P robabilmente lo avrete sentito citare un sacco di volte, e se invece non vi ci siete mai imbattuti un po’ vi invidio, perché la sensazione di serendipità che ne consegue è garantita:
Quando si svegliò, il dinosauro era ancora lì.
È il racconto più breve mai scritto in lingua spagnola, e magari non lo sapete ma è Augusto Monterroso, detto Tito, il creatore di questo capolavoro di condensazione linguistica e letteraria. Avverbio, verbo, poi il soggetto; e ancora, verbo e avverbio. Il soggetto che riprende il titolo (il racconto si chiama “Il dinosauro”). La disposizione delle pagine, con due bianche intere tra il titolo e il racconto, e tra il racconto e il successivo. Per non parlare del dubbio che si dipana da quella frase: chi è che si è svegliato? Quando è questo quando? E lì dove?
A una settimana esatta dalla ricorrenza del ventennale della sua scomparsa, senza saperlo, ho comprato La parola magica, pubblicato da Occam: un’edizione molto curata, in cui traspira tutto ciò che Augusto Monterroso era senza che ce ne fossimo accorti. Maestro della satira, fine umorista, e non solo pantocratore della brevità e dell’ingegnosità letteraria.
Guatemalteco per scelta, come amava definirsi, lui che era nato in Honduras da genitori messicani, Tito è stato – rubo una bella descrizione di Saul Yurkievich – “il caffè espresso della prosa letteraria”: per concentrazione di sapori, e per l’effetto ansiogeno, forse. Ha iniziato a pubblicare tardi, Monterroso, e non si è mai troppo preso sul serio: né se stesso, né il suo ruolo di letterato. Però aveva una magistrale inclinazione al “sequestro momentaneo del lettore”, quella caratteristica di cui – come scrive Cortázar nel suo “Alcuni aspetti del racconto” – solo i grandissimi autori di racconti brevi hanno contezza. Quella capacità di incentrare il focus dell’oggetto letterario sull’intensità, sull’originalità, sulla capacità di cristallizzarsi in una particella di sempiterno.
La sua scrittura era sperimentazione formale e verbale: un ibrido che che richiede al lettore uno sforzo per completare e ricreare il testo, un gesto d’amore.
Amava passeggiare ai margini, lambire le bave del diavolo della letteratura. Per questo aveva scelto le due forme d’espressione più simili alla poesia: il racconto breve, e il saggio. Non solo per la concisione che impongono, ma per il loro essere di per sé forme residuali di letteratura, mai schiave del genere, in cui a contare è soprattutto la lingua: “Siamo come Ginesio di Passamonte”, scrive in “Piangere sulle rive del Río Mapocho”, “gente dai tanti mestieri […] e a volte siamo prigionieri e altre ancora andiamo in giro con una scimmia indovina o una testa parlante, e nel frattempo scriviamo meglio che possiamo”. Definiva il racconto breve inasible, sfuggevole, infiorescenza del mito, delle favole, di proverbi: in definitiva, qualcosa di profondamente latinoamericano, creolo. Guerrigliera rivoluzionaria in missione contro il totalitarismo retorico, la sua scrittura era sperimentazione formale e verbale: il risultato un ibrido che trascende la semplice economia linguistica, la capacità di insinuazione, l’ellissi, ma si fa esercizio che richiede al lettore uno sforzo per completare e ricreare il testo, un gesto d’amore. Quello che in “Del circostanziale o dell’effimero” si dice del rapporto tra due persone che si amano è vero anche del rapporto tra scrittore e lettore:
le cose, a forza di essere prevedibili, finiscono per perdere interesse, giacché dopo un po’ di tempo di vita in comune ci si conosce talmente a fondo che quando uno pensa a una cosa qualsiasi, l’altro in linea di massima sta pensando a quella stessa cosa, e capita anche che la si dica perfino in simultanea e sempre con lo stupore di entrambi: ma che strano, stavo pensando alla stessa cosa; e poi, senza davvero sapere come, finiscono per credere, anzi per convincersi, che questo vuol dire amarsi, e ne parlano e sviscerano la questione con entusiasmo e addirittura, qualche minuto dopo, ognuno per conto proprio, continuano a pensare che effettivamente è così, che quello significa amarsi.
La letteratura come movimento perpetuo: “La vita non è un saggio, per quanto tratti di molte cose; non è un racconto, per quanto inventiamo molte cose; non è una poesia, per quanto sogniamo molte cose. Il saggio del racconto della poesia della vita è un movimento perpetuo”.
La scrittura di Monterroso è tanto centripeta – come ne “Il dinosauro” –, accortacciata su se stessa, massimamente resiliente, quanto centrifuga: rincorre suggestioni, spiegazioni, ispirazioni, senza però mai perdere uno spirito disincantato. I suoi racconti sono frattali che si irradiano, i suoi saggi un arcipelago, nel quale ci si può imbarcare sulla crociera dell’arte della scrittura, e della caducità della condizione umana. Nel saggio “Le morti di Horacio Quiroga”, dopo aver passato in rassegna l’atmosfera mortifera di tutta la sua vita, i decessi più o meno tragici ma sempre profondamente reali che ne hanno segnato l’esistenza, e in qualche modo la scrittura, Monterroso riesce a essere profondo e allo stesso tempo a sdrammatizzare: “Ma bisognerebbe tenere presente che Horacio Quiroga volle dare, e diede, consigli o regole, peraltro buonissime, sul modo migliore di scrivere racconti, non di vivere la vita”. Anche perché “per quanto immortali arrivino a essere, è evidente che gli scrittori, gli artisti e, a guardar bene, le persone in generale, muoiono”.
Pur non essendo minimalista, amava le cose minuscole, piccole, inafferrabili. Come le mosche. “In principio fu la mosca”. E ancora: “Ci sono tre temi nella vita: l’amore, la morte, le mosche”. Oppure: “Guarda la mosca. Osserva. Pensa”. Con i suoi movimenti, la mosca disegna una traiettoria che si può paragonare al movimento browniano, cioè il movimento caotico di una particella in un liquido, causato dagli scontri aleatori delle molecole del liquido sulle particelle. Non è improbabile, però, che i movimenti browniani, caotici della mosca, che a prima vista disegnano figure senza senso, corrispondano a certe figure logiche che si ripetono, in un certo ordine, lungo una traiettoria che un suo senso nascosto, alla fine della fiera, ce l’ha. In “Poesia Quechua”, dopo essersela presa con la situazione per cui “tra la gente che vede un’opera d’arte autoctona o, come negli ultimi tempi, che legge in spagnolo una determinata poesia indigena preispanica, non manca chi è incline a meravigliarsi forse un po’ più del dovuto e ad attribuire a tali lavori un merito che sicuramente non hanno: quello di essere stati fatti o scritti da esseri inferiori agli uomini”, cita, appunto, una poesia quechua che parla, appunto, indovina un po’?, di una mosca:
Una mosca io allevo
con ali d’oro una mosca
io allevo con occhi
accesi una mosca.
E nottuabonda ferisce
mortalmente astrale
con quel rosso splendore
con quel fuoco d’occhi.
Che vallo poi a capire se la poesia è davvero di un anonimo quechua, o magari sua: uno dei suoi vezzi stilistici – dall’alto di una stupefacente versatilità – è proprio quello di minare le nostre certezze, farci vacillare di fronte al carattere plausibilmente apocrifo di una citazione, tanto da farci perdere ogni appiglio fiduciario, da lasciarci intontiti e spiazzati dalla fusione tra vero e falso, parodia e racconto.
Monterroso era un erudito, appassionato di Cervantes, di Quevedo, di Calvino, di Shakespeare: traduttore per destino inevitabile più che per vocazione.
Gli insetti in Monterroso sono la perfetta metafora dell’infallibile ingegno e della complessità della natura nelle sue riproduzioni in scala: la sua scrittura è essa stessa una pulce, che ti si installa dietro l’orecchio e si fa portavoce di sospetti, perplessità, incertezze. (Il suo miglior tributo a un insetto, però, resta quel racconto intitolato “Il bagarozzo sognante”, che dice “C’era una volta un bagarozzo di nome Gregorio Samsa che sognò di essere un bagarozzo di nome Franz Kafka che sognava di essere uno scrittore che scriveva di un impiegato di nome Gregorio Samsa che sognava di essere un bagarozzo”).
Monterroso era un erudito, appassionato di Cervantes, di Quevedo, di Calvino, di Shakespeare: traduttore per destino inevitabile più che per vocazione, perché “tradurre può essere molto facile, molto difficile o impossibile, a seconda di quello che ti prefiggi e del tempo e della fame che hai: e nasci o, se te lo concedi, diventi traduttore e ti innamori dell’idea che ciò ti servirà per il mestiere di scrittore, e senza rendertene conto puoi anche arrivare al punto di non sapere più se le frasi che hai reso in modo perfetto siano tue, o di qualcun altro”, ma anche, in fin dei conti, fedele a un principio di autoindulgenza:
da quando per la prima volta ho provato a tradurre qualcosa, mi sono convinto che se c’è qualcuno con cui essere pazienti e comprensivi è proprio con i traduttori, soggetti in linea di massima piuttosto malinconici e pieni di dubbi.
Ma era anche, soprattutto, un erudito profondamente acribioso, impegnato – come amava dire – a “mettere le virgole al loro posto”: il risultato è una prosa impeccabile nel vero senso del termine, ispirata da un rigore ineccepibile. Nella sua scrittura resta solo il rimanente del rimanente, il necessario. Un battito di palpebre, il flash di una polaroid che immortala il momento perfetto, un dialogo sul filobus solo intercettato eppure estremamente chiaro: qualcosa a cui approcciarsi, come suggerisce in “Avvicinarsi alle favole”, “con precauzione, come a tutte le cose piccole. Ma senza paura”. E che non rimane, non può rimanere estamporaneo, perché “l’illuminazione istantanea che non evoca precedenti, né stabilisce prolungamenti, equivale all’intermittenza della nostra visione del vivere come presenza”.
“Dell’erudizione”, scrive Monterroso, in un riflesso di specchi con il celebre sillogismo cortazariano “Lo que me gusta de tu cuerpo es el sexo, lo que me gusta de tu sexo es la boca, lo que me gusta de tu boca es la lengua, lo que me gusta de tu lengua es la palabra”, “quello che più mi attrae è il gioco”: la sua erudizione era di tipo ludico, disincantato, lontana dall’ampollosità e dalla boria. Palindromi, labirinti strutturali, giochi di parole, e poi l’ironia, grimaldello che non afferma verità ma insidia nozioni, convenzioni, credenze. Un’ironia lieve ma al contempo corrosiva, che scivola e si sprimaccia in un’aura di allegria triste, à la Fontanarrosa, e che lo stesso Monterroso definisce “il realismo portato alle sue conseguenze estreme”. L’ironia di Monterroso è lo strumento primordiale per la comprensione dei difetti che viziano l’umanità, ma anche un apparato difensivo a cui si fa ricorso per non soccombere di fronte a un universo irrazionale e totalmente disumanizzato, in cui la nozione di verità è ormai spogliata del suo valore assoluto, ammesso che ne abbia mai avuto uno.
Nei suoi ritratti taglienti, giocosi come le Storie di cronopios e famas cortazariane, caustici ed essenziali come i racconti del Galeano del Libro degli abbracci, c’è tutta la cifra stilistica di Monterroso:
Le pagine devono essere solo alcune soltanto, perché ci sono poche cose che scadono facilmente come un racconto. Dieci righe di troppo e il racconto si impoverisce; altrettante di meno, e il racconto si trasforma in aneddoto, e non c’è niente di più odioso che gli aneddoti troppo palesi. […] La verità è che nessuno sa come dovrebbe essere un racconto, e lo scrittore che lo sa è un pessimo scrittore di racconti, e già al secondo racconto lo si nota che crede di saperlo, e allora tutto suona falso e noioso e un imbroglio. Bisogna essere molto saggi per non lasciarsi tentare dalla saccenza, dalla sicurezza.
E se quel dinosauro del racconto famoso fossimo noi, che ogni volta che apriamo gli occhi, e ci svegliamo, realizziamo di essere ancora inevitabilmente schiavi dei pregiudizi, inchiodati alla pachidermica impossibilità di incasellare questi oggetti narrativi ibridi?
Per leggere Augusto Monterroso bisogna sapersi abbandonare al suo entusiasmo verbale, all’entropia della scrittura, che non è mero sfoggio di erudizione ma abbraccio ecumenico a un universo finzionale fatto di frammenti di quotidianità, in quanto tali ludici e rivoltosi al contempo. Per leggere Monterroso bisogna farsi ronda degli stereotipi. Che in fin dei conti, ammettiamolo, è pure divertente, quel tipo di divertimento che sa darci solo lo scoprirci nudi, indifesi, schiavi delle nostre convinzioni.