I ncontro Geoff Dyer esattamente dove mi sarei aspettata di farlo: nella hall di un albergo. Di tutte le passioni che condividiamo – Fitzgerald, un certo Barthes, le opere di Land Art, malgrado o, forse, proprio per il loro carattere indecifrabile – quella per gli hotel mi è sempre sembrata la più significativa. E, non a caso, Il sesso nelle camere d’albergo è stato il primo libro che ho letto di Geoff Dyer, una straordinaria raccolta dei suoi migliori saggi, che passa da parlare di ciambelle a Avedon e Alec Soth, da Kapuściński al jazz, da Camus all’alta moda. Nell’introduzione scriveva Dyer:
conseguita una certa reputazione, a volte gli scrittori si lasciano convincere a pubblicare i loro ‘pezzi d’occasione’ (cioè giornalistici). L’autore accetta, di malavoglia, con modestia: Martin Amis ha proposto la sua prima raccolta, The Moronic Inferno, «con tutta l’umiltà del caso» […]. Il mio caso, e il mio parere su queste raccolte, è un po’ diverso. Avevo appena cominciato a scrivere per riviste e quotidiani e già speravo di vedere un giorno i miei articoli pubblicati in forma di libro.
Martin Amis li avrebbe chiamati pezzi scritti con la mano sinistra, cose, cioè, scritte a pagamento, strutturalmente diverse, a quanto pare, dal lavoro che uno scrittore fa per sé: la produzione più ispirata di Dyer, invece, sta proprio in questi pezzi slegati, policromi e vari, che portano tutti un certo marchio, un certo tono, qualsiasi cosa sia quello che questo scrittore sa fare benissimo da decenni. Scrive di aver capito che la sua forma naturale era il saggio “durante quello che tuttora considero il mio periodo di sviluppo intellettuale più intenso (anche detto “campare di sussidi a Brixton”)” e che “al pari di Aldous Huxley” si considera “una specie di saggista ingegnoso quanto basta da cavarsela a scrivere un tipo di narrativa assai limitato”: a leggere bene Il colore della memoria, il romanzo scritto trent’anni fa e ripubblicato ora in una versione rivista e corretta da Il Saggiatore, si capisce cosa intenda dire. Le vicende di un gruppo di ragazzi che vivono a Brixton, campando di sussidi, tra licenziamenti e amicizie e amori, sono scritte attingendo a piene mani dalla biografia del suo autore: a partire da Licenziato, il resoconto ragionato dei lavori post universitari (si trova sempre ne Il sesso…), alla Londra degli anni ‘80, alle aspirazioni letterarie e gli assegni statali, si potrebbe giocare a ricostruire le fonti del romanzo attraverso i saggi dispersi qua e là. E con cronologie e sfondi un po’ diversi, anche Brixton Bop e Paris Trance, altri due dei suoi lavori di fiction, raccontano più o meno la stessa storia.
Tanti finiscono l’università con un’idea vaga di come potrebbero guadagnarsi da vivere, mentre io sapevo benissimo che cosa volevo: campare di sussidi. A Oxford i laureandi in Lettere si presentavano raramente a lezione. L’unica cosa che dovevamo fare era vedere il tutor una volta a settimana […] questo ti abituava in anticipo alla scocciatura di firmare il registro dei disoccupati […] Col sussidio ci pagavi l’affitto, e la previdenza sociale ti dava i soldi per tirare avanti. La disoccupazione di massa non è certo un obiettivo sociale o economico auspicabile, ma significa che ci sono tantissime persone con le quali passare i pomeriggi.
È proprio così impunemente divertente Sul tetto, un saggio del 2002 in cui Dyer racconta come se l’era cavata in quegli anni, lui – figlio della classe operaia, di due genitori che ricorda come dediti al lavoro, o meglio, obbligati alla dedizione per garantire la propria sopravvivenza e quella dei figli – che era entrato a Oxford portandosi dietro le pressioni da scalata sociale per scrollarsele subito di dosso.
Non importa quanto sia vero quello che dice – pretendere veridicità da un autore che scrive indifferentemente romanzi e saggi sulle stesse vicende mi pare un desiderio ingiustificato, cioè se questa mancanza di senso del dovere (e di colpa) nei confronti di uno Stato, che gli aveva garantito munificamente aiuti finanziari per anni, sia artificialmente prodotta o naturale, ma da persona che ha sempre studiato grazie alla generosità delle università, per me leggere queste parole è un’esperienza straordinariamente liberatoria. Di tutte le cose che ha fatto, Dyer mi ha permesso di vivere pensando che quello che stavo facendo – leggere, scrivere, studiare – mi era genuinamente concesso, che quel tempo libero che l’università mi stava offrendo potevo impiegarlo come meglio volevo. E non c’entravano neanche le ambizioni.
In quel saggio (Sul tetto), infatti, Dyer inserisce una fotografia: ci sono dei ragazzi in cima a un grattacielo e il cielo azzurro – presumo, è riprodotta in bianco e nero – di Brixton sullo sfondo. La didascalia dice “Oggi l’Inghilterra si è fatta sbattere fuori dai Mondiali dell’Argentina – Estate ‘86” e mostra tre uomini e una donna nient’affatto inconsolabili, sogni calcistici infranti o meno: i libri di Dyer sono così, dovrebbero essere resoconti amari di fallimenti e parabole interrotte, ma finiscono per trattare il fallimento e il successo come categorie relative, perché sono concentrati a parlare del presente, invece di proiettarsi in quel futuro (delle ambizioni e dei sogni aspirazionali) che forse neanche esiste davvero. E il puro presente non è altro che un’istantanea, una fotografia, come questa o come quella (quasi identica, peccato che esista solo nella finzione del romanzo) che torna a guardare trent’anni dopo, alla fine de Il colore della memoria:
Siamo tutti sul tetto, ammassati per entrare nell’inquadratura. In terra si distinguono le sottili ombre delle antenne televisive. Sorpresi dall’autoscatto, alcuni di noi sono colti in posizioni bizzarre mentre si spintonano per avere un posto migliore nella foto. L’aria è così limpida che siamo tutti perfettamente a fuoco e riconoscibili. Quasi tutti ridiamo o sorridiamo strizzando gli occhi per la luce accecante. Freddie beve birra da una lattina rossa. I colori sono incredibili. […] Al di sopra di ogni cosa l’azzurro vuoto del cielo, il colore della memoria.
La scritta sul retro recita “quella cosa vagamente spaventosa che c’è in ogni fotografia: il ritorno del morto”, citando Barthes: con poca sorpresa, perché Dyer è un autore straordinariamente colto, solo che non è il tipo che te lo fa pesare. La sua invidiabile coolness sta qui, del resto. Infatti, Dyer pare interessato, più che all’impressione di chi lo legge, a godersi un altro po’ quello che la sua vita da imbucato (per citare un altro dei saggi) gli permette di fare – che significa andare in Cina o a vedere l’aurora boreale, le opere di Walter de Mattia e Robert Smithson negli Stati Uniti, come fa in Sabbie bianche. La sua è una carriera prodotta per accumulo: di esperienze, di lavori, di progetti che cambiano direzione e articoli commissionati; la quantità di materiale firmato da Geoff Dyer è impressionante, per varietà e per qualità e proprio qui, in questa infinitezza, di sguardo, di forma, in questa giungla di strutture effimere che sono i suoi libri, sta tutto quello che si può amare di questo autore.
Dai saggi sul jazz, alla fotografia, ai romanzi e le biografie: hai scritto non solo più di quanto ci si possa aspettare, ma, soprattutto, ti sei occupato di una enorme quantità di argomenti diversi. Col tempo, di solito, gli accademici e gli studiosi, chiunque insomma si proponga di scrivere con “rigore e serietà”, finisce per specializzarsi sempre di più, quasi che che sia la specializzazione stessa a garantirne il rigore. Da questo punto di vista il tuo lavoro è l’opposto, del tutto anti-accademico: cambi continuamente oggetto di osservazione: è più un odio per la specializzazione o il desiderio di occuparti di tutto ciò che ti interessa? A tratti, mi pare che l’oggetto su cui indaghi stia nell’interazione che stabilisci con la materia di cui ti occupi.
La cosa che hanno in comune tutti i tuoi libri è che sono scritti da te. Dico questo per dire che mescoli critica d’arte, critica musicale e reportage con quella che forse chiamerei la tua vita personale, tranne che nella scrittura di personale, di vero e autentico c’è ben poco, dato che tutto finisce per essere riscritto; in Sabbie bianche metti pure un’avvertenza al lettore, perché non creda a tutto quello che legge (“In che cosa consiste la differenza? Be’, la fiction ti consente di inventare o alterare i fatti. Mia moglie, per esempio, si chiama Rebecca, mentre in queste pagine la moglie del narratore si chiama Jessica. Tutto qua, in effetti.”) Alla fine mi pare che quello che differenzia la tua produzione fiction da quella di non fiction sia semplicemente la forma.
Il colore della memoria,
se non sbaglio, era nato come una serie di reportage su Brixton, per poi diventare il libro che hai recentemente riedito.
Nei saggi sei libero di fare a meno della trama e dei personaggi – tranne poi usare la prima persona singolare come personaggio – e andare diretto a quello che mi pare sia la questione centrale dei tuoi libri: all’interazione tra la persona e l’oggetto – d’arte, musicale – o il luogo. È in questa frizione, o questo sfregamento, per usare Barthes, che si concentra la tua qualità di scrittore. Quando leggevo Sabbie bianche quest’anno mi sono resa conto che molti degli episodi avevano una sorta di carattere metalinguistico, nel senso che mi sembravano non saggi, ma appunti per saggi, tentativi di descrivere un’esperienza.
Quando penso al modo in cui Berger e Barthes emergono nella tua produzione, penso che questo sia dovuto al fatto che, piuttosto che diventare specialisti di un argomento, sono diventati esperti di come guardiamo le cose. Ti sei occupato spesso di fotografia e vorrei farti una domanda proprio sull’atto di vedere in sé. In The Art of Cruelty, Maggie Nelson dice che forse oggi più che mai, dopo 200 anni di storia della fotografia, siamo finalmente arrivati al punto di riconoscere che l’immagine è una piattaforma piuttosto limitata e poco potente a cui affidarsi quando si tratta di produrre cambiamenti reali nella società. Forse le fotografie valgono per me, cioè singolarmente, ma mai generalmente?
In molti dei tuoi libri è presente il tema dello spreco: di soldi, di energie, di talento, di tempo – c’è ne Il colore della memoria, così come in Paris Trance. Quello che fate tu e i tuoi personaggi nei libri è perdere tempo, ciondolare: la differenza tra farlo con successo e non avere alcun successo è nulla, se il risultato è lo stesso. Una volta hai detto che volevi scrivere per non dover lavorare: se da una parte mi pare una questione quasi politica questa (ammetto che personalmente ho qualche problema con l’etica dell’emancipazione attraverso il lavoro, perché mi sembra avere ampie zone di ambiguità), dall’altra è uno strumento narrativo, perché questa apparente mancanza di sforzo rende la tua scrittura e la tua preparazione ancora più impressionanti.
Ho trovato il modo di farlo – e questo perché quel tempo permetteva di guadagnare un po’ di soldi semplicemente vivendo la propria vita. Il protagonista del libro Amore a Venezia. Morte a Varanasi è un uomo senza obiettivi, deluso dalla vita esattamente perché non si è mai impegnato in niente, non ha mai provato a scrivere qualcosa sul serio. Scrivere ti mette alla prova, ti mette di fronte ai tuoi limiti come poche altre attività sono capaci di fare: per quanto terribile possa essere il libro che hai scritto, il pezzo su cui hai lavorato, ogni volta hai fatto del tuo meglio; questo provoca un sentimento di gratitudine nei confronti del lavoro che non potresti avere se non ti fossi impegnato a portarlo a conclusione. Perdere tempo, non avere obiettivi, frequentare gente: sono tutte attività che non possono che portare alla disperazione e alla depressione sul lungo tempo, quindi lavorare è essenziale per mantenere la salute mentale! Solo che non riesco ad accettare l’idea di un fare un lavoro di cui non capisco il fine ultimo. E poi sì, insomma, adoro le feste: se non mi avessero invitato alle feste non avrei mai pubblicato un libro.
Ancora su successi e fallimenti: Paris Trance parte dal desiderio di scrivere il tuo Tenera è la notte e si trasforma subito in qualcos’altro. Riprendi quell’esperienza nel saggio su Fitzgerald contenuto ne Il sesso nelle camere d’albergo, dove ti interroghi sull’autoindulgenza del periodo parigino. Certo, non avevi rispettato i tuoi propositi, non avevi centrato il tuo obiettivo: questo fallimento però ha creato la forma del libro, così come accade per i frammenti, i bootleg, le opere inconcluse, diventano immagini di altro.
Il colore della memoria è stato ripubblicato dopo 30 anni – ne hai rieditato alcune parti. Come è tornare su qualcosa che hai pensato e pubblicato così tanto tempo fa?
Nel capitolo 20 dici che dalle fotografie emergono sempre dettagli sconosciuti ed estranei – cosa hai trovato rileggendolo che non ricordavi?
Come abbiamo detto prima, volevi scrivere una specie di diario di Brixton, ma oggi quel tipo di vita che descrivi non è più possibile a Londra. Dove lo ambienteresti oggi?
L’ultima cosa che gli chiedo prima di salutarci è se a più di vent’anni di distanza riscriverebbe ancora Separazioni, un saggio che nel 1993 aveva dedicato a Belgrado. Anche quel saggio era ambientato in un albergo, ma invece di descrivere il piacere, vagamente proibito e dunque più dolce, di cui si può godere nelle stanze prese in affitto, raccontava di una relazione con una ragazza serba, una storia che sarebbe finita una volta che lui avesse preso l’aereo del ritorno. È un saggio straziante, che parla di genocidi e di massacri fotografati, di neve e di paesi stranieri.
“Sono le nostre ultime ore insieme e ci sforziamo di non riaddormentarci. Vagando al margine del sonno ripenso alla poesia di Auden: “Dobbiamo amarci l’un l’altro o morire”. Auden alla fine aveva tagliato questo verso perché tanto moriamo lo stesso, che ci amiamo o meno. Ma, sembra, alla ‘o’ avrebbe potuto sostituire una ‘e’”. Lo chiudeva così “la vita, come la vedo io, è fatta di addii, non di ricongiungimenti. Perciò abbiamo le canzoni e le fotografie. Le nostre vite sono fatte di separazioni.” Ventiquattro anni dopo, gli ho chiesto, crede ancora sia così? Geoff Dyer si è messo a ridere e poi mi ha canticchiato I’m not there di Bob Dylan: mi ha detto “abbiamo quei cinque minuti di musica, non è forse abbastanza?”