconomico che nella tradizione del genere risulta spesso assente. Ma non è assente per superficialità, bensì perché la fantascienza richiede uno scrupolo diverso: se nel romanzo “classico” la coerenza psicologica e sociale è fondamentale, nella speculative fiction lo è la coerenza logica del mondo che si va a costruire, l’onestà dell’esperimento mentale. Una personalità piatta è accettabile; un’incoerenza di worldbuilding no.
McEwan, in Macchine come me, sembra volersi appropriare della fantascienza dall’alto, partendo dal presupposto che la sua indubbia maestria nel creare psicologie e dialoghi non possa che arricchire l’apparente rozzezza della sci-fi. Ma in realtà, in ciò, mostra di travisare – di sottovalutare profondamente – il genere, un po’ come un colonizzatore della cittadella potrebbe scambiare la lingua dell’accampamento per un groviglio di suoni disarticolati. Le lacune di spiegazione circa il ruolo degli androidi nel mondo inventato da McEwan non sono pignolerie; sono l’equivalente, in sci-fi, di quello che in un romanzo mimetico classico sarebbe l’incoerenza psicologica di un protagonista che fa un atto assurdo spiegato dal narratore come “un raptus”, senza radici nella personalità o nella storia individuale. Sono violazioni delle regole. Ciò che ne risulta è un libro che prova a fare fantascienza e fallisce; il dettaglio fantastorico, la profondità psicologica dei personaggi risultano in questo contesto grotteschi tentativi di camuffare un’inconsistenza, vezzi.
Ishiguro non considera la fantascienza un sottogenere da intestarsi ignorandone la tradizione, in virtù di una sua qualche supremazia letteraria.
E qui appaiono, in contrasto, la grazia e la profondità di Ishiguro. Il suo world-building è lacunoso perché in fondo, a lui, il world-building non interessa. Cercare nel suo romanzo tesi filosofiche sull’intelligenza artificiale è sbagliato, perché Klara e il sole non è un esperimento mentale, non parla di idee. Parla di noi.
Questo valeva anche di quello che è probabilmente il suo capolavoro, Never Let Me Go, anch’esso, in apparenza, un romanzo speculativo. In un’Inghilterra parallela un gruppo di ragazze e ragazzi cresce in un collegio idilliaco le cui minime stranezze rispetto alla normalità di chi legge bastano a far presagire qualcosa di cupissimo e vasto. In realtà sono cloni, allevati come riserve di organi. I due protagonisti, cresciuti insieme amandosi, si sforzeranno invano di ribellarsi a questo destino.
Anche nel caso di Never Let Me Go la premessa non ha molto di nuovo, ma a Ishiguro questa interessa non come ipotesi di un esperimento mentale, ma come situazione umana. Non vuole avanzare una tesi sui diritti dell’umanità, sui limiti etici della tecnologia: ma trova, nei cloni che crescono in una scuola idilliaca senza sapere di essere destinati al macello, una metafora straziante e impareggiabile dell’adolescenza, dell’impatto dolorosissimo con la perdita delle illusioni.
E cioè: Ishiguro non considera la fantascienza un sottogenere da intestarsi ignorandone la tradizione, in virtù di una sua qualche supremazia letteraria. Lo considera un campo del sapere distinto, da cui farsi ispirare. I suoi romanzi sono “classici” nella misura in cui si occupano di sviluppo psicologico senza un interesse primariamente speculativo. Ciò che traggono dalla fantascienza sono idee per testare tale sviluppo in condizioni estreme, che non si danno nel contesto a cui è vincolato il realismo classico. L’adolescenza dei ragazzi di Never Let Me Go è più straziante della nostra. L’affetto, la cura, lo spirito di sacrificio di Klara – la sua capacità di trovare un senso a una vita subordinata – spiccano maggiormente di quelli del maggiordomo di Quel che resta del giorno. Ma è di questo, non dell’etica dell’intelligenza artificiale, che parla Klara e il sole: di cosa significa imparare ad amare, di come trovare la felicità.
Senza l’apporto della fantascienza, questi romanzi non avrebbero potuto essere tanto vividi e potenti; ma ciò non fa di Klara e il sole un romanzo di sci-fi. Ne fa il più alto risultato di un processo di riavvicinamento di due tradizioni immaginative ritenute – per ragioni di vario ordine – distinte sino a poco tempo fa. Mostra rispetto per la tradizione fantascientifica ma al contempo esibisce, con grande maestria, qual è lo specifico del romanzo “letterario” che lo rende uno strumento non più alto ma diverso dal romanzo speculativo: l’indagine di cosa significa essere umani. Ishiguro lo fa raccontando di cloni e di robot.