D urante la seconda metà del ventesimo secolo, molta letteratura si è spesa per provare a fare i conti con gli anni oscuri del nazismo: autori come Elie Wiesel e Primo Levi hanno raccontato i campi di concentramento, altri come Kurt Vonnegut hanno ricostruito momenti come il bombardamento di Dresda o immaginato ambigui personaggi, forse voci entusiaste della propaganda tedesca, forse eroi del controspionaggio americano. W. G. Sebald ci si è confrontato da lontano, attraverso la vita di reietti e scampati da un passato di guerra quasi innominato o portando il suo Austerliz nel vuoto del lager di Thereseinstadt. Molto più raramente invece si è provato a raccontare da vicino lo stato d’animo del popolo tedesco, il terrore, l’indifferenza o l’entusiasmo che hanno reso possibile il nazismo nei suoi aspetti più atroci e in quelli più quotidiani.
Nel 1961 Hannah Arendt, inviata per il settimanale New Yorker, seguiva a Gerusalemme il processo al gerarca nazista Adolf Eichmann e rimaneva colpita dalla sua inaspettata normalità: nulla a che vedere con la malvagità che forse si sarebbe aspettata da un uomo considerato fra i maggiori responsabili dell’Olocausto, un uomo che diede forma alla “soluzione finale” organizzando il traffico ferroviario che dal 1940 aveva portato verso l’uccisione di 6 milioni di ebrei.
La rivelazione che i burocrati del Reich fossero persone perlopiù semplici e mediocri che si limitavano, tutto sommato, a rispettare la legge ed eseguire dei comandi, portò due anni più tardi alla pubblicazione della Banalità del male. Già nel ’51 Arendt si era interrogata sul fenomeno del totalitarismo e aveva immaginato la massa, il più possibile priva d’individualità, come materia prima per nutrire fenomeni come lo stalinismo e soprattutto il nazismo: una massa amorfa, entusiasta e terrorizzata assieme, e soprattutto non pensante, obbediente, come avrebbe poi riscontrato durante il processo ad Eichmann.
Ursula resta attonita quando uno studente all’improvviso viene trascinato via dalla classe e ancora più quando un altro si ammazza davanti a tutti, a scuola.
Qualche anno prima, in un libro rimasto inedito a lungo, l’autrice e attrice austriaca di origini ebraiche Mela Hartwig trovava parole non lontane da quelle di Arendt e parlava di un “popolo saldato insieme in un’unica micidiale macchina […] per realizzare qualcosa di sovrumano”. Il titolo dell’opera era Inferno. Si trattava di un romanzo e conteneva in sé l’urgenza di entrare nelle viscere di quella massa, raggiungere gli individui e indagare cosa potesse accadere nell’animo di una giovane tedesca durante il periodo del Reich: come agisse la paura, come agissero pensiero, dubbi, coscienza critica, e anche la fascinazione, l’entusiasmo in una ragazza perfettamente ariana, potenzialmente ben integrata nel regime; e come ne risentissero i rapporti famigliari, come ci si potesse o meno adattare al cambiamento del mondo intorno.
Inferno di Mela Hartwig è stato pubblicato ora per la prima volta in Italia dalla casa editrice fiorentina Spider&Fish. Fu scritto a caldo, fra il 1946 e il 1948: l’autrice, figlia del sociologo e filosofo Theodor Herzl – che aveva mutato il nome in Hartwig dopo essersi convertito al cattolicesimo – si trovava in Inghilterra già dal ’38 con suo marito, l’avvocato ebreo Robert Spira. Da molti anni faceva fatica a trovare un editore, si era messa invece a dipingere, i suoi libri precedenti, come scrive Luigi Forte nella prefazione, erano di un femminismo cupo – in un’epoca in cui autrici come Annemarie Schwarzenbach, Erika Mann o Vicki Baum restituivano invece l’immagine di donne finalmente libere e indipendenti. Nel ’46 la necessità di capire cosa fosse accaduto a quella massa, quel “popolo saldato insieme” la spinse a tornare a scrivere.
La protagonista di Inferno è Ursula, una diciottenne che ha appena terminato il liceo e si appresta con gioia a iscriversi a un’accademia di pittura. Di quel che accade fuori ha poca contezza: osserva le strade, le persone, le case attraverso le finestre aperte e vede tutto come una sinfonia di colori. Eppure in casa i rapporti tra il fratello, fervente nazista, e il padre (più tiepido) si fanno tesi. Fa poco caso anche al preside che critica la frivolezza dei suoi dipinti non “impegnati”, ma in classe comincia ad annusare una diffidenza reciproca che la mette a disagio. La sua ingenuità viene messa in guardia da un compagno di corso, che coglie il suo disagio e la invita a nasconderlo. I due prendono a incontrarsi sempre più spesso, di nascosto, lontano dagli occhi indiscreti di studenti e professori. È la stagione dell’amore, del primo amore, che la travolge. Così Ursula si trova tirata da due forze opposte: il suo “amato”, così lo chiama, fa parte della resistenza mentre il fratello è una camicia bruna, lei vorrebbe avvicinarsi sempre più al primo e allo stesso tempo è attratta dalla fiamma che invade il secondo.
Resta attonita quando uno studente all’improvviso viene trascinato via dalla classe e ancora più quando un altro si ammazza davanti a tutti, a scuola, per non mettere in pericolo l’organizzazione clandestina di cui è parte. Ma basta l’entusiasmo condiviso di un’adunata a cui accompagna il fratello per riconquistarla:
Ebbe la soddisfazione di vedere il momento in cui la fiamma, divampata all’inizio solo nel cuore di un numero relativamente piccolo di proseliti, si era propagata come un incendio che qualcuno avesse appiccato, e poi anche quella che ormai era solo una remota eco del dubbio che si era insinuato in lei sotto l’influenza del suo amato e per amore di lui, cessò. Sentì che poteva di nuovo credere totalmente in un’idea, avvalorata da un così enorme successo.La sua rinnovata convinzione divampava con tale violenza e da essa promanavano energie così poderose, che lei sentiva di non essere altro che uno strumento e giurava che ce l’avrebbe messa tutta per convincere il suo amato, per aprirgli gli occhi sul fatto che non si poteva parlare di ingiustizia, visto che si trattava di una cosa tanto sublime, perché il fine giustificava ogni mezzo e perché, quando erano in gioco beni così sublimi, la crudeltà era la più profonda compassione.
Ma poi di nuovo, solo pochi mesi dopo, si trova ad assistere alla Notte dei Cristalli e le sue convinzioni crollano. Nell’aria il grido “Il Tempio Brucia”, davanti ai suoi occhi una donna incinta scaraventata fra le fiamme. L’orrore e la violenza di quella scena la sconvolgono: “Prima ero cieca ma oggi mi si sono aperti gli occhi. Vedo ciò che non vorrei ma che pure devo vedere. Vedo il sangue, che gronda dalle nostre mani”.
Così Ursula decide di entrare nella resistenza, è presa dalla foga di fare qualcosa di grande, di sacrificarsi, subito esagerando nel suo slancio e mettendosi in pericolo. “Tu offri a noi tutti in sacrificio quel che ti sta a cuore. Sei pronta all’estremo sacrificio. Ma sei anche pronta a fare quel sacrificio minimo che noi ci aspettiamo da te? (…) Sei pronta, Ursula, ad accontentarti di fare ciò che c’è bisogno di fare?” le domanderà infatti l’amato riportandola con i piedi per terra. Obbedisce, per dei mesi si dedica al lavoro umile e minuzioso di disegnare documenti falsi, ma non appena per qualche tempo resta lontana da quella quotidianità si ritrova invece a pensare che “Del resto l’artista è un individualista, di questo ne era convinta, e aveva non solo il diritto, le sembrava, ma persino l’obbligo di esserlo”. Altri eventi ancora la riavvicineranno poi alla resistenza e tornerà alle gravose lunghe silenziose e pericolosissime attività clandestine. Ma in nessun momento sarà veramente chiaro, né al lettore né tanto meno a lei, se lo farà per lucida convinzione o per un amore febbrile.
La testimonianza di Hartwig è preziosa: è il racconto di un’austriaca che fino all’annessione alla Germania era rimasta a Graz e aveva potuto sentire da vicino che aria si respirava in quella parte d’Europa.
Allo stesso modo, quando scopre che la sua più cara amica ha sposato un ebreo rimane turbata, lo accetta per amicizia, trovando il modo di “conciliare l’affetto per la sua amica e l’avversione per il marito”. Ma quando il suo amato si offre di aiutare la ragazza a raggiungere il marito già espatriato, Ursula accetta addirittura di farsi coinvolgere, rendendosi disponibile a passare 24 ore nella casa dell’amica fingendo di essere lei nel caso la polizia o qualcun altro l’avesse cercata. E man mano che il tempo passa e il pericolo è quasi scampato, sale l’adrenalina della sfida vinta e il desiderio di fare ancora di più, di mettersi ancora in pericolo. Per lui, per l’amica, per l’euforia del momento.
Questo continuo tentennare di Ursula non si placherà fino alla fine. E se alla fine si salverà, se attraverso la pittura troverà il suo posto e la prospettiva da cui guardare il mondo, è ovvio pensare che se non avesse incontrato quell’amore assoluto di gioventù nei primi e disorientanti mesi nella nuova Accademia di Pittura, Ursula non avrebbe mai avuto più che qualche dubbio. Il suo orrore per la violenza dei Pogrom, il disagio verso lo sguardo intriso di fanatismo dei giovani intorno a lei (“Il volto fanatico si era per così dire riprodotto all’infinito, ovunque volgesse lo sguardo se lo trovava davanti, come massa compatta nelle anime”) forse non avrebbero fatto di lei un’ardente nazista come il fratello, ma nemmeno l’avrebbero tirata fuori da quella massa.
Proprio perché scritta così a caldo e da un’austriaca che fino all’annessione alla Germania nel marzo del 1938 era rimasta a Graz e aveva potuto sentire da vicino che aria si respirava in quella parte d’Europa, la testimonianza di Hartwig è preziosa: con uno stile completamente introspettivo, che fa eco a quello di Virginia Woolf (di cui era infatti molto amica e su cui scrisse un saggio nel ’51), entra nelle viscere del pensiero sempre febbrile, raramente lucido di Ursula.
La protagonista di Inferno si trova dalla parte giusta quasi per caso ma Hartwig si cala talmente a fondo nella sua mente e nel suo cuore, e talmente a fondo vi accompagna il lettore, che diventa impossibile giudicare e districarsi dalle maglie di questa massa che dall’esterno appare come un “popolo saldato insieme”, che sta all’“origine del totalitarismo”, ma che al suo interno è composta tanto dalla banalità anestetizzata degli Eichmann quanto dai subbugli interiori di tutte quelle Ursule che non hanno incontrato, in qualsiasi forma, l’“amato”.