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e condizioni atmosferiche riguardano un dato percepibile in un intervallo di tempo breve, quasi istantaneo. E i sei romanzi – ora in parte riscritti e accorpati – che compongono Le condizioni atmosferiche di Enrico Palandri definiscono non tanto un punto di arrivo o un approdo, ma la testimonianza vivida di un tempo preciso che sta tra Venezia e Londra, tra l’apparire e la scomparsa di personaggi invischiati in relazioni famigliari a tratti epiche, a tratti soffocanti. Le condizioni atmosferiche sono la definizione di una trasparenza che prende forma per continue sovrapposizioni distinguendo di volta in volta figure e ombre, un gioco godardiano tra apparizione e scomparsa necessario a definire la verità, quantomeno quella letteraria. Abbiamo incontrato Enrico Palandri a Venezia.
Quando nasce dentro di te l’idea di scrittura? Quando Boccalone viene pubblicato nel 1977 hai 23 anni, sei giovanissimo, eppure il libro vive in un equilibrio tra consapevolezza e spontaneità. Quanto la tua idea di scrittura aderisce a Boccalone? Quanto invece lo precede?
Ho iniziato a scrivere molto intorno ai 14 o 15 anni. Canzoni, appunti, un po’ di tutto. Come poi si ritrova in Boccalone. Quindi direi che nasce qualche anno prima, e quando arriva una storia da raccontare ho già un modo di farlo che precede il libro.
Boccalone ti definisce come l’autore giovane del 1977 in contrapposizione per certi versi a Tondelli (a cui hai dedicato un libro denso e bellissimo). Nella scrittura cosa ti unisce e cosa ti divide da Tondelli?
Nella scrittura non sta a me dirlo. Pier ha una scrittura più piana e regolare, io come dicevo sono più nervoso, c’è poesia, saggio, racconto, in realtà se scrivo in modo piano e descrittivo non sono nel mio. Ho bisogno di una frattura che mi costringa a suturare la ferita. A unirci è l’epoca e l’amicizia.
Boccalone ha una forza letteraria che ha bucato il caso generazionale, ma quanto questo dipende dalla tipicità di quella generazione? E poi di quel movimento e della Bologna di allora?
A me pare che siano vere tutte e due le cose. È un libro che appartiene molto alla generazione, ma la generazione appartiene anche a molto altro e attraverso Boccalone molti di noi (e in questo io come altri) abbiamo guardato oltre i manierismi e i vezzi della nostra generazione. C’è Bob Dylan e Giacomo Leopardi, Arthur Rimbaud e John Lennon e tanto altro, Jules Verne, Dickens. Tanto che riappare e si mescola a noi.
Cosa ha rappresentato per te, veneziano, Bologna?
Bologna è dotta e intelligente, da sempre la città di Balanzone. Farci l’università è stata una grande fortuna. Ho ancora tanti amici di quegli anni e quando ci ritroviamo, Bologna siamo noi.
Quali sono stati i tuoi maestri?
Ci sono due persone che ho incontrato e non per il loro mestiere, ma per come si sono posti di fronte alla letteratura (e per come mi hanno insegnato a pormi) sono state importanti. Elsa Morante e Gianni Celati. Non sono stati influenti nel mio modo di scrivere, piuttosto in un accettare questo strano destino che non è davvero una professione, semmai è qualcosa che attraversa una esistenza e la trapunta con libri e cose scritte, che impone un’altezza, e inevitabilmente di tanto in tanto ci fa precipitare a valle. Le influenze decisive dei libri sono invece testuali e tante, non ha senso farne una lista, e come la farei io a questo punto sarebbe piena di rimozioni, dimenticanze e fraintendimenti.
Perché da autore per certi versi “affermato”, e noto, andare a vivere in Inghilterra?
Non c’era solo l’autore, ma anche un ragazzo che voleva scoprire il mondo, e un altro che avvertiva e voleva sfuggire a un conformismo che si riaffermava negli anni Ottanta, con la fine degli anni ribelli e il ritorno di un’epoca il cui protagonista è stato Berlusconi.
Hai coltivato rapporti con altri scrittori italiani o stranieri?
Ho conosciuto e frequentato tanti, per certi anni ho cercato di sentirmi parte della generazione anche perché vivendo a Londra mi sarebbe piaciuta l’idea di tornare a una confraternita di umani intenti come me a scrivere libri. Ad alcuni e alcune ho voluto e voglio bene, altri li ho solo incrociati, ma far libri non è come fare cinema o musica, non si fanno in realtà cose insieme, si è soli di fronte all’editore e al pubblico. Al massimo si condivide qualche aneddoto.
Qual è il rapporto tra l’insegnamento universitario e la tua scrittura?
Insegnare non c’entra nulla con lo scrivere, a meno che non si scriva quel che si insegna o viceversa: i saggi sono abbastanza vicini a quel che ho insegnato o vorrei insegnare. Non solo queli dedicati ad autori, Tondelli, Levi e Leopardi, ma anche La deriva romantica e Flow, quelli più teorici e astratti. Il romanzo invece nasce da un’altra parte ed è difficile parlarne in pubblico, non lo si può davvero leggere come una poesia e funziona come una voce interna a chi scrive e a chi legge, si mescola con regole che non sono ancora del tutto formate, dialoga con un discorso interiore che lettore e scrittore hanno già iniziato (è per questo che arrivano a quel libro particolare) e continua in altri testi e momenti. Probabilmente qualcosa finisce anche nell’insegnamento, ma per caso, incidentalmente. E viceversa, soprattutto in Herbert Markus. Ma appunto è involontario, marginale.
Tu che per anni hai rappresentato “i giovani”, questo generico, come hai vissuto il rapporto ciclico all’interno dell’università con le nuove generazioni che negli anni si sono avvicendate?
Questa è la vera bellezza dell’insegnamento. Avere a che fare con ventenni che non sanno ancora mentire, che sono belli e onesti, come diceva Tolstoj, a cui devi con amore mostrare delle strade possibili per il destino che non sono certo quelle che seguiranno (il destino si fa mano mano e concretamente), ma che li aiuta ad alzare lo sguardo da se stessi.
Con Le condizioni atmosferiche fai un lavoro non solo di scrittura ma, oggi si direbbe, curatoriale: monti e in parte riscrivi un blocco di romanzi centrale nella tua produzione, regalando ai lettori un’idea precisa di letteratura. La puoi sintetizzare?
La sintesi è solo quel che ci resta alla fine di un percorso. Non è vero che lo riassume, semplicemente avanza. È un lembo, un margine. Letteratura, appunto, e l’idea di letteratura è dopo l’evento. Un po’ come chiacchierare uscendo dal cinema o dal teatro ed essere l’eco di quel che è avvenuto. Non mi dispiacciono queste chiacchiere, ma sono appunto periferiche, poco o nulla, il senso che quando si scrive si è solo nella metafora, che cerchiamo di attraversare la densità dell’esistere attraverso le narrazioni, che la vita non basta eppure è tutto. Se facessimo un po’ di strada insieme dopo il teatro, ci accompagnassimo a casa a vicenda come si fa da ragazzi, chiacchierando di tutto e di nulla, avremmo anche la sensazione di aver detto qualcosa ma per fortuna dimenticheremmo cosa avevamo detto effettivamente, costretti così a continuare e ripetere. Il romanzo è un’altra cosa e non so davvero cosa sia.
Come se i confini del libro finito diventassero liquidi, informi?
Che bella immagine, se davvero sono liquidi e informi possono espandersi in altre forme di narrazione e vita. Certo immaginare che un libro stia rinchiuso al proprio interno è piuttosto autoritario, e ci sono gradi diversi anche in questo. Blake o Leopardi sono mal racchiusi nella loro forma, sono molto di più, così ovviamente il teatro, dai tragici antichi a Shakespeare, e la filosofia, che si nutre e si rivolge a una conversazione che ha attorno. Certo, anche la poesia ha l’oralità nelle vene e il romanzo, che come dicevo è fatto di pensieri e brusii interni, che si formano in modo incompleto e si mescolano ai pensieri di chi scrive e chi legge. Anche il romanzo non può restar chiuso in un libro.
Nei tuoi testi si mostrano spesso i temi della famiglia, del rapporto padre-figli e, in generale, una presenza della provincia italiana, ma sempre sull’orlo della fine, della conclusione di un ciclo. Quale è oggi lo spazio del margine, dell’interstizio dentro cui è possibile ancora dare forma a una letteratura?
Direi che le relazioni familiari e quelle umane in generale sono essenziali alla commedia, che è un elemento fondamentale del romanzo. Le idee raggiungono concretezza perché le dicono certe persone in determinate circostanze: diventiamo concreti gli uni per gli altri perché ci parliamo e ci vogliamo bene. Lo spazio di questo dialogo umano è fatto anche e soprattutto per il romanzo di quanto non si riesce a dire. In questo senso non credo che il romanzo morirà mai, sarebbe come immaginare che a un certo punto gli umani riuscissero a dire tutto e non avanzasse più nulla che costringe a tornare su certi eventi o un certo materiale, pronti a lavorare per sciogliere, far scorrere…
Le condizioni atmosferiche sembra un grande affresco genealogico dove, nonostante l’intreccio delle relazioni familiari, sembrano resistere un’irriducibile solitudine, singolarità. Come se si fosse passati dalla famiglia vissuta alla famiglia rimpianta.
Singolarità sì, solitudine invece è una parola più complicata, per me. Ho tre fratelli e tre sorelle, ho avuto moltissimi amici e amiche, una moglie e tre figli, mi piace stare con le persone che amo. Scrivere è solitario, come leggere, e penso di averlo fatto con un senso di inadempienza, quasi la vita non bastasse alla vita stessa, ne volevo ancora, di più e diversa, e il più possibile nella commedia, tra gli altri, ma alcune circostanze escludevano, dalla scuola alla politica all’insofferenza che le persone che amiamo hanno sempre e inevitabilmente per il nostro amore, perchè li invade di noi, li affolla, e Io siamo già così tanti, poveri amici, e figli, e fratelli, e genitori, e amori che si vedono arrivare nell’anima all’improvviso tutta questa gente che mi porto dentro…
Cosa significa per te scrivere ancora?
Non me lo sono mai chiesto. Arriva da lontano, è sempre qui e vuole uscire, dire la sua.
Come scrittore sembri più che appartato, quasi clandestino. La scrittura è forse l’ultima forma di clandestinità oggi possibile? Necessaria?
Se ti riferisci alla cosiddetta scena letteraria non ho nessuno snobismo, so che chi vi partecipa fa il proprio lavoro, come io faccio il mio. C’e’ poi una vita reale, con le sue domande, a cui non è possibile sottrarsi. Sono già così pesante per mia moglie e i miei figli, ti immagini se invitassi a cena altri scrittori o critici che parlerebbero solo con me, o con i miei figli e mia moglie perchè sono miei figli o mia moglie, e non per chi sono davvero? Poveracci, hanno già dovuto sopportare tanto, i miei silenzi o peggio i miei lunghi discorsi. Imporgli la scena letteraria sarebbe davvero insopportabile. E comunque non c’entra nulla con i libri, che nascono da un’altra parte e seguono un itinerario misterioso nei lettori e nelle società.