S crittore molto prolifico, con all’attivo romanzi, racconti, poesie, saggi, opere teatrali e persino un fumetto, Dino Buzzati è uno dei più grandi geni minori – almeno per quanto riguarda il riconoscimento critico mainstream – della letteratura italiana.
All’interno di uno dei più autorevoli manuali universitari sull’argomento, Letteratura italiana contemporanea di Giulio Ferroni, che copre uno spettro temporale che va dal 1945 al 2014, Dino Buzzati non è menzionato (indice alla mano) neppure una volta. Vero è che Il deserto dei tartari esce nel 1940 (altrettanto vero è che viene ristampato esattamente nel 1945), ma altre tra le più significative opere dello scrittore bellunese sono di molto posteriori a questa data: il romanzo sperimentale Un amore è del 1963; la raccolta dei Sessanta racconti, forse il massimo capolavoro di Buzzati e uno dei capolavori della letteratura italiana novecentesca, insignito del premio Strega, è del 1958; e così via.
Il manuale di letteratura italiana per le scuole superiori Baldi-Giusso non dedica allo scrittore bellunese alcuna scheda monografica, limitandosi ad accordargli un paio di pagine, le stesse che occupa Alberto Moravia, scrittore che – per riprendere il caustico giudizio dell’immaginario personaggio Learco Pignagnoli – si limitava a mettere insieme “chili di carta”.
Sebbene alcuni infaticabili critici (Nella Giannetto) e curatori (su tutti Lorenzo Viganò, vero e proprio filologo buzzatiano) ne abbiano studiato e ne studino da anni le opere e la vicenda biografica con il fondamentale supporto della compianta vedova Almerina – qui un commovente saluto di Viganò sul Corriere della sera, quotidiano col quale Buzzati collaborò fino a che ne ebbe le forze – l’impressione è che Buzzati non abbia ancora lo spazio che merita all’interno dei manuali divulgativi e ciò è tanto più grave se si pensa che un ragazzo che alle scuole superiori si imbattesse in Buzzati potrebbe rimanerne folgorato.
Buzzati, nonostante fosse un uomo piuttosto defilato, dovette soffrire molto a causa di questa sottoesposizione. Come dichiarerà rassegnatamente allo psicanalista francese Yves Panafieu nel libro-confessione Un autoritratto (un prezioso volume purtroppo fuori commercio, fondamentale per cogliere alcuni tratti sintomatici della sua personalità), allora – era il 1971 – il più influente dei critici aveva molta più importanza del più bravo degli scrittori.
Le ragioni dell’oblio in cui la critica ha fatto sprofondare Dino Buzzati sono da ricercarsi nel suo antisperimentalismo stilistico (la sua prosa è lineare, piana, dal piglio tipicamente giornalistico, con la notabile eccezione del romanzo Un amore), nel suo essere e voler essere considerato “un borghese tipico” negli anni in cui Moravia si definiva “borghese antiborghese” (nel 1968 Buzzati pubblicherà un dramma teatrale dai toni sottilmente conservatori, La fine del borghese, incentrato sul sentimento di smarrimento connesso alla minaccia degli espropri comunisti) e, più in generale, nel suo esser stato uno scrittore depoliticizzato in un periodo storico in cui era centrale nel dibattito culturale la figura dell’intellettuale engagé – magari anche collaboratore delle riviste letterarie più in vista, da Solaria (1926-1936) a Letteratura (1937-1968).
Forse, però, prima ancora che per tutti questi motivi, l’opera di Dino Buzzati occupa un ruolo espositivo marginale a causa di un equivoco concettuale (equivoco è una parola che tornerà nell’arco di questa analisi) che perdura anche ai nostri giorni, e cioè l’accezione negativa che si continua ad attribuire al termine escapismo; e si tratta di un equivoco non da poco, dal quale discende, a spina di pesce, tutta una serie di conseguenze nefaste, prima fra tutte il marchio d’infamia della letteratura di genere, tuttora considerata minore, bassa perché d’intrattenimento (nel migliore dei casi) e di conseguenza indegna di mescolarsi con la letteratura alta, dalla quale dev’essere separata fisicamente nelle librerie. Come scrive Elemire Zolla nella sua celebre prefazione al Signore degli anelli:
Avvenne a Tolkien in un saggio sulla fiaba (Tree and Leaf, 1964) di replicare che, certo, una fiaba è un’evasione dal carcere e aggiunse: chi getta come un’accusa questa che dovrebbe essere una lode commette un errore forse insincero, accomunando la santa fuga del prigioniero con la diserzione del guerriero, dando per scontato che tutti dovrebbero militare a favore della propria degradazione a fenomeni sociali. “Non si possono ignorare le realtà presenti, impellenti, inesorabili!”, dicono ancora i custodi della degradazione. Realtà transitorie, corregge Tolkien. Le fiabe parlano di cose permanenti: non di lampadine elettriche, ma di fulmine.
Dietro la giocosità di toni e dentro la vivacità di colori che infiocchettano la scrittura di Dino Buzzati si cela un’operazione vagamente gaddiana di carnevalizzazione del dolore. L’apparente nitore della scrittura (e ciò è evidente nei Sessanta racconti) nasconde una fittissima rete di allegorie e metafore tesa a sublimare fisime e fantasmi, a stenderli sulla carta in forma fantastica per rimpicciolirli a portata di bambino e poterli così affrontare, adornarli di festoni per renderli meno spaventosi. Il tema dei temi affrontato dallo scrittore bellunese è quello del tempo e del suo ardore distruttivo. Come in Un autoritratto: “la cosa che più mi ossessiona (…) è il tempo che passa, e che divora… L’uomo non è mai pari al tempo: in questo senso poi arrivano sempre le delusioni. Il tempo precipita su di lui con una velocità che l’uomo non può ottenere per quanto sia attivo ed intraprendente e forte e inesauribile”.
Sgombrato il campo dalla fuorviante immagine di un Buzzati innocuo favolista, è possibile adesso addentrarsi nel mare magnum della sua opera alla ricerca dei suoi nuclei tematici principali. Grande appassionato di Peter Rackham, le cui illustrazioni ammirava incantato sin da bambino, l’avventura letteraria di Buzzati è minata ab origine da un equivoco (eccolo di nuovo) la cui eco si è riverberata su tutte le sue opere:
Il fatto è questo: io mi trovo vittima di un crudele equivoco. Sono un pittore il quale, per hobby, durante un periodo purtroppo alquanto prolungato, ha fatto anche lo scrittore e il giornalista. Ma dipingere e scrivere per me sono in fondo la stessa cosa. Che dipinga o che scriva, io perseguo il medesimo scopo, che è quello di raccontare delle storie.
Una curiosità non irrilevante: secondo alcuni, il suo Poema a fumetti (1969, quattro anni dopo Apocalittici ed integrati di Umberto Eco), una riscrittura attualizzata del mito di Orfeo ed Euridice, è il primo graphic novel della storia. E in effetti la personalità di Buzzati è tutto meno che pacificata, come peraltro dimostra anche il suo atteggiamento ambivalente nei confronti di quella borghesia di cui si fregiava di far parte; borghesia alla cui appartenenza lo scrittore doveva una sicurezza economica aristotelicamente individuata come prius di ogni benessere intellettuale, ma borghesia allo stesso tempo foriera di aridità interiore, di occlusione del foro interno; calato all’interno della classe sociale dominante del secolo scorso come un ambitious outsider, Buzzati era un Flaubert con la pietas di Flaiano ma privo del cinismo di quest’ultimo, e proprio come il grande realista francese il suo intento era quello di scovare il poeta che si agita irrequieto sul fondo del notaio, un’operazione che la definizione di “realismo magico” rischia di mettere in ombra.
Più efficace sembra allora quella di “realismo stregato”, utilizzata da Tommaso Pincio in riferimento ai racconti di un’altra figura alla cui opera è stato dato lustro in Italia solo recentemente, e cioè John Cheever, le cui incursioni nel fantastico, seppure meno frequenti e anzi appena accennate, avevano – in piccolo – la stessa funzione che hanno in Buzzati, ovvero il creare un contraltare tra la grigia vita alienante dell’impiegato nella Milano degli anni Quaranta/Cinquanta/Sessanta e un mondo fiabesco, possibile e raggiungibile attraverso la fanciullezza.
È una definizione che ben si adatta anche a Dino Buzzati, la cui magia conserva sul fondo sempre un po’ di decadenza e putredine, e se di magia si tratta non possiamo escludere che si tratti di magia nera. È appunto il termine “stregato” che Buzzati utilizza per indicare “Giuseppe Gaspari, commerciante in cereali, di 44 anni” (sono le prime sette parole del racconto, una carta di identità rispettabile e piccolo borghese), protagonista del racconto Il borghese stregato, che si reca in villeggiatura in un paese di montagna con sua moglie e le sue bambine:
Aveva sperato che il posto fosse in una romantica valle con boschi di pini e di larici, recinta da grandi pareti. Era invece una valle di prealpi, chiusa da cime tozze, a panettone, che parevano desolate e torve.
La montagna innesca in Giuseppe la repentina presa di coscienza dell’aridità spirituale alla quale lo ha condotto la tranquillità della sua vita.
E con amarezza considerava come tutta la sua vita fosse stata così: niente in fondo gli era mancato ma ogni cosa sempre inferiore al desiderio, una via di mezzo che spegneva il bisogno, mai gli aveva dato piena gioia.
Sulla scia di questi pensieri, seguiti come un profumo, Giuseppe decide di addentrarsi all’interno della valle montuosa; ed è qui che incontra “cinque ragazzetti [che] stavano confabulando. Seminudi e con strani berretti, fasce, cinture, a simulare vesti esotiche o piratesche”. I bambini, capisce Giuseppe, stanno giocando alla guerra – ed è a questo punto che il confine tra realtà e fantasia si assottiglia fino a scomparire. I bambini si travestono da pirati e Giuseppe si traveste da bambini.
Una ridicola cosa venne allora in mente a Giuseppe. Balzò giù per il valloncello e, affondando i piedi nelle ghiaie sotto di lui frananti, discese a salti verso i ragazzi; i quali si alzarono in piedi. Ma lui disse loro: “Mi volete con voi? Porterò la tavola, per voi è troppo pesante.”
Liberatosi delle sovrastrutture che lo avvolgono come panni troppo stretti, Giuseppe riuscirà – attraverso un vero e proprio romanzo di formazione invertito di segno, che lo conduce al riacquisto dell’innocenza perduta – a recuperare la sua sanguinosa infanzia al prezzo della sua vita da adulto, la quale gli cadrà di dosso come vecchia pelle di serpente. Non c’è conciliazione possibile tra la borghesia e l’infanzia, sembra dire Buzzati, perché la prima è la cancellazione della seconda, è la libertà – parafrasando Flaiano – di non essere più bambini.
Ritornò all’albergo che già scendeva la sera. Era sfinito. E si lasciò andare su una panchina, di fianco alla porta di ingresso. Gente entrava ed usciva, qualcuno lo salutò, altri non lo riconobbero perché era già scuro. Ma lui non badava alla gente, chiuso intensamente in sé stesso. E nessuno di quanti passavano si accorgeva che nel mezzo del petto egli portava confitta una freccia. (…) Dunque l’ora di Giuseppe Gaspari era giunta, con poetica magnificenza; e crudele. Probabilmente – egli pensò – gli toccava morire. Eppure che vendetta contro la vita, la gente, i discorsi, le facce, mediocri, che l’avevano sempre contornato. Che stupenda vendetta. Oh, lui adesso non tornava certo dal valloncello domestico a pochi minuti dall’albergo Corona. Bensì tornava da remotissima terra, sottratta alle irriverenze umane, regno di sortilegi, pura; e per arrivarci gli altri (non lui) avevano bisogno di attraversare gli oceani e poi avanzare lungo tratto per le inospitali solitudini, contro la natura nemica e le debolezze dell’uomo; e poi non era ancora detto che sarebbero giunti. Mentre lui invece… (…) Egli era entrato nel mondo non più suo delle favole, oltre il confine che a una certa stagione della vita non si può impunemente tentare. Aveva detto a una segreta porta apriti, credendo quasi di scherzare, ma la porta si era aperta veramente. Aveva detto selvaggi e così era stato. Freccia, per gioco, e vera freccia lo faceva morire. (…) La testa pendeva sul petto, come si conveniva alla morte, e le raggelate labbra continuavano a sorridere un poco, significando disprezzo, ti ho vinto miserabile mondo, non mi hai saputo tenere.
È molto significativo che l’epopea fantastica del protagonista inizi sotto il segno della montagna, perché ciò fornisce un ulteriore indizio per identificare in Giuseppe Gaspari un alter-ego dell’autore stesso; Buzzati, in effetti, era un infaticabile alpinista e nelle sue adorate Dolomiti (“Sono pietre o sono nuvole? sono vere oppure è un sogno?”) trovava catarsi e rifugio da un’esistenza milanese percepita come alienante e opprimente. Un altro tema che è possibile enucleare all’interno all’interno dei Sessanta racconti, una vera e propria composizione puntinista che raccoglie tutto il miglior Buzzati, è quello degli amori finiti e dei conseguenti postumi emotivi che sono il loro lascito più doloroso. Gli esempi più significativi a questo proposito sono i racconti Inviti superflui e Le precauzioni inutili. È, questo, il Buzzati che avrebbe avuto solo un consiglio da dare ad un aspirante scrittore che si fosse presentato alla sua porta: “se puoi, racconta delle cose che mi facciano piangere”.
Inviti superflui è una lettera immaginaria rivolta ad un’amante perduta. In sole quattro pagine, Buzzati è in grado di sintetizzare perfettamente tutta una letteratura dalle nobili origini, quella dell’amore unilaterale non sempre corrisposto, che nella seconda metà del secolo ha trovato in Ann Beattie e Nick Hornby i suoi interpreti più significativi: “Io sono ormai uscito da te, confuso fra le innumerevoli ombre. Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose”. Le precauzioni inutili è invece un racconto-matrioska che fa da cornice a tre mini-racconti intessuti nella sua intelaiatura; nello specifico, il raccontino Contro l’amore narra la storia di Irene, una ragazza appena uscita da una relazione che tenta di ergere attorno a sé una barriera contro i ricordi, tentando di tappare ogni cunicolo perché questi non riaffiorino inaspettatamente:
Distruggere tutto ciò che di lui restava nelle sue mani, fosse puro uno spillo, bruciare le lettere e le foto, buttare via i vestiti indossati quando c’era lui, sui quali forse gli sguardi suoi avevano lasciato una traccia impalpabile, sbarazzarsi dei libri che anch’egli aveva letto e la cui comune conoscenza stabiliva una complicità segreta… cambiare perfino casa perché al bordo di quel camino lui una sera si era appoggiato con un gomito, perché un mattino quella porta si aperta, e dietro era apparso lui, perché il campanello della porta continuava a dare lo stesso suono di quando lui veniva, e in ogni stanza le sembrava così di riconoscere una sua misteriosa impronta (…) per mesi e mesi l’amore, questa strana condanna, aveva finto di dormire, lasciando che Irene s’illudesse. Ma da una vicina di casa viene una breve onda di suono. (…) È bastato. Sei sette note, non di più, la sigla di un vecchio motivo, la sua canzone. Su coraggiosa Irene, non perderti per così poco, corri al lavoro, non fermarti, ridi! Ma un vuoto orrendo le si è già formato entro nel petto, ha già scavato una voragine. Ora una inezia è stata sufficiente a scatenarlo. Fuori passano le macchine, la gente vive, nessuno sa di una donna che, abbandonata sul pavimento a ridosso della porta di casa come una bambina castigata, sciupandosi il bel vestito nuovo, perdutamente piange. Lui è lontano, non tornerà mai più, e tutto è stato inutile.
Lo stesso tema, sebbene affrontato attraverso l’utilizzo di tinte decisamente più plumbee e claustrofobiche e giungendo a ben diversi esiti, affiora dal romanzo programmaticamente intitolato Un amore, sicuramente il più sperimentale dell’autore lombardo e non soltanto perché alcuni capitoli sono narrati sottoforma di flusso di coscienza joyciano, ma soprattutto perché si tratta di una sorta di dolorosa autoanalisi, di una critica che Buzzati, incapace di superare la reprimenda di classe che impedisce al suo – dichiarato – alterego Antonio di palesare la relazione con la prostituita Laide, rivolge nei confronti del suo senso del pudore. Antonio, un architetto milanese, non potrebbe palesare il suo amore per Laide senza compromettersi: “un borghese, sei, ecco la questione, schifosamente borghese, con la testa piena di pregiudizi borghesi orgoglioso della tua rispettabilità borghese. Cosa vuoi che ne facesse la Laide della tua rispettabilità borghese? E tu che cos’eri per lei? (…) Semplicemente te ne eri ammalato”.
L’amore emerge come una malattia individuale, perché Antonio è febbrilmente ossessionato da Laide al punto da non poter fare niente che non sia dedicarsi al pensiero di lei, e al contempo sociale, perché alla libera realizzazione dello stesso , al lieto fine, si oppongono le già rimarcate differenze di classe tra i protagonisti.
Il deserto dei tartari è il romanzo più famoso e forse meno significativo di Buzzati, che ha pesato sulla sua fortuna come una sorta di stigma a causa del quale egli è stato per tantissimi anni considerato un epigono di Kafka; l’opera, dalla costruzione narrativa estremamente scarna, si colloca a metà tra Aspettando Godot e Il Processo, ed è incentrato attorno a un’assenza, quella dei tartari, di cui si attende la venuta alla Fortezza Bastiani, un avamposto militare che tenta invano di arrestare lo scorrere del tempo. Effettivamente, se in Kafka il significante rimanda sempre a qualcosa d’altro, un “altro” tuttora oggetto di discussione critica al fine di significarlo ora in questo ora in quest’altro modo, la stessa caratteristica si profila evidentemente anche nel Deserto dei tartari; ma, a differenza di Kafka, Buzzati colora la narrazione di notazioni personali, di slanci lirici sofferti e sinceri che stemperano il registro oggettivante e senza squarci dello scrittore praghese, e proprio questi slanci e notazioni costituiscono i veri punti di forza della sua opera, e da sole varrebbero ad assegnare allo scrittore lombardo un ruolo di primo piano all’interno del panorama letterario italiano ed europeo. Il climax emotivo del libro è probabilmente la morte per assideramento di un personaggio secondario, il tenente Angustina:
Come il vento ebbe una pausa, Angustina rialzò di qualche centimetro il capo, mosse adagio la bocca per parlare, gli uscirono soltanto queste due parole: “Bisognerebbe domani…” e dopo più nulla. (…) “Che cosa volevi dire, Angustina? Che cosa domani?” Il capitano Monti, uscito finalmente dal suo riparo, scuote con forza per le spalle il tenente per fargli riprendere vita; ma non riesce che a scomporre le nobili pieghe del militaresco sudario, ed è un peccato. Nessuno dei soldati si è ancora accorto di quanto è successo. Imprecando il Monti, gli risponde solo, dal precipizio nero, la voce del vento. “Che cosa volevi dire, Angustina? Te ne sei andato senza terminare la frase; forse era una cosa stupida e qualunque, forse un’assurda speranza, forse anche niente”.