T utti sappiamo cos’è un gigante, ne abbiamo un’idea vaga sin dall’infanzia. Ecco, William Tanner Vollmann è un gigante. La sua è una letteratura alta in un senso letterale, dimensionale, corposo: i libri che scrive sono torrenziali, carichi come un fiume in piena. Con lunghe falcate, Vollmann ha attraversato storie e leggende, epoche lontane o vicine, perdendosi nei quartieri malfamati di San Francisco, percorrendo le strade devastate dalle guerre balcaniche, avviando una caccia spettrale ai fantasmi del Giappone antico, o indagando sulla questione del cambiamento climatico nei volumi di Carbon Ideologies, la sua ultima fatica.
Di tutto questo, Vollmann ha scritto, con un alto tasso d’empatia. Pubblicare la sua opera non è una faccenda semplice. Per dire, nel 2003 è uscito Rising Up and Rising Down: Some Thoughts on Violence, Freedom and Urgent Means, un lavoro che analizza lo sconfinato tema della violenza nella storia dell’umanità arrivando a un totale di oltre tremila pagine; l’edizione italiana Come un’onda che sale e che scende, curata da Mondadori, ne ha offerto un compendio equivalente a circa un terzo dell’originale. Oppure il ciclo dei Seven Dreams, i Sette Sogni: una saga in sette volumi che ripercorre la storia mitica del Nordamerica, tra Canada e Stati Uniti, muovendosi nel territorio degli scontri tra nativi e nuovi arrivati, che fossero esploratori o conquistatori.
Proprio dai Seven Dreams minimum fax ha deciso di inaugurare una – chiamiamola così – nuova fase vollmaniana in Italia, pubblicando titoli fuori catalogo o ancora inediti; lo scorso novembre è uscito I fucili, nella traduzione di Cristiana Mennella. A fine marzo uscirà La camicia di ghiaccio (il primo libro del ciclo dei Seven Dreams, già pubblicato a suo tempo da Alet) mentre più avanti seguiranno, tra gli altri, Afghanistan Picture Show, Storie di farfalle e I racconti dell’arcobaleno, un libro che non dovrebbe mancare nelle letture degli amanti di nonfiction e dintorni.
Se pubblicare Vollmann non è facile, anche intervistarlo non è una passeggiata. Si dà il caso che l’autore di Europe Central – il libro che gli è valso il National Book Award nel 2005; un’opera sorprendente che si fa strada nella Germania e nell’Unione Sovietica tra gli anni Trenta e la Seconda guerra mondiale, con una miriade di personaggi reali a prendere vita – è sprovvisto di e-mail, e dunque le domande sono arrivate a lui dopo un tortuoso cammino tra editore italiano, subagente, agente, masterizzazione su cd, stampa, percorso inverso.
Adesso eccoci qui.
Buongiorno, o buonasera, Mr Vollmann (è strano, perché non so in quale momento della giornata leggerai queste domande). Però permettimi di chiederti
da dove stai rispondendo – visto che i tuoi lettori tendono a immaginarti in perenne cammino, o quasi.
Ad esempio: per il libro
I fucili hai passato qualche tempo nel bel mezzo dei ghiacci, nei dintorni del Polo Nord. A distanza di anni, cosa ricordi di quell’esperienza?
Un passaggio da I fucili (minimum fax, traduzione di Cristiana Mennella):
Andava tutto bene, ma non riuscivi a collocarti da nessuna parte. Tutto era sotto di te e nella direzione sbagliata. Il vento gelido ti intirizziva, e la nebbia cominciava a spandersi sulla piana e capivi che se fossi rimasto ancora a lungo ti saresti smarrito una volta per sempre e magari saresti morto, così tornavi al tuo fiume finché riuscivi ancora a rintracciarlo e scendevi beffato e sperduto…
Eri eccitato per quel viaggio, o spaventato? Prima del Polo Nord, per te c’era stata, da ragazzo, l’esperienza in Afghanistan, raccontata in
Afghanistan Picture Show. Pensi che quel periodo tra i mujaheddin ti abbia, per così dire, temprato rispetto alle avventure che avresti vissuto dopo?
Può darsi che le intenzioni artistiche originarie siano d’interesse per il pubblico; ma non rappresentano l’ultima parola. Chi potrebbe dirci cosa volesse realmente comunicare Pier Paolo Pasolini con Salò? Ossessionante, disgustoso, inquietante, quel film può essere – o può non essere – una critica del capitalismo mercantile o un ribaltamento dell’opera originale del Marchese de Sade. Quello che decidiamo di farne noi spettatori del Ventunesimo secolo dev’essere al massimo tangente – nel migliore dei casi – rispetto alla volontà di partenza di Pasolini. Qualcosa che accade a maggior ragione con una lettura dell’Epopea di Gilgamesh. L’autore è un genitore; il lavoro artistico, suo figlio, deve trovare la propria vita senza di lui.Nella prima domanda ho introdotto una presenza, quella dei tuoi lettori. Come li immagini? Hai un rapporto con loro? Pensi che debba esistere un rapporto scrittore-lettori, che vada al di là dell’incontro per mezzo dei libri?
Un tratto, tra i tanti che pervadono i tuoi libri, e le ricerche su cui si basano, è l’elevato tasso di empatia che stabilisci con l’oggetto di cui ti occupi. I
Racconti dell’arcobaleno, ambientati nel Tenderloin, a San Francisco, sono stati uno spartiacque e allo stesso tempo un po’ il manifesto del tuo lavoro?
A proposito: ho letto che hai pensato di lavorare alla serie dei
Seven Dreams mentre lavoravi proprio ai Racconti dell’arcobaleno, volendo scavare sotto la crosta – direi quasi come un archeologo – per scoprire quello che c’era sul continente prima di arrivare alla storia a noi contemporanea. Hai trovato quello che ti aspettavi – se avevi un’idea di cosa avresti trovato – o scoperto intrecci inattesi?
Un passaggio dai Racconti dell’Arcobaleno, Fanucci (prossima uscita per minimum fax), traduzione di Cristiana Mennella:
Di notte Turk Street si tingeva di giallo e rosso acceso, come l’interno di un cadavere. Le luci rosse sfavillavano dagli spacci dei liquori e dai pornoshop. Le insegne al neon riproducevano bicchieri da cocktail e gambe di donne. Entravano in funzione i gialli rettangoli di luce dei peepshow. Camminando sul marciapiede, poteva capitarti d’incrociare una donna mortalmente pallida che piangeva e fracassava i parchimetri con un tubo, mentre gli uomini oziavano e stavano a guardare sotto le ammiccanti luci rosse.
Nel dettaglio,
I fucili è il sesto libro del ciclo dei Seven Dreams, il terzo in ordine di uscita. Hai pensato da subito a una serie composta da sette libri? Al momento mancano due episodi, se non sbaglio.
Quando penso alla tua scrittura mi viene in mente, senza pensarci troppo, l’immagine di un tuffo; i tuoi libri sono un’immersione nelle storie e nella storia, con il corpo e con l’anima. Lo hai fatto sia fisicamente – nei libri scritti “sul campo”, basati sull’osservazione diretta – sia a livello intellettuale in romanzi come
Europe Central, dove ti sei calato nel Novecento surriscaldato dai totalitarismi e dalla seconda guerra mondiale. Cosa lega tra loro queste “immersioni”?
A proposito delle immersioni nella storia; prendiamo uno dei protagonisti di
Europe Central, il compositore sovietico Dmitrij Šostakovič (ma potrebbe valere anche per il generale Paulus o per la pittrice Käthe Kollwitz); che grado di distanza volevi stabilire tra lo Šostakovič reale e quello della tua finzione romanzesca?
Un passaggio da Europe Central, Mondadori, traduzione di Gianni Pannofino:
Perché non ammettere che armonia e senso discendessero su di lui per semplice grazia? La penna guizzava sui suoi pentagrammi, vivificando ogni cosa. Dietro le tende oscuranti, la candela continuava ogni notte ad ardere nello studio di Šostakovič. Accordi e motivi ballonzolavano tra le sue orecchie come sagome di carri armati che saggiassero i denti tenebrosi del cemento armato anticarro.
Assegnare una definizione di genere ai tuoi libri è complicato; hanno tratti romanzeschi ma anche d’inchiesta, sconfinano nel reportage e nell’indagine storica. Da autore, ti preoccupano – ed eventualmente, quanto – le definizioni di genere da assegnare a una determinata opera?
Quando hai iniziato a scrivere, e perché? I tuoi obiettivi sono cambiati?
Un tuo collega, David Foster Wallace, sosteneva di avere una sorta di terrore per le traduzioni; il fatto di non conoscere la lingua italiana o tedesca o russa, raccontava, gli scatenava l’ansia di non poter avere un controllo pieno sulle sue parole. Tu che rapporto hai con le traduzioni?
Da quello che sappiamo la tua relazione con la tecnologia non è delle più idilliache. Però penso che il tema dell’informazione non ti lasci indifferente. Hai seguito, o ti interessa, il dibattito sulle cosiddette fake-news? Pensi siamo in una fase dove le possibilità di manipolazione e la propaganda abbiano raggiunto vette senza precedenti nella storia?
Hai scritto – chissà se hai un conto definitivo, da qualche parte – migliaia e migliaia di pagine. A volte ti tornano in mente i luoghi e le persone che hai raccontato? Esiste un posto – o una persona, un’immagine – che torna più spesso delle altre alla tua mente?
Un passaggio da Ultime storie e altre storie, Mondadori, traduzione di Gianni Pannofino:
Queste sue speranze polverizzate, posto che fossero tali, apparivano meno grigio-azzurre delle mie, più simili a carbone; d’altronde, non è ogni delusione diversa dalle altre? Ammetto di non aver previsto di poter scoprire il mio defunto passato dentro di lei, tanto meno il suo dentro di me: non ero forse arrivato vivo da lei? E non avevo gelosamente custodito la mia ignoranza di chi fosse lei prima d’incontrarla? Ebbene, dev’essere questo l’amore.