I nsegnare a trasgredire. L’educazione come pratica della libertà (Meltemi, 2020) di bell hooks, appena tradotto in Italia a cura del Gruppo Ippolita, è un saggio di teoria dell’apprendimento concepito nel contesto delle lotte femministe e anti-razziali in USA. Uscito nella sua prima edizione originale alla metà degli anni Novanta, tocca questioni ancora attuali soprattutto nel panorama italiano. Non è un caso che l’introduzione sia stata scritta dalle attiviste della blackness italiana e femministe intersezionali Rahel Sereke e Mackda Ghebremariam Tesfau’.
Nell’introduzione a un altro famoso testo di hooks, Elogio del margine. Razza, sesso e mercato culturale (Feltrinelli 1998) – appena riedito insieme a Scrivere al buio da Tamu Edizioni –, Maria Nadotti mette in risalto l’ “eccedenza” di questa autrice, docente e attivista afroamericana, capace come poche di offrire un punto di vista radicalmente intersezionale sulle questioni del genere, della razza e della classe. La sua militanza come teorica del margine si radica infatti in un sistema plurimo, materiale e simbolico, di oppressione: quello patriarcale e maschilista dell’uomo nero – perché anche le persone nere possono essere “influenzate da politiche reazionarie e antidemocratiche” –, quello patriarcale, maschilista e suprematista dell’uomo bianco, quello femminista della donna bianca e, ancora, quello classista del capitalismo. Da questa eccentricità coatta, hooks impara già ragazzina che ci si può spostare, non per occupare a sua volta una posizione di privilegio, ma per restare soggetto mobile capace di tradurre la vulnerabilità in forza vitale. Dal margine al centro e ritorno, spostando continuamente il confine che separa privilegio e subalternità, nella consapevolezza che il margine stesso può essere un luogo privilegiato da cui guardare, più a lungo e più intensamente.
Sin dalla scelta del nome (bell hooks è lo pseudonimo letterario di Gloria Watkins), hooks dichiara un certo modo di porsi nei confronti della subalternità e della longue durée dei processi collettivi di emancipazione. Il nome è quello della bisnonna materna, ma usato con le iniziali minuscole: in un solo gesto, quello del nominare, hooks rifiuta sia la continuità patrilineare della parentela, sia la singolarità della personalità autoriale. Queste riflessioni maturano già nel contesto nella scuola integrata che Gloria frequenta in Kentucky dopo la fine delle leggi segregazioniste Jim Crow – emanate dai singoli stati tra il 1877 e il 1964. Riassumibili con l’espressione “separate but equal”, le leggi prendono significativamente il nome da un tipo di minstrel show – molto diffuso e apprezzato tra Ottocento e inizio Novecento: una parodia dell’uomo nero interpretata da un performer bianco in blackface. Gloria, che negli anni Sessanta è ancora una ragazzina, scopre che la scuola desegregata è una macchina assimilazionista piena di contraddizioni. Basata su una logica tokenista che include solo in maniera superficiale e senza incoraggiare l’elaborazione di un pensiero critico, la scuola dei bianchi e dei neri continua a riprodurre un regime di separazione, proprio perché fa tabula rasa delle differenze. Infatti, l’amnesia e la miopia rispetto agli antagonismi sociali sono per hooks il grande limite del multiculturalismo di derivazione liberale, pensato a uso e consumo dei bianchi.
Noi ragazzini neri eravamo furibondi di essere stati costretti a lasciare la nostra amata scuola per neri e dover attraversare la città per essere inseriti nelle scuole bianche. Eravamo noi a spostarci, e quindi assumerci la responsabilità di rendere reale la desegregazione. Abbiamo dovuto rinunciare a quanto era per noi familiare, ed entrare in un mondo freddo e alieno […]. Eravamo sicuramente ai margini, non più al centro, e faceva male. È stato un periodo così infelice. Ricordo ancora la mia rabbia per il fatto di doverci svegliare un’ora prima per poter essere accompagnati a scuola prima dell’arrivo degli studenti bianchi. Ci facevano sedere in palestra e aspettare, nella convinzione che questa pratica avrebbe evitato l’insorgere di conflitti e ostilità, poiché eliminava la possibilità del contatto sociale prima dell’inizio delle lezioni. Eppure, ancora una volta, il peso di questa transizione era posto sulle nostre spalle, la scuola bianca venne desegregata, ma nell’aula, nella caffetteria e nella maggior parte degli spazi sociali prevaleva l’apartheid razziale.
Il riconoscimento della differenza, così come dell’intersezione tra diverse forme di discriminazione all’interno delle agenzie formative, rimarrà per hooks il primo fondamentale passo di una pedagogia critica capace di riconoscere la conflittualità sociale presente nella scuola. La sua pratica educativa è infatti orientata ad affermare un modello di scuola trasformativa intesa come pratica di libertà, alternativa alla scuola conservativa strutturata come istituzione egemonica. hooks distingue tra metodi pedagogici profondamente radicati nella vita di tutti i giorni e nella lotta anti-razziale, e l’educazione depositaria orientata dalla mera trasmissione di nozioni relative ai diversi ambiti del sapere. Il modello è quello della pedagogia attiva che vede in John Dewey e Maria Montessori (che però non sono mai citati nel testo) gli iniziatori di un approccio maieutico che mette al centro la persona, le attitudini, l’interesse e la gioia dell’apprendimento, rifiutando di considerare la/il discente come un contenitore vuoto da riempire.
bell hooks comincia la sua carriera da docente tenendo un corso sulle scrittrici nere all’interno di una cattedra dell’University of California – Santa Cruz dedicata ai black studies – allora dominati dal discorso anti-razziale e non interessati alle questioni di genere. Inoltre, in un momento in cui i corsi dedicati ai women’s studies includevano solo docenti bianche e “non erano ancora pronti ad accogliere un discorso focalizzato sulla razza e sul genere”, hooks contesta questo doppio e reciproco regime di esclusione. Insoddisfatta anche degli stessi approcci femministi – allora non abbastanza concentrati sulle strategie pedagogiche –, così come del fatto che la letteratura sulla pedagogia critica in ambito accademico fosse stata a lungo appannaggio di donne e uomini bianchi, trova un punto di riferimento nel teorico dell’educazione brasiliano Paulo Freire.
Dal pedagogo degli oppressi, riprende innanzitutto l’idea della coscientizzazione della classe e dell’educazione come pratica di libertà. Ricorrendo all’espediente letterario dell’auto-intervista – di Gloria a bell – hooks si interroga anche sui limiti teorici dello stesso Freire, che costruisce “un paradigma fallocentrico di liberazione, in cui la libertà e l’esperienza della virilità patriarcale sono sempre collegate, come fossero la stessa cosa”. Sono pagine intense in cui, da femminista, riconosce con “angoscia” le zone d’ombra e il sessismo del linguaggio di un pensatore pur cosciente e critico nei confronti del suo stesso privilegio – e consapevole di poter avere un ruolo nella lotta femminista, proprio in quanto uomo. Nonostante ciò hooks riconosce che si può comunque usare a proprio vantaggio qualcosa che si considera impuro.
Quando mi capita di parlarne con accademiche femministe (di solito bianche) convinte di dover respingere o svalutare il lavoro di Freire a causa del sessismo, vedo chiaramente che le nostre diverse reazioni sono modellate dal punto di vista da cui partiamo nel considerare la sua opera. Sono giunta a Freire assetata di conoscenza, morivo letteralmente di sete (quella sete che può provare solo il soggetto colonizzato, emarginato, che non sa ancora come eludere il controllo dello status quo; l’oppresso che brama il cambiamento, che è bisognoso, che ha sete), e ho trovato nel suo lavoro (e in quello di Malcolm X, Fanon, ecc.) un modo per placare quella sete. Un lavoro in grado di facilitare la liberazione di sé è un dono così inestimabile che non importa se è imperfetto. Lo si può considerare come acqua sporca. Quando hai sete, non sei così orgogliosa da separare lo sporco dall’acqua.
Nel suo saggio dedicato al tema della Negritudine Postmoderna – che sembra riecheggiare il Postmodernism and Black America di Cornel West – hooks sostiene che l’ “autorevolezza dell’esperienza” è utile ad affermare una “radicale soggettività nera” e i caratteri distintivi della storia afro-americana. Ma, se da una parte rifiuta la politica dell’identità – come pratica escludente che produce separazione –, dall’altra distingue l’essenzialismo che si esprime da una posizione di privilegio da quello che si esprime da una posizione marginale, legittimandone l’uso come strumento di sopravvivenza e di lotta.
Insegnare a trasgredire afferma la necessità e il valore pratico della teoria nei movimenti di emancipazione, rifuggendo tuttavia dalle secche dell’accademismo al fine di rendere più accessibile la lotta. hooks infatti considera la separazione della teoria dalla pratica come un’impostura utile a preservare il privilegio intellettuale, e si astiene dall’usare formule accademiche convenzionali, contravvenendo all’implicito luogo comune che l’esemplificazione svilisca il rigore della teoria. La sua scrittura è autobiografica e aneddotica, piena di incontri e dialoghi intensi come quelli con vari/e studenti, colleghi e colleghe come Cornel West e Toni Morrison – oltre al già citato Freire. L’insegnamento come pratica militante si configura così quale “atto politico radicato nella lotta antirazzista”, perché “conosciamo attraverso la nostra vita e viviamo quella conoscenza, che supera tutto ciò che qualsiasi teoria abbia mai teorizzato”.
L’autorevolezza dell’esperienza autobiografica si manifesta innanzitutto attraverso la viva voce e il dibattito in classe, che diventa uno strumento essenziale per produrre pensiero in un mix di modalità esperienziali e analitiche. In particolare hooks attribuisce alla voce una funzione impoterante analoga a quella che in altri saggi individua nello sguardo, chiedendosi quanto la “relazione traumatica con lo sguardo [subito o negato] abbia informato i sistemi educativi e le modalità spettatoriali dei neri”. Si pensi allo “sguardo oppositivo” della spettatrice nera analizzato nei suoi scritti sul cinema e la cultura pop. A tal proposito, hooks ha più volte evidenziano come anche i fenomeni culturali che celebrano la black culture usino spesso un’iconografia razzista e sessista. Ha duramente criticato ad esempio la vacuità delle istanze liberatorie di perfomer come Madonna e Beyoncé, che non mettono minimamente in discussione la differenza di classe. Come interpretare del resto una Veronica Ciccone che, immersa nella sua vasca da bagno piena di petali di rosa, parla del Covid-19 come “the great equaliser”? Secondo hooks la sua “fascinazione” e “invidia” per la negritudine – e conseguente appropriazione – conferma la costruzione sessista del corpo dell’uomo nero, iconicamente accostato a quello trasgressivo ma pur sempre angelicato della donna bianca e bionda. E persino Lemonade (2016), l’ultimo progetto solista di Beyoncé, viene letto come un tentativo fallito di contro-rappresentazione, in quanto celebra un’idea di liberazione basata sull’ascesa socio-economica del singolo e sulla “morale del dollaro” di ascendenza neo-liberale.
Insegnare a trasgredire contiene riflessioni interessanti anche sul fatto che la differenza di classe è più di una semplice questione economica, perché implica un sistema di valori e posture sociali tra loro incommensurabili. Entrare nel mondo accademico borghese continuando a relazionarsi con i propri contesti di provenienza può causare una profonda spaccatura interiore e un senso di estraneità all’uno o all’altro. Attraversare continuamente quel confine che divide l’essere dal voler essere, il posizionamento dall’orientamento, e restare comunque comodi, richiede grande sforzo e sofferenza.
Al pari dello sguardo e della voce, anche la lingua – che definisce e altera “il modo in cui sappiamo ciò che sappiamo” – e nella fattispecie il vernacolo nero, è per hooks un luogo di resistenza e rivendicazione contro il pensiero e “la lingua del dominio”. Quello dell’inglese standard, afferma, è “il suono del massacro e della conquista” che deve essere stato incomprensibile e “terrificante” per gli schiavi nelle piantagioni. L’uso politico della lingua come atto collettivo di deterritorializzazione consiste nella variazione come tattica per far “balbettare” e “pigolare” il pensiero egemonico. È una caratteristica analoga a quella che Deleuze e Guattari individuano nel gaelico, nel francese del Québec o nel tedesco di Praga dell’ebreo Kafka: lingue “transizionali” per una letteratura minore, che “non è la letteratura di una lingua minore ma è quella che una minoranza fa in una lingua maggiore”. Come per i filosofi francesi, anche per hooks il vernacolo è dunque ciò che qualifica le “condizioni rivoluzionarie” della lingua veicolare, oltre che un “luogo di dolore e di lotta” da cui partire per fare teoria.
Ma se è vero questo, quando l’esperienza “ci impedisce di raggiungere la vetta” bisogna lasciarla andare “perché il suo peso è troppo gravoso”, scrive hooks. A cos’altro appellarsi allora, se il dolore e l’esperienza personale non possono essere gli unici strumenti o “modi del conoscere”? Al desiderio. L’erotismo, afferma, è una molla fondamentale per l’apprendimento, soprattutto se inteso come un fatto basato sulla relazione, che è sì intellettuale ma anche spirituale. Il piacere e il godimento in classe sono fondamentali per “eccitarsi” nello scambio dialogico e creativo, e per riconoscersi nel comune desiderio, tenendo comunque conto delle dinamiche non sempre prevedibili dell’interazione sociale e dell’affezione. hooks d’altro canto non nega i limiti di questo approccio, come la possibile resistenza o il mancato riconoscimento da parte degli studenti: un rischio che bisogna saper correre, facendo i conti con la paura del fallimento e la rinuncia alla conferma immediata da parte della classe.
Questa riflessione si lega all’idea che insegnare significhi innanzitutto stare con le persone, prendendo atto del fatto che il corpo del/la docente – così come quello dell’intellettuale – non è mero “spirito disincarnato”. Per essere intellettuali, non bisogna tenere il corpo, l’anima e i sentimenti da parte, tantomeno fuori dalla classe.