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fatti “sono materie morte”, siamo noi esseri umani a sollevarli dal regno inorganico, “incollandoci delle parole”. Ne è convinto Frank Westerman, lo scrittore olandese che, dopo una lunga carriera nel giornalismo, ha deciso di dedicarsi esclusivamente alla scrittura, ai libri. Westerman scrive saggi sotto forma di reportage. Unisce verticalità della ricerca e orizzontalità della narrazione, nella migliore tradizione del reportage narrativo, che in lui declina verso il filosofico. Senza mai perdere l’ancoraggio alla realtà. La realtà raccontata. Le sue storie partono sempre da domande intime, personali, ma si allargano, tramite il racconto degli altri, fino a investire temi fondamentali: il rapporto tra scienza e religione, come in Ararat, quello tra l’identità europea e il colonialismo, come in El Negro e io, la tendenza umana ad addomesticare la natura, come in Pura razza bianca, la persistenza del mito, come in L’enigma del lago rosso. L’ultimo suo libro, pubblicato in italiano – come gli altri citati – da Iperborea, affronta una domanda ancora irrisolta: “esiste un’alternativa al rispondere alla violenza con la violenza?”. Per saperlo, abbiamo intervistato Westerman.
Nel suo ultimo libro, tradotto in italiano come I soldati delle parole, lei affronta questioni cruciali e urgenti: “le parole possono contrastare i proiettili?”, “se la lingua e il terrore si sfidano a duello, chi soccombe?”. E nonostante sia uno scrittore non fa alcuna concessione all’idea che il linguaggio e la letteratura abbiano di per sé un potere catartico, taumaturgico, liberatorio. Il linguaggio può essere bellicoso, le parole possono aizzare un incendio, ricorda. Sembra una posizione vicina a quella di Bole Butake, uno dei personaggi di L’enigma del lago rosso, per il quale “una storia può liberare o soggiogare”. Ma come distinguere un certo tipo di storia dall’altro, un certo uso del linguaggio dall’altro?
Nel libro prendo molto presto le distanze dalla dicotomia più semplice: le parole sono buone, la violenza è cattiva. La questione infatti è molto più complicata di così. “Le parole sono fatte di ossigeno”, scrivo, “soffici e leggere come il vento, ma sono ugualmente capaci di innescare un incendio”. Più avanti nel testo, racconto il mio incontro all’Avana con una terrorista latitante della Raf. Un incontro che mi permette di capire il modo in cui lei e i suoi compagni usino il linguaggio per giustificare la violenza contro gli innocenti. Viene citato anche quanto Ulrike Meinhof scrive in Das Konzept Stadtguerilla: l’autrice adopera le parole per costruire una cornice di pensiero che sia “stretta quanto una feritoia”. Nonostante questo, ritengo che le storie, le parole di cui sono composte, possano essere una forza di pace, e anche solida. La precondizione, è che una storia ponga domande, offra alternative, consenta il dubbio e l’ironia. Nella tradizione narrativa, si possono introdurre dei personaggi, anche degli eroi, invitando il lettore a immaginare come appaia il mondo attraverso i loro occhi. In questo modo, esercitiamo costantemente il nostro senso dell’empatia. E senza empatia, è impossibile vivere insieme in una società aperta e diversa.
“Amo le storie, quelle vere, plausibili e quelle fantastiche. Come scrittore, pianto regolarmente una nuova storia nella foresta di quelle già esistenti…”, scrive in I soldati delle parole. Mentre in un’intervista recente ha sostenuto che le “storie trovano sempre dove fare il nido”. Ma come trova i nidi giusti? E poi, intende le storie come nidi da raccogliere, o piuttosto come piante da innestare o trapiantare da un posto all’altro?
È una domanda intrigante. Credo che come esseri umani attacchiamo parole alle cose, agli avvenimenti, alle esperienze. Le connettiamo tra di loro, e ne tiriamo fuori, tessendole, delle frasi. Queste frasi crescono fino a diventare storie, provviste di un significato, di un sentimento, di un loro tocco. Queste storie poi evolvono, come le specie fanno in natura. In ambito culturale, le storie seguono la propria evoluzione. Si moltiplicano, perché le raccontiamo e ri-raccontiamo. E allo stesso tempo mutano. Quando ri-raccontiamo una storia, avvengono delle piccole distorsioni (o forse mutazioni?). Quel che provo a dimostrare con L’enigma del lago rosso è che le storie più forti hanno un vantaggio nella lotta per la vita rispetto alle storie deboli: le storie sfumate, noiose, accademiche perdono facilmente di fronte alle teorie cospiratorie, o alle storie sensazionali, a prescindere dal loro statuto di verità. Mi spiace ammetterlo, ma in generale preferiamo le storie favolose (e le bugie) rispetto ai resoconti fattuali.
A proposito di fatti: nei suoi lavori c’è una domanda ricorrente: “Cosa sono i fatti?”. Uno dei personaggi di L’enigma del lago rosso, il ricercatore Joseph “Joe” Devine, suggerisce di “stare attenti a non ordinare i fatti in modo che raccontino la nostra storia. Dobbiamo lasciare ai fatti il tempo di raccontarci la loro”. Come narratore, lei che metodo usa per rispettare i fatti?
I fatti sono materie morte. Appartengono alle sostanze inorganiche. Siamo noi a renderli vivi, incollandogli delle parole. Credo che siamo dei sussurratori di fatti. “I fatti non parlano mai per se stessi, da soli”, ho scritto da qualche parte. “Sono muti, perfino se li arrostisci su un fuoco, non cominceranno a parlare”. In quanto reporter o narratore, per me i fatti sono materiale grezzo. Li estraggo, li scavo. Rappresentano la benzina per il dialogo, per la disputa, per il dibattito. Senza di loro, il dialogo diventa uno scambio vuoto e falso di opinioni liberamente fluttuanti. E ciò avviene sempre più spesso, basti pensare alla “politica fact-free”.
Dal punto di vista pratico, una delle caratteristiche del suo lavoro è il fatto di tornare più di una volta negli stessi luoghi. Succede in L’enigma del lago rosso, in Pura razza bianca, in El Negro e io, e via dicendo. Perché? Dipende forse dall’idea che un fatto possa essere propriamente compreso soltanto quando è stato narrato, detto e ridetto?
Gli eventi non sono statici. Sono figli del loro tempo. E i figli crescono. Mi piace incontrarli di nuovo, andarli nuovamente a visitare dopo molti anni, per vedere come sono diventati, capire cosa ne sia di loro. Questo ti dà la sensazione di essere parte di qualcosa di più grande rispetto al qui e ora, di essere parte di una tradizione, perfino della storia. Si potrebbe perfino essere tentati di tirarne le fila. Io credo di dovermi trattenere dal farlo, ma il lettore può farlo. E trovo che questo sia importante.
In L’enigma del lago rosso il drammaturgo Bole Butake sostiene che ogni scrittore africano è in debito con Chinua Achebe. Quali sono invece i suoi debiti letterari?
Sono stato inizialmente influenzato dalla scuola del New Journalism, una corrente principalmente americana, anglosassone, una cosa occidentale direi. Mi piace, la apprezzo molto. Penso per esempio, tra gli altri, a The Right Stuff di Tom Wolfe, un libro sui primi astronauti statunitensi. Ma poi ho scoperto un’altra scuola, che viene da est in questo caso, e che credo abbia avuto origine intorno a Ryszard Kapuscinski e ad Hanna Krall, entrambi polacchi. Ed entrambi con una modalità narrativa molto più artistica rispetto alla scuola americana.
Nel 2015 lei ha pubblicato una raccolta di reportage con il titolo The Portable Kapuscinski. Il reporter polacco, che lei cita più volte nei suoi testi, è considerato un maestro del giornalismo letterario del ventesimo secolo. Ci spiega meglio quale pensa che sia la sua eredità principale?
Ho comparato Kapuscinski a Vincent van Gogh. Kapuscinski ha introdotto l’impressionismo nell’arte del reportage. Come il cielo notturno stellato su Arles di Van Gogh o i suoi campi di mais: li guardi attraverso l’occhio del pittore. Kapuscinski dipinge le parole, non nel modo sovra-accurato con cui il New Journalism vorrebbe che scrivessimo. In lui, il ruolo del dettaglio è completamente differente. Per esempio, in Africa Kapuscinski prenderebbe in mano un granello di sabbia e sarebbe capace di mostrare l’intero deserto, per così dire. Quando viene fermato a un posto di blocco, non descrive soltanto la concreta barriera che è di fronte a lui, ma esce dal flusso del cammino e del racconto per restituirti una fenomenologia completa dei “posti di blocco” in quanto tali. Di cosa sono fatti in genere, chi li gestisce, quale ne è lo scopo, come affrontare un posto di blocco in guerra, cosa fare e cosa evitare di fare: una guida completa!
Restiamo su Kapuscinski, per il quale “il reportage è un genere collettivo”, perché la fonte principale sono gli altri, mentre lo scrittore non è che l’estensore finale. E lei, come si rapporta con gli altri? Faccio un esempio: quando in L’enigma del lago rosso Paul Kwi conduce le sue prime ricerche sul campo per il dottorato, i membri della sua stessa tribù non lo capiscono. Viene guardato con sospetto. A lei, cosa capita? Come vince la riluttanza iniziale? E come definisce la sua posizione, tanto nella fase in cui raccoglie informazioni e interviste, quanto in quella in cui scrive? In poche parole: come trova la giusta distanza?
Provo a non distorcere, a non tradire le storie e i resoconti altrui che raccolgo. E provo anche a evitare la scenografia, l’ambientazione da intervista. Preferisco l’incontro. Faccio un esempio. La scorsa primavera, in un villaggio in una foresta indonesiana, ho mostrato al mio ospite un breve filmato di me e di un amico mentre pattinavamo sui fiumi ghiacciati, in Olanda. Era soltanto una breve clip di noi due che pattinavamo. Ma è stato un buon punto di partenza per una serata in cui ci siamo divertiti molto, un punto di partenza che ha fatto raccogliere intorno a me molte persone, con cui ho potuto discutere a lungo. L’ho imparato proprio da Kapuscinski: in Angola, quando viene fermato a un posto di blocco dice alle guardie che “in Polonia tutti indossano le scarpe”. Attenzione: non dice loro che sono scalzi. Dice che in Polonia si usa diversamente. E così facendo crea l’inizio di un incontro, non quello di un’intervista. La storia che racconto è il mio personale resoconto, è soggettiva, apertamente soggettiva. Esplicitamente soggettiva. Prendo il lettore per mano e decido cosa mostrargli, dove guardare, condivido con lui il mio stupore e i miei dubbi. Per me, c’è sempre qualcosa di importante in gioco. Per esempio in Ararat la domanda principale è: “Se non credo più nel Dio della Bibbia, allora in chi o in cosa credo?”. In questo modo, i miei viaggi sono saggi, saggi-attraverso il reportage.
Nei suoi libri in effetti lei affronta sempre questioni importanti, essenziali, spesso transculturali (il rapporto tra scienza e religione, tra violenza e linguaggio, etc), eppure parte sempre da domande intime, personali. È più una strategia narrativa o un bisogno personale? E come trova il giusto legame tra personale e generale?
Le grandi domande sono domande semplici. Per citarne una: le parole possono controbattere il terrore? Così, per prima cosa mi rifaccio alle mie esperienze personali, nel caso de I soldati delle parole mi rifaccio alla mia infanzia. Avevo 11 anni quando il mio insegnante di tecnica non si è presentato in classe: quel giorno si trovava su un treno sequestrato pochi chilometri fuori dalla mia cittadina, con il conducente ucciso e gettato fuori dal treno e i pendolari tenuti come ostaggi. Lui era su quel treno. Non come passeggero. Era uno dei sequestratori.
Da Ararat a Pura razza bianca, da L’enigma del lago rosso a El Negro e io, nei suoi libri ci sono due coordinate principali: la geografia e la storia, sempre legate, combinate insieme. A volte si sovrappongono, ma più spesso sembra che lei tenda a “spiegare” la geografia attraverso la storia, come se facesse sua l’idea – alla base dell’antropologia – che la natura sia di per sé cultura. Quant’è importante il metodo antropologico nel suo lavoro?
Innestare le mie storie su binari esistenti è una necessità, per me. Un luogo geografico come il monte Ararat, o il lago di L’enigma del lago rosso, mi forniscono un simile punto fisso, un ancoraggio. Se non ce l’ho, ho bisogno di un veicolo – come l’uomo nero imbalsamato di El Negro e io – che io possa seguire attraverso il tempo, in questo caso per 170 anni. In Pura razza bianca è il destino del cavallo lipizzano, a partire dalla prima guerra mondiale, durante la quale l’intera mandria di poche migliaia di cavalli bianchi appartenenti alla corona d’Asburgo divennero “orfani”, finendo in una diaspora, inseguiti (da Mussolini, Hitler e più tardi Tito e Ceausescu) come gioielli della corona, gioielli viventi. Ho usato sia El Negro che il cavallo lipizzano come metafore: provo a far sollevare loro uno specchio nel quale vedere e riconoscere le nostre follie. Ecco il modo in cui pratico antropologia.
A volte gli antropologi sono stati anche buoni scrittori di viaggio, penso a Claude Levi-Strauss o a Margaret Mead, e i loro lavori hanno contribuito alla canonizzazione della letteratura di viaggio. Recentemente ho intervistato lo scrittore scozzese William Dalrymple, che respinge la posizione di colleghi come Lawrence Osborne, per il quale la letteratura di viaggio come genere è morta. Per Dalrymple, la letteratura di viaggio è invece più necessaria che mai, oggi, ma dovrebbe puntare a descrivere le persone, più che i luoghi. Lei cosa ne dice?
I luoghi sono importanti. Il terreno sotto i tuoi piedi. Argilla o sabbia, in Olanda abbiamo almeno due diverse “culture”. Montagne o deserto. Vulcani o faglie. Il paesaggio ci modella. Noi siamo insieme natura ed educazione, e l’ambiente, anche quello naturale, gioca un ruolo importante. Ma allora cosa fa il viaggiare? Il viaggio è dinamico. Ti muovi, ti muovi con una certa velocità e direzione, per cui c’è un vettore. A me piace andare oltre i binari che conosco, può trattarsi anche di pochi chilometri fuori Amsterdam, non devono essere necessariamente le isole Curili, ma quando lascio i posti familiari devo ricalibrare i miei sensi, mi sento come se fossi di nuovo un bambino, più aperto a nuove impressioni, chiedendomi quale sia il colore dei taxi a Città del Messico e molte altre cose. È molto importante che non conosca in anticipo l’esito, il destino del viaggio. In Ararat mi sono arrampicato sul monte Ararat (sono 5136 metri) ma il libro non termina con la vetta (si conclude infatti a un’altitudine di 5.100 metri). Il viaggio è parte della storia. Più in generale, mi trovo d’accordo con Gabriel García Márquez: “un buon reportage è filosofico”.
La storia e l’immaginario coloniale europeo sono centrali, in molti suoi libri. Quanto conta il fatto che lei è cittadino di un Paese, l’Olanda, con una pesante eredità coloniale?
In Olanda abbiamo discusso e discutiamo molto della schiavitù. Sono convinto che io debba partecipare a questa discussione in quanto uomo bianco, discendente dei commercianti e dei proprietari di schiavi. Che cosa ci dice quell’uomo nero imbalsamato e messo su un piedistallo in un museo catalano vicino Barcellona, tra animali selvaggi imbalsamati? Cosa ci dice che “El Negro” fosse lì dal 2000? Ci dice poco, se non niente, sull’Africa. Ma ci dice molto sulla storia coloniale europea. La questione si può prendere anche più personalmente: quando ho visto el Negro, mi sono vergognato, mi sono sentito a disagio. Ciò che ho realmente visto nella sua pelle scura (resa ancora più scura dai curatori del museo con il lucido da scarpe) era il mio essere bianco.
Lo scorso autunno lei ha cominciato a insegnare reportage letterario all’università di Leiden. Nel corso di una lezione, “de anatomical lesson”, ha dissezionato il libro El Negro e io con un coltello da chirurgo. Ci racconta qualcosa di più della lezione, e del metodo che ne è alla base?
Il trucco sta nel fatto di aver tenuto la lezione in un teatro anatomico, come quello che avete a Padova. Volevo dissezionare El Negro e io perché il corpo di El Negro è stato davvero tagliato e dissezionato, nel 1830, da due imbalsamatori francesi. Ecco il parallelo. Per prima cosa ho tagliato la copertina, l’epidermide. Poi ho messo a nudo la schiena, la spina dorsale. E ho proseguito, scendendo e tagliando le singole frasi legate le une alle altre, come i capillari. A essere sincero mi piacerebbe farlo di nuovo, ma a Padova!