A leksandar Hemon, dopo il dittico auto-finzionale rappresentato da I miei genitori / Tutto questo non ti appartiene, ritorna in Italia, nella traduzione di Maurizia Balmelli, con il suo nuovo romanzo lungamente atteso, Il mondo e tutto ciò che contiene, uscito da qualche settimana sempre per l’editore Crocetti. Da tempo, i temi della letteratura di Hemon hanno a che fare con un senso di appartenenza interrotto da recuperare, e le relazioni – amorose, amicali e genitoriali – sono nella sua produzione, sia essa più autobiografica o puramente finzionale, un modo precario per colmare questa distanza. Che non è solo distanza da un luogo d’origine, ma quella da una lingua madre compromessa: Hemon è infatti un autore translingue innamorato del maccheronico come strumento politico, un autore di romanzi e racconti multilingui che viaggiano tra le nazioni e le identità senza porsi troppi problemi.
Sopra i suoi personaggi, come nel caso dei due soldati innamorati Pinto e Osman, si avverte incombente il peso di una Storia che è violenza e sopraffazione ovunque si guardi, una Storia monumentale che frana sulle molteplici vite infami e minuscole, da nominare e quindi salvare, sia essa quella di Lazarus Averbuch del romanzo di culto Il Progetto Lazarus, che quella di altri Nowhere Man – per citare un’altra opera di Hemon – rifugiati e profughi instancabili, allo stesso tempo “in cerca di un rifugio” e in una costante “fuga”, da una catastrofe umanitaria. I suoi romanzi, senza l’uso stucchevole di retorica, sono così anche un grido che chiede il riconoscimento di uno sguardo umano, e nel caso de Il mondo e tutto ciò che contiene si tratta del mondo delle trincee della Prima Guerra mondiale, dal quale parte l’epica anti-epica fuga verso Est dell’ebreo Pinto e del suo amore incondizionato per il musulmano Osman, con un’enfasi spesso evidente sulla forza riparatrice della narrazione come strumento di redenzione… senza alcun bisogno che giunga alla fine un Messia: basta l’amore, per un uomo o per una figlia, per sopravvivere alla catastrofe.
Come autore bosniaco-americano, Hemon guarda poi al passato sapendo che la nostalgia è in fondo una malattia pericolosa, e il suo sguardo è infatti ancipite, perché scorge anche il presente: negli anni l’autore ha interagito pubblicamente e narrativamente con le questioni identitarie degli Stati Uniti, pur sempre ricollegandosi alle sue radici balcaniche. Così quando l’America, come oggi, è divisa e sull’orlo di una nuova guerra civile, spinta dalla violenza non solo verbale dei movimenti alt-right e dell’astrattezza della retorica dei liberals, Hemon guarda alle guerre balcaniche, al nazionalismo balcanico, all’indifferenza della comunità internazionale.
Lo intervistiamo per Il Tascabile.
Come disse una volta Stephen Dedalus, la storia è un incubo da cui sto cercando di svegliarmi. Invidio le persone che sembrano vivere lontano o ai margini della storia, quelle che sentono che le loro vite sono interamente costruite su loro stessi, attraverso una serie di decisioni proprie, compreso il voto chissà, la loro partecipazione alla vita puramente privata e astorica. L’America è piena di persone così, e anche questo fa parte dell’incubo. I miei eroi – e uso questa parola in modo appropriato – hanno un potere solo in termini di sopravvivenza e a livello personale. Si sforzano di vivere e amare nelle circostanze più difficili, e sono quelli che hanno cancellato dalla Storia i grandi uomini e i grandi leader. Non mi interessa quel tipo di Storia.La Storia del XX secolo non finisce mai, e ritorna come un fantasma nella tua produzione romanzesca.
Il mondo e tutto ciò che contiene traccia una storia che va dal 1914, con l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo, e termina a Gerusalemme nel 2001. Il lettore percepisce la tragedia del XX secolo a ritmo serrato e instacabile, che si chiude (forse) in quel fatidico anno americano. Cosa significa per te, che vivi in America, ritornare su questo percorso che è estremamente legato al tuo primo romanzo, Il progetto Lazarus?
Cito da un tuo recente intervento per Freeman’s: “L’amore”, di fronte a tempi catastrofici, “è la risposta: amore per il linguaggio, per l’immaginazione, per tutti coloro che ci hanno preceduto e per tutti quelli meno fortunati che verranno dopo di noi, per l’umanità… Un giorno, svilupperemo questi tempi terminali come storie o musica e sapremo di aver vissuto e amato, e potremo ricordare e sperimentare di nuovo la gioia di stare insieme”. (A. Hemon, “Conclusions”, Freeman’s magazine, ottobre 2023). Il mondo e tutto ciò che contiene è un libro sui rifugiati e sull’amore, sulla guerra insensata e sulla catastrofe – parola chiave –, sulla gran eskudirad che accompagna i personaggi e (anche se difficile da realizzare) su una possibile salvezza. L’amore è sollievo temporaneo in una trincea o in mezzo ad una tempesta nel deserto, l’amore è anche nostalgia di una Vienna libertina dove ci si muoveva tra letture di poesia e concerti, l’amore anche per un futuro migliore, nell’invocazione paradossale del “remember the future” di uno dei personaggi del libro. Come hai lavorato su questo tema, concentrandoti su un amore omosessuale? Cosa hai scelto di questa prospettiva, che ridefinisce in un certo senso le figure maschili e machiste dei romanzi di guerra? Penso ovviamente ad Addio alle armi di Hemingway, ma anche a Malaparte, a Cendrars, o recentemente (in toni meno machisti!) a Il paziente inglese di Ondaatje. La premessa stessa dell’omofobia è che l’amore tra persone dello stesso sesso sia fondamentalmente incomprensibile, quindi innaturale, e quindi dannoso per le pratiche normative della società. L’eteronormatività è perennemente autolegittimante, anche nelle narrazioni eterosessuali dell’amore in tempo di guerra. Il patriarcato e il nazionalismo sono inseparabili, anzi sono la stessa cosa chiamata in modo diverso. Il fascismo è sempre estremamente maschile e patriarcale e investe violentemente nella normatività. Queste società non valorizzano la complessità dell’esperienza umana, l’infinita variabilità degli esseri umani, per cui se si crede nella sovranità della vita umana e nel diritto di ognuno di essere chi vuole essere, si è automaticamente non solo antifascisti, ma anche contro il patriarcato e la eteronormatività. La complessità umana è tutto ciò che mi interessa come scrittore. I miei personaggi sono molte cose, tra cui omosessuali, ma non possono essere ridotti a nessuna di esse: sono tutto ciò che sono allo stesso tempo, anche se il contesto potrebbe costringerli a mettere in primo piano l’una o l’altra cosa. Se non sono in grado di immaginare e scrivere di questa complessità, allora dovrei scrivere monologhi per persone (uomini) al potere, e non romanzi.
Il tuo recente I miei genitori… è un libro che racconta in modo più autobiografico (o auto-finzionale si direbbe) la storia e il crollo dei Balcani attraverso l’esperienza passata e recente, costruendo un ritratto fenomenale dei tuoi genitori. Ne Il mondo, c’è il rapporto molto accurato e commovente tra Pinto e Rahela che è il “motore” della seconda metà del romanzo, come una sorta di sostituto dell’amore con Osman. Qual è il ruolo della genitorialità nella tua produzione? È in contrasto con il ruolo negativo della patria, o con l’equivoco della nostalgia come rimpianto? Amo i miei genitori, ho scritto di loro e sono io stesso un genitore. Ci sono diversi modi di fare i genitori e, ovviamente, i genitori non sono automaticamente migliori di chi non lo è, ma le modalità di amore che la genitorialità comporta sono interessanti per me. Pinto è un genitore per scelta, e non per una presunta necessità biologica o sociale o per un impegno nei confronti dei miti e dell’ideologia (eteronormativa) della superiorità morale dei genitori. Ho perso una figlia a causa di un tumore al cervello, mentre la mia figlia più piccola ha dei bisogni speciali, e ne so qualcosa sull’infinità dell’amore e sulla volontà di fare qualsiasi cosa per tenere i propri figli al mondo. La genitorialità può anche essere una continuazione, anzi un’evoluzione dell’amore, e l’amore è sempre una pratica. È ciò che si fa per e con coloro che si amano. Il mio libro è un’epopea di rifugiati, ma a differenza dei classici poemi epici in cui l’eroe persegue un qualche tipo di amore astratto (per Dio, per un Re, per la Bella Fanciulla, per l’Onore, per la Nazione) e ha abilità straordinarie, l’abilità eccezionale di Pinto è l’amore, compresa la genitorialità.
Il tuo ultimo romanzo è anche un romanzo babelico, che passa dall’inglese al tedesco con molte parti in spanjol (il ladino di Sarajevo), un “romanzo multilingue” che ho cercato di definire in Il Romanzo di Babele. Nel romanzo si sente la presenza del mito-faro di Babele, non come mito di condanna, ma come Mito della poliglossia, risorsa per il contatto culturale – nel romanzo, Babele stessa è vista dal punto di vista sia degli ebrei sefarditi come Pinto sia dei musulmani come Osman. I rifugiati poi nel tuo libro parlano un dialetto, una lingua-spugna maccheronica, sono in-traduzione come in-transito. Che cosa significa per te far parlare il proprio mondo in più lingue? E in che modo la tua esperienza della lingua inglese come autore americano ridefinisce gli stessi confini di ciò che significa essere un autore americano oggi? Ogni lingua nella tua testa è una dimensione in più, il che significa che il multilinguismo è multidimensionalità mentale e intellettuale. In un sistema bidimensionale, gli oggetti multidimensionali possono essere rappresentati e percepiti solo in due dimensioni. Dal punto di vista linguistico, l’America non è un sistema multidimensionale. Le forze dell’americanizzazione, l’industria del melting-pot, lavorano costantemente contro il multilinguismo. Accade nella xenofobia americana standard, che produce odio per tutti gli stranieri. Ma c’è anche una versione liberale che detesta ciò che non capisce, per la quale le dimensioni estranee sono invisibili come per i fascisti e che si aspetta, anzi esige, il desiderio di assimilarsi alla lingua dominante, e che non può usare nessun’altra lingua se non l’inglese. Il mio romanzo non ha avuto successo in America. Ha generato poco dibattito sulla lingua, sulla migrazione o sulla narrazione multilingue come modo di stare al mondo. Il mio essere multilingue è visto come una deformazione, come un’incapacità di assimilarsi completamente, mentre la natura maccheronica del mio romanzo – tranne che in rare recensioni – è vista come un rumore di alterità ingestibile. La presenza di altre lingue nel libro è stata in gran parte vista come una distrazione. Il che equivale a dire che, dopo circa venticinque anni di pubblicazione in America, sono meno che mai un autore americano. Per molti versi, è un sollievo. Non devo più sforzarmi!
A proposito di estraneità, aggiungerei che questo libro presenta una forte componente di riflessione sulla divinità. Inizi citando sia il Talmud babilonese sia Jalāl al-Dīn Muḥammad Rūmī, e ovviamente quello dei suoi personaggi è un Dio dai molti nomi, un Dio che giudica, crea e divide, come nel Mito di Babele, il dio di Patri Avram, ad esempio. Questo è un tema – questa dimensione diremmo metafisica e post-secolare – quasi del tutto dimenticato nella letteratura contemporanea americana, ma estremamente vivo in quella europea recente – penso a Olga Tokarczuk e ai Libri di Jakub, che mi è tornato spesso in mente mentre leggevo il tuo romanzo. Il mondo e tutto ciò che contiene è, nel mercato editoriale americano, un caso raro e prezioso. Cosa mi puoi dire del tuo rapporto con la spiritualità, quando stiamo vivendo un’epoca di nuove guerre (apparentemente) religiose? Tutto ciò che faccio inizia (e finisce) con la narrazione, e la narrazione è un flusso di milioni di decisioni causalmente correlate. Quando insegno scrittura creativa, disegno alberi di possibilità narrativa sulla lavagna per far capire che ogni decisione presa nel raccontare la propria storia è collegata a tutte le altre. Così, quando ho deciso che Pinto sarebbe stato un personaggio sefardita con inclinazioni poetiche, tra cui la riflessione compulsiva, stretto tra una tradizione antica e religiosa in via di estinzione e una modernità catastrofica che mette alla prova tutte le questioni spirituali, ho dovuto caricare la sua coscienza di domande su Dio, l’ontologia, l’anima, l’amore, i divieti e le richieste della religione. Sono ateo, ma apprezzo le indagini e le conoscenze delle persone spirituali e religiose. Soprattutto, credo che, come narratore, devo abitare la coscienza di persone diverse da me e lasciare che mi portino ovunque stiano andando. Pinto attraversa una storia incredibilmente violenta e distruttiva, in cui il mondo viene continuamente distrutto e poi (molto parzialmente) ricostruito con amore, e mi è sembrato che i fondamenti della religione come operazione di creazione del mondo dovessero essere messi in discussione.
Tra le “divinità” dell’ultimo romanzo, potremmo includere anche la narrazione come strumento riparativo, di una redenzione terrena, nel potere à la Sheherazade di sopravvivere attraverso la creazione di storie e mondi. Ci sono poi due tipi differenti di narratori, come la spia Moser-Ethering e Osman. Qual è la tua posizione nel recente dibattito su AI e la capacità umana di creare storie? Moser-Ethering rappresenta il tipo di narrazione egoistica necessaria per la conquista coloniale. Le sue storie sono al servizio dell’Impero. Il narratore autentico del libro è Osman, colui che racconta storie private e di nessuno, di coloro che potrebbero entrare nelle narrazioni di Moser-Ethering solo come accessori esotici delle sue avventure. La narrazione ha questo potere: ha un valore neutro, perché tutti gli esseri umani la praticano, è biologicamente necessaria in quanto è la parte cruciale dell’apparato di produzione del linguaggio. Le storie sono unità di conoscenza umana. L’informazione è conoscenza de-narrata. La questione è chi la produce e chi la usa e per cosa. Le storie devono essere immaginate, anche se sono vere – soprattutto se sono vere – per essere decodificate, ma la cosa peculiare è sempre il piacere di raccontare e di percepire le storie. Ci sono studi su, ad esempio, i picchi di serotonina legati al racconto, all’ascolto o alla lettura di storie. Il corpo, la nostra biologia, premia la narrazione, perché ci fa bene, è uno strumento di sopravvivenza. Se penso che la migrazione è un’attività umana fondamentale, ciò che ci ha reso umani e ci mantiene tali, immaginate che valore possa avere la storia per le persone che migrano e che non hanno nulla e potrebbero non tornare mai più nel loro luogo di origine. Tutto ciò che sanno del mondo, del loro passato, di dove potrebbero andare, dell’etica, dell’estetica, della storia, è nella loro mente sotto forma di storie. La narrazione e la migrazione sono inseparabili. Ho una mia formula personale: narrazione uguale migrazione al quadrato. Mentre tutto quello che ho da dire sull’AI è che l’informazione non è conoscenza. La conoscenza deve essere incarnata, deve essere dentro gli esseri umani, in modo che possano portarla con sé quando si muovono nello spazio. Il fatto che l’AI possa fingere di sapere imitando la rappresentazione della conoscenza, avendo imparato il trucco aspirando informazioni da milioni di libri, è spaventoso, perché ingannerà e sostituirà molte persone e la conoscenza nei loro corpi. Ma questo culto dell’informazione a scapito della conoscenza e del corpo è iniziato molto tempo fa. Però basta pensare che una grande tempesta geomagnetica, quando il sole si infiamma, potrebbe spazzare via tutte le informazioni, o almeno danneggiare irreparabilmente i canali di trasmissione. Vedremo allora chi tra noi sarà in grado di migrare e sopravvivere senza GPS.