“Q ualcosa che somiglia alla felicità”: Leonardo Sciascia non sapeva né voleva esprimersi altrimenti, perché quello era, “esattamente definito”, il suo “sentimento di lettore di Soldati”. Iniziare a parlare di Soldati parlando di Sciascia non dovrà sembrare un’incongruenza, se è provato il reciproco affetto (“Voglio molto bene a Mario Soldati; e so che lui me ne vuole”) e, soprattutto, se risulta legittimo accostare l’uno all’altro in virtù di ragionamenti che oltrepassano i casi biografici, l’amicizia e gli incontri: non sono molti gli scrittori “alti” o “seri” che abbiano frequentato o addirittura abbiano invaso il territorio del poliziesco, e non sono in molti ad averlo fatto con il successo e l’efficacia letteraria di Soldati e di Sciascia.
Se Soldati, “quando produce al meglio sfiora sempre il giallo”, come notava Cesare Garboli già nel 1969, ne La stanza separata, quest’altro, Sciascia, persegue la destrutturazione del genere più esplicitamente, programmaticamente, ma in entrambi il fondo del mistero rimanda un suono non cristallino, non di intreccio logicamente e consequenzialmente sciolto, bensì di rintocco sordo, ambiguo, fesso: ha a che vedere con una componente non interamente umana, rimanda a bersagli metafisici e indefiniti, vaghi, problematici, cioè incontra le opzioni religiose degli autori, opzioni non praticate e, tuttavia, ineliminabili. Nel caso di Soldati, l’educazione collegiale, gesuitica, andrà a costituire il muro di gomma contro cui continuerà a rimbalzare il suo laicismo torinese; riguardo a Sciascia, però, è possibile immaginare uno scrittore più anticlericale, dubbioso e volterriano? Eppure, in aggiunta alla costante passione per i cattolici Bernanos e Manzoni, una presenza che acquisterà forza nelle sue letture e nelle sue riflessioni, nel corso degli anni, sarà quella di Pascal, con tutto il suo carico di giansenismo. Soldati e Sciascia, insomma, sembrano avere sì attraversato una larga parte del secolo italiano che abbiamo alle spalle, ma non essendone dei degni rappresentanti, i piedi di entrambi essendo ben piantati altrove: nell’illuminismo e nel sensismo settecenteschi, per non parlare di certi repentini sconfinamenti seicenteschi.
Una questione irrisolta, editorialmente parlando, riguarda il solo Soldati, perché Sciascia ha già trovato una casa confortevole, è affidato alle cure amorevoli di Adelphi, editore per il quale dovrebbe essere in dirittura d’arrivo il terzo e conclusivo elemento delle sue Opere (non complete), cioè il tomo II del volume II. Soldati, semplicemente, conduce un’esistenza letteraria più nomadica: per radunare i suoi titoli, infatti, occorre andare a recuperare qualche vecchio Adelphi, poi rimpiazzato da una sfilza di Oscar Mondadori, molti Sellerio, oltre a qualche altra edizione di editori più piccoli, e di nessun aiuto sono i Meridiani che la stessa Mondadori gli ha dedicato, essendo tutti e tre di composizione antologica, quindi ben lontani dal rappresentare la totalità delle sue pagine. Forse, c’è stato chi ha pensato che Soldati andasse assaggiato e gustato così, a piccoli bocconi, e che non valesse la pena o fosse quasi nocivo esaurirlo con un’opera omnia che avrebbe richiesto numerosi volumi – non stiamo mica parlando di un classico indiscutibile, d’altra parte.
I due incarnano due distinte generazioni, forse le più decisive del secondo Novecento italiano, che al maschile si declinano così: quella di Soldati, la stessa di Leo Longanesi, Dino Buzzati, Vitaliano Brancati, Alberto Moravia, Guido Piovene, Cesare Pavese ed Elio Vittorini, i cui membri nacquero dal 1905 al 1908, assistendo negli anni cruciali del passaggio all’età adulta l’avvento del fascismo, il suo affermarsi e consolidarsi; quella di Sciascia, la stessa di Giuseppe Patroni Griffi, Mario Rigoni Stern, Andrea Zanzotto, Bartolo Cattafi, Antonio Ghirelli, Raffaele La Capria, Giorgio Manganelli, Luigi Meneghello, Pier Paolo Pasolini, Italo Calvino, Angelo Maria Ripellino, Roberto Roversi, Raffaello Baldini e Paolo Volponi, i cui membri nacquero dal 1921 al 1924, assistendo durante la maturità al divampare del secondo conflitto mondiale. (Aggiungere alla prima generazione quantomeno Lalla Romano non aiuterebbe a nascondere il carattere prettamente maschilista delle patrie lettere, a quelle altezze cronologiche.)
Vino al vino non è altro che un capolavoro della letteratura italiana del Novecento, confinato negli scaffali della letteratura di viaggio o in mezzo alle guide enogastronomiche.
Rispetto all’amabile Soldati, Sciascia gode di ben più alta considerazione, e non tanto per i fasti circoscritti de Il giorno della civetta, quanto il corpo a corpo civile che egli ingaggiò con l’intera storia d’Italia, coi suoi ricatti ideologici e le sue storture; il piemontese, da parte sua, risulta a molti nostri contemporanei talmente désengagé da essere avvertito come frivolo, inutile o addirittura sconcio, fiero della propria separatezza dalle questioni socio-politiche che stavano squassando la penisola: strano, per uno che accettò la proposta di candidatura del PSI craxiano a quasi settantasette anni, o non tanto strano, se si pensa che Soldati preferiva confinare la propria fede politica al privato, non lasciando che i suoi lavori ne diventino la traduzione artistica. In ogni caso, il nostro Paese era riuscito a conquistarlo, Soldati, a sedurlo com’è riuscito a pochissimi altri letterati: nei decenni centrali del secolo, soprattutto grazie al sapiente e disinvolto uso del giovane mezzo televisivo, è riuscito a mostrare nei propri vagabondaggi l’Italia a chi la stava abitando, coi suoi costumi sull’orlo dell’estinzione, con quei cibi di antica tradizione che ogni territorio sapeva esprimere.
E coi suoi vini, certo: Bompiani, infatti, ha recentemente dato il via alla ripubblicazione delle opere di Soldati, restituendo alle librerie, tanto per cominciare, proprio Vino al vino. Alla ricerca dei vini genuini e L’attore, un romanzo che l’amico Garboli definiva “il romanzo di partitura più splendida, ma anche di fantasia più stregata e inquietante che Soldati abbia mai scritto”, l’ultimo vero successo letterario dell’autore, Premio Campiello 1970, che seppe aggiungere al giudizio della critica i favori del pubblico. Nella ricca bibliografia di Soldati e restando in ambito puramente narrativo, forse, sono da privilegiare altri titoli, come gli insuperati America primo amore e Le lettere da Capri, oppure la raccolta di racconti La Messa dei villeggianti, o persino il tardo L’avventura in Valtellina, che ritrae i dolori e le gioie, le molte gioie, della vecchiaia di un edonista, cioè dello stesso estensore di quel “diario contemplativo”.
Vino al vino non è altro che un capolavoro della letteratura italiana del Novecento, confinato negli scaffali della letteratura di viaggio o in mezzo alle guide enogastronomiche: il che non è sbagliato, ma non basta. Un reportage, tre viaggi in Italia, attraverso l’Italia, originariamente disposti su tre volumi, compiuti a partire dalla fine degli anni Sessanta e fino alla metà del decennio successivo. Quelli sono gli anni in cui Soldati, nelle pause dei propri spostamenti, andrà ritirandosi, trasferendosi stabilmente a Tellaro e realizzando i suoi ultimi programmi televisivi, e Vino al vino è anche un addio a una certa Italia che andava anch’essa ritraendosi, quasi vergognandosi della propria rozzezza e della propria ingenuità, di fronte all’avanzata della civiltà dei consumi: senza alcun tono oracolare, Soldati maledice l’avvento delle etichette da appiccicare sui vini e canta la scomparsa delle bottiglie genuine, la fine che faranno le molto più note lucciole di cui scriverà, più tardi, Pier Paolo Pasolini. Un particolare, una scintilla da cui scaturisce l’analisi sociale che, tra un bicchiere e l’altro, Soldati andrà esplicitando in centinaia di pagine, come quando già nel 1955 sul numero del Corriere della Sera di domenica 9 giugno, in una novella poi inserita nel 1959 ne La Messa dei villeggianti, scriveva: “Se volete trovarvi bene in Italia” spiego ad amici stranieri,
dovete scoprirla per conto vostro, affidandovi alla vostra fortuna e al vostro istinto, perché una grande legge dell’Italia è proprio questa: che, da noi, tutto ciò che ha un titolo, un nome, una pubblicità, vale in ogni caso molto meno di tutto ciò che è ignoto, nascosto, individuale. Le bottiglie di vino con etichetta sono quasi sempre cattive; le bottiglie senza etichetta e il vino sciolto quasi sempre buoni. Lo so che in Inghilterra alcuni ottimi whisky sono proprio quelli delle marche più note. E così in Francia certi Bordeaux e Bourgogne. Ma, in Francia e in Inghilterra, da secoli e non soltanto per vini e liquori, esiste un ponte tra società e individuo, una civiltà organizzata, una gerarchia del costume. La nostra civiltà non è inferiore, ma diversa. È una civiltà anarchica, scontrosa, ribelle. Da noi, l’uomo di valore, come il vino prelibato, schiva ogni pubblicità: vuole essere scoperto e conosciuto in solitudine, o nella religiosa compagnia di pochi amici.
Popolare, “troppo” popolare Soldati, eppure “anarchico, scontroso, ribelle”, e non integrabile, oggi, in maniera inversamente proporzionale a quanto fu amato, in quegli anni, in un ribaltamento le cui ragioni sono in parte inesplorate, in parte incomprese, in parte rimosse.
“La dualità tra il vivere e il vedersi vivere, lo sdoppiamento, il conflitto, l’alternativa che Pirandello pone – “la vita o la si vive o la si scrive” – per Soldati si può dire che non esista”: Sciascia, ancora, al quale si deve questa che è una delle osservazioni critiche più penetranti, forse quella che vivifica tutti i motivi della nostra lontananza da Soldati, uno dei rarissimi scrittori della nostra tradizione ad avere mantenuto “naturalmente” una certa distanza di sicurezza dalla potente molla creativa del risentimento, stato d’animo dal quale non c’è una sua riga che sia stata prodotta o sfiorata. Perché scrive, uno così? Non per socializzare i propri tormenti, ma piuttosto per la necessità di far fuoriuscire da sé un po’ di quel “qualcosa che somiglia alla felicità”, ogni qual volta esso raggiunga i livelli di guardia e trabocchi, dando luogo al sentimento panico del benessere, così come al mistero del benessere: difficile, perciò, che il suo nome possa accedere alle aule scolastiche o spingere i critici alla glossa, alla discussione colta o semi-colta.
Uno scrittore che non lancia accuse, apparentemente (e accademicamente) poco problematico, che invoglia al silenzio, alla nostalgia immediata delle pagine che abbiamo appena chiuso e di un tono che non capiterà facilmente d’incontrare di nuovo, affabile, divertito e misericordioso verso i propri personaggi, oltre che verso il proprio lettore. “Il ruolo di uno scrittore è quello di suscitare nel lettore simpatia verso quegli esseri che ufficialmente non hanno diritto alla simpatia”: Graham Greene pensava e definiva così la propria missione artistica, e non è un caso che quella con lo spy writer britannico, spesso ospite nella villa sul Golfo dei Poeti, sia stata una delle più intense amicizie di Soldati.
Il fatto è che prendere Soldati come cartina di tornasole, assumerlo a esempio di un atteggiamento raro nel nostro panorama letterario, costringe a una brutta figura, a una figura quasi patologica tanta parte della narrativa contemporanea: se è lecito individuare una sorta di tendenza ossessivo-compulsiva in quegli scrittori che non hanno alcuna intenzione di mollare la presa sul lettore e che si esplica in un avanguardismo residuale, innalzato sulla massa informe del pubblico da rieducare alla correttezza politica e sociale, Soldati, invece, sembra non voler convincere nessuno e bastare a sé stesso, stare piuttosto bene al mondo e non invitare alla condivisione, alla citazione, al commento, ma alla lettura in solitudine. Non è senza rischio, quindi, l’operazione editoriale di Bompiani: buona fortuna all’editore e al lettore che oserà essere un po’ inattuale, e che saprà goderne.