F in dal suo primo ciclo di romanzi, incentrato su Neal Carey, insolita figura di giovane ladro convertitosi in investigatore privato, Don Winslow ha saputo costruire una formula personalissima, che gli ha consentito di ricavarsi uno spazio unico alla confluenza tra la narrativa di genere e l’analisi storico-sociale, l’intrattenimento di qualità e la tranche de vie di stampo naturalista. Una carriera, la sua, contraddistinta da una crescita costante in qualità e forza, ma che ha stentato a tradursi in un pieno successo di pubblico. Probabile che a determinare una relativa marginalità all’interno della narrativa di genere abbia contribuito da un lato l’abbandono di quella formula seriale incentrata su un unico personaggio che ha fatto la fortuna, per esempio, di Michael Connelly o Jeffery Deaver, e alla quale Winslow ha rinunciato ben presto, accantonando senza rimpianti la “palestra” offertagli da Neal Carey, e dall’altro una crescente attenzione alla lingua e allo stile, che ha indotto la stessa editoria americana – sempre molto attenta alla compartimentazione del mercato – a collocarlo nell’insidiosa categoria intermedia del literary thriller.
Punteggiata da autentici capolavori come L’inverno di Frankie Machine e La lingua del fuoco, la carriera di Winslow ha senza dubbio raggiunto il suo apice nella cosiddetta Trilogia del confine: tre poderosi romanzi pubblicati rispettivamente nel 2005 (Il potere del cane), nel 2015 (Il cartello) e nel 2019 (Il confine). In tutto, un colossale meccanismo narrativo di quasi tremila pagine, nel quale viene raccontata la guerra alla droga tra Stati Uniti e Messico, dal 1974 (l’anno in cui Nixon tiene a battesimo la dea) e il 2016 (con l’elezione come presidente John Dennison, imprenditore e star televisiva dietro il quale – senza troppi infingimenti – è facile scorgere Donald Trump). Un progetto, soprattutto, i cui esiti rendono impossibile stabilire se lo sforzo maggiore, per Winslow, sia consistito nel formidabile lavoro di documentazione – degno in tutto e per tutto dei grandi romanzi naturalisti o della letteratura di denuncia degli anni Trenta americani – o nell’abilità con la quale regola il susseguirsi di guerre più o meno clandestine e il continuo riconfigurarsi delle organizzazioni criminali.
Se si dovessero elencare o sintetizzare gli ingredienti della formula Winslow, gli elementi che ne garantiscono l’originalità, non si potrebbe però non partire dall’impeccabile costruzione dei personaggi – protagonisti e comparse – che rientrano sempre in categorie riconoscibili senza tuttavia mai sprofondare nel cliché. E che hanno tutti tratti così originali e ben marcati da consentire all’autore di “tenerli a riposo” per centinaia di pagine, con la certezza che, all’atto di ricomparire, il lettore si ricorderà perfettamente di loro: una certezza che, tra i grandi romanzieri contemporanei, forse il solo Stephen King è in grado di coltivare senza apparire presuntuoso. A questa qualità preziosa e unica si accompagna il ritmo infallibile di una narrazione che alterna grandi panoramiche sul mondo criminale e sulle sue leggi, scene d’azione mozzafiato e momenti di routine spesso rivelatori. O ancora, la capacità, anche questa senza eguali, di sussumere e rielaborare l’intera tradizione del poliziesco americano, offrendone una versione che sa essere nuova e inventiva senza però ricorrere alle rivoluzioni o alle deliberate distorsioni di un Ellroy.
La somma di tutte queste doti, sviluppate e affinate in poco meno di venti romanzi, trova nella Trilogia del confine la sua vera sintesi, e nel Potere del cane un capolavoro insuperato, rispetto al quale anche gli altri due episodi, pur ricchi di pagine e passaggi memorabili, rischiano di impallidire. Tradotto con grande perizia da Giuseppe Costigliola (mentre Alfredo Colitto ha firmato le versioni italiane del Cartello e del Confine), Il potere del cane ha la medesima struttura dei suoi due seguiti: si apre con un prologo ambientato nel 1997, nel quale Art Keller, agente della dea e protagonista assoluto della trilogia, si trova davanti a diciannove “vittime della guerra alla droga”, uccise dai cartelli messicani convinti che tra di esse si nascondesse un dedo, ossia un informatore della polizia; torna indietro di più di vent’anni, alla spedizione coordinata tra la dea e la polizia messicana per distruggere i campi di 174 papaveri del Sinaloa dai quali i trafficanti messicani ricavano l’oppio e quindi l’eroina da vendere negli Stati Uniti; segue gli sviluppi nefasti di quell’azione, che consentono a Miguel Angel Barrera, già ufficiale di polizia e collaboratore della dea, di creare la “Federaciòn” e di unificare sotto un solo cartello l’intero traffico di droga verso il territorio americano, sfruttando le migliaia di chilometri di confine tra Messico e Stati Uniti e trasformando il Messico stesso in una rampa di lancio per la cocaina prodotta in Colombia; racconta la storia dell’amicizia tra Keller (di padre americano e madre messicana) e i due figli di Barrera, Adèn e Raùl, che si trasforma in odio quando i fratelli Barrera sequestrano e uccidono il partner di Art, Ernie Hidalgo.
E poiché, come sarà reso ancor più chiaro nel Cartello, “il cosiddetto problema della droga messicano non è il problema della droga messicano. È il problema della droga americano. Non c’è venditore senza un compratore”, Winslow non si limita a raccontare il Messico tra gli anni Settanta e gli anni Novanta, ma si sposta negli Stati Uniti: ritrae la sua San Diego, dove i narcos fanno nascere, crescere e istruire i loro figli perché diventino perfetti cittadini americani senza però mai smettere di essere messicani; si sposta fino a New York per raccontare l’epopea di Sean Callan, ragazzo irlandese che si trasforma in killer per la famiglia mafiosa dei Calabrese (e ci regala una galleria di personaggi memorabili, che nulla hanno da invidiare ai goodfellas di Scorsese); esplora nei minimi dettagli la “politica sporca” condotta dagli Stati Uniti in Centroamerica, affidandone la filosofia a uno dei suoi personaggi più riusciti nella spregiudicatezza che lo contraddistingue: Sal Scachi, ex colonnello dell’esercito, affiliato della famiglia Calabrese e insieme uomo della Cia. Subito dopo aver incaricato Sean Callan di “seminare il terrore nelle città di Cali e Medellìn, metterle a ferro e fuoco come cani rabbiosi strafatti di crack”, Scachi spiega all’irlandese quale sia la ratio dietro il suo ordine:
Nell’85 il governo colombiano aveva stipulato una tregua con i vari gruppi di sinistra riuniti in un’alleanza trasversale chiamata Uniòn Patriòtica, che avrebbe conquistato quattordici seggi in Parlamento alle elezioni dell’86. “Bene”, aveva detto Callan. “Macché bene”, aveva ribattuto Scachi. “Quelli sono comunisti, Sean”. Scachi si era lanciato in una lunga filippica, il cui succo era che noi combattevamo i comunisti per garantire la democrazia, dopodiché quegli ingrati figli di puttana ci si rivoltavano contro e votavano per i comunisti. In sostanza, aveva dedotto Callan, Sal stava dicendo che la democrazia è un diritto, purché non sia troppa. I popoli devono avere la libertà assoluta di scegliere quel che noi vogliamo che scelgano.
La forza narrativa del Potere del cane, e la ragione per la quale . legittimo considerarlo il più grande romanzo crime del nuovo millennio, deriva proprio dalla capacità di muoversi con assoluta disinvoltura tra Messico e Stati Uniti: di raccontare con orrore la brutalità della violenza esercitata dai narcos, ma con disgusto se possibile ancor maggiore i giochi di potere che quella violenza tollerano e alimentano ad arte, e che sono molto spesso americani ben prima che messicani. Un gioco di rispecchiamenti che si indebolisce in modo sostanziale negli altri due capitoli della trilogia, sbilanciati rispettivamente verso il Messico e verso gli Stati Uniti, e che qui alimenta alcune delle pagine migliori del romanzo, nelle quali si confrontano la spettacolarizzazione della morte, figlia di un’antica frequentazione e applicata senza batter ciglio dai signori dei cartelli, e la sua gestione chirurgica e opportunistica, al cuore delle tante operazioni segrete che per anni hanno insanguinato il Centro e il Sudamerica.
I pregi del romanzo non si fermano qui: a rendere ulteriormente forte l’affresco costruito da Winslow sono i due temi incrociati del tradimento e della vendetta, che trasformano l’amicizia tra Art Keller e i fratelli Barrera (il piccolo, riflessivo e machiavellico Adàn e il violento e sanguigno Raùl, nuove incarnazioni di Michael e Sonny Corleone del Padrino) in odio inestinguibile. Tra grande affresco storico, tragedia dalle tinte shakespeariane e riflessione politica, Winslow ha scritto un romanzo memorabile in ogni senso, cos. perfetto nella sua complessità da spaventare persino il cinema, che lo corteggia da anni senza mai aver trovato il coraggio di trasporlo.
Estratto da Americana – Libri, autori e storie dell’America contemporanea di Luca Briasco (minimum fax, 2020).