L ’ossessione sociale per la cura dei bambini, per la preoccupazione di preservare la loro innocenza, la convinzione che siano esseri poco sufficienti e inclini a sopravvivere solo se sotto una martellante supervisione scolastica, sociale ed emotiva, trova nella letteratura contemporanea una controparte che, invece, prova a mostrare quanto l’infanzia sia un momento della vita di tutti e tutte in cui la prima e più intensa forza a cui si è sottoposti è quella della violenza. Violenza fisica, psicologica, la violenza delle prime volte, qualsiasi prima volta, la violenza delle decisioni prese dagli altri, della mancanza di autonomia, della necessità dell’indipendenza, della scoperta dell’identità e delle sfumature di questa.
Le streghe non esistono, romanzo di Luca Scarlini pubblicato a marzo 2023, si inserisce in questo filone per rappresentare con onestà e irriverenza una parte della vita che viene idealizzata, soltanto per non vederne le parti più naturali e controverse.
Scarlini è un narratore abile, più volte mi è capitato di assistere a suoi interventi pubblici che, differentemente dalla maggior parte dei panel, delle presentazioni, dei talk che ci vengono proposti nei festival letterari o nelle programmazioni culturali più conosciute e che vedono la partecipazione di più interlocutori e interlocutrici, si strutturano secondo un fiume ininterrotto di racconti e parole che vedono lo scrittore l’unico protagonista. Indimenticabile la lezione su Giovanni Papini o sulle case editrici indipendenti italiane novecentesche ormai estinte.
Il romanzo pubblicato da Bompiani segue questa linea e a me è sembrato quasi di sentirlo parlare, di sentire Scarlini raccontarmi con la sua voce i dettagli della storia di Luca. Protagonisti insieme al bambino sono il Retore padre e la madre femminista, intorno ai quali vorticano personaggi che si fondono e che creano un’atmosfera da realismo magico, personaggi che compongono ogni tassello del passaggio dall’infanzia a quello che viene dopo, che non ha una definizione specifica, come dovrebbe tutto quello che ci ritroviamo a vivere. Scarlini non cerca mai di mettere una distanza tra il protagonista e i genitori, qui considerati delle persone necessarie così come ogni loro gesto estremo, ogni violenza, ogni parola. È in questi che Scarlini prova a trovare gli indizi di quei momenti di crescita che solo attraverso le azioni di chi gli sta intorno trovano il loro senso.
Qualsiasi tipo di definizione di identità, anche sessuale, viene ricondotta a inutilità pacificatrice con un sé che ha bisogno di vivere senza etichette.
Il parricidio perde la sua ipersignificazione per diventare una marachella tra bambini, le pesantezze di una società in declino economico e sociale si smembrano per fare spazio a una vita personale e ipertrofica destinata a non finire, la malattia quasi mortale che a un certo punto spezza il bambino a metà è solo una delle tante cose che succedono soltanto perché si è in vita, qualsiasi tipo di definizione di identità, anche sessuale, viene ricondotta a inutilità pacificatrice con un sé che ha bisogno di vivere senza etichette.
La chiave dell’interpretazione della realtà è composta da nient’altro che gli occhi stessi di Luca.
Ho studiato tutto, mi sono letto romanzi, trattati, ho guardato film, ma ‘un c’è modo. Quando ti capita qualcuno che t’ha messo al mondo e ti vol male davvero è meglio la fuga, perché se vu’ l’ammazzate, anche se vu’ c’avete tutte le ragioni d’i’ mondo vu’ finite in gattabuia per sempre e nessuno vi vole più vedere e anche da morti vi mettono in tombe senza i’ nome per paura che vi sputino sopra e poi tanto la cosa peggio è che nessuno crede alla nostra storia.”Ci fa una carezza e ci congeda: piangiamo tutti, mano nella mano, come a un incontro degli alcolisti anonimi, lei anche più di noi, perché nutre questo desiderio storto da decenni. Capiamo che il parricidio è un sogno condiviso in terra di Etruria, ma destinato a rimanere tale, una consolazione onirica alla logica letale della tirannide genitoriale, poco conta che sia patriarcale o matriarcale. Frignando, sconfitti su tutta la linea, tenendoci per mano, io e Alvaro ce ne andiamo dalla biblioteca, azzerati nei nostri sogni di eliminazione retorica.
La vita di Luca gira intorno alle persone e alla mancanza degli oggetti, i beni materiali sono irraggiungibili perché la proprietà è borghese, fascista, dittatoriale, e l’unico segno di lusso che contorna l’esistenza di Luca è un vero e proprio carnevale tessile, risultato del lavoro della madre e grazie al quale egli si trova a cambiare continuamente identità. Mi è venuto in mente un testo di Michele Mari, che si inserisce nel filone dell’infanzia come tempo di violenza e sopravvivenza ma che si contrappone in qualche modo al romanzo di Scarlini: Tu, sanguinosa infanzia del 1997, che sembra quasi anticipare la visione più macabra e più controversa de Le streghe non esistono. Sebbene i due scrittori si somiglino per l’abilità nell’uso di termini di uso non comune, si distanziano molto dalla modalità con cui trattano la materia. Mentre in Le streghe non esistono sono le persone a comporre il mosaico emotivo dei ricordi di Luca, che subisce e accetta le cicatrici che queste lasciano al loro passaggio, nel libro di Mari sono soltanto gli oggetti a costituire gli arti mancanti di un corpo infantile mutilato, creando un catalogo di ricordi materiali che il protagonista si trova a rimpiangere alla soglia della paternità. E c’è un’enorme differenza, inoltre, tra il senso di ricchezza economica del libro di Mari e l’infanzia povera raccontata da Scarlini.
Entrambi gli autori descrivono comunque a modo loro un’infanzia legata alla morte, quasi per aggiungere un tassello alla concezione di questa come unica certezza della vita, pensando la prima età come una pari certezza per l’adulto, che ha lati oscuri ben profondi eppure necessari allo stesso modo dell’ultimo respiro e di ciò che viene appena prima.
Il parricidio perde la sua ipersignificazione per diventare una marachella tra bambini.
A rendermi prezioso il romanzo di Scarlini è l’impressione di vedere un Aldo Palazzeschi liberato. Sono gli echi della toscanità, un linguaggio futuristico un po’ epurato, l’incapacità di inserirsi in definizioni normate di umanità e il gioco continuo sull’ambiguità a farmi pensare che Palazzeschi, in queste pagine, possa trovare un alleato capace di dargli quel minimo riscatto che non è riuscito ad avere in vita.
Dopo aver pubblicato appena ventitreenne il suo primo romanzo :riflessi e aver proseguito con Perelà, l’uomo di fumo indefinito, e La Piramide, vero romanzo queer con protagonista un uomo smembrato dall’interno che racconta esperienze sessuali con ragazzi e ossessioni e desideri e pulsioni irrefrenabili, Palazzeschi inverte la rotta a causa della critica da parte di un prete che l’aveva definito immorale. Ed è per questo che assistiamo alla pubblicazione postuma di uno dei romanzi più irriverenti della letteratura italiana novecentesca, ovvero Interrogatorio della Contessa Maria, uscito nel 1988, e a una tentata normalizzazione da parte dell’autore stesso di una scrittura che ha l’ambiguità nel suo nucleo più profondo. Luca Scarlini sembra ripartire da quelle stortezze palazzeschiane più pure per comporre la rivendicazione del disinteresse nei confronti delle critiche, dei generi letterari – alla fine del romanzo, Scarlini elabora una brevissima bibliografia critica sui luoghi e le persone citati -, degli stili, non occupandosi né preoccupandosi di costruire un personaggio che abbia una qualche noiosa e definita coerenza. Come se fosse uscito da una novella palazzeschiana.
Dopo il racconto di un’infanzia composta da povertà, da traslochi continui, da rifugi scavati nelle persone e nei luoghi che perdono il loro valore assoluto e autentico per acquisirne uno fortissimo e personale, si assiste al passaggio dall’infanzia al post-infanzia attraverso l’incontro con quelle che sembrerebbero un gruppo di streghe, con una vecchia signora a capo. Sono donne che vivono isolate, lontane dagli uomini e da ciò che dovrebbe costituire la società, quella normalizzante, quella nobilitante, per costruire uno spazio sicuro e tagliato sulle loro dimensioni. Quando queste donne si trovano costrette a immergersi tra la gente per spese o faccende, le persone intorno nutrono se non paura quel minimo di timore necessario a costruire rispetto, perché l’animale non sociale femminile, che vive senza uomo, capace di esprimere sé stesso in tutto e per tutto, può vivere soltanto in uno spazio ben delimitato, ma molto più libero di quello non recintato.
Le sorelle Materassi di Palazzeschi, pure, vivevano così, rifugiate nella loro casa di Coverciano e convinte a uscire soltanto la domenica per la messa. Gli echi di Teresa e Carolina si sentono anche nelle drag queen amiche della madre di Luca, che come le due sorelle confezionano abiti. Metto l’accento sulle due protagoniste del romanzo di Palazzeschi perché il critico Marco Marchi ha avanzato l’ipotesi che queste fossero due travestiti e quindi le drag queen di Scarlini diventano nuove sorelle Materassi, che riescono a non nascondersi più e a essere chi sono destinate a essere. Se quindi lo scrittore novecentesco ha mostrato in vita di voler ripensare la sua condizione di intellettuale storto, Scarlini la rivendica con orgoglio.
Quando c’è il Retore non possono venire nemmeno le policrome amiche femministe di mia madre, che il Retore detesta assai, perché lo deridono apertamente come macho giurassico.E ancora meno la Contessina Mizzi e la Gibi: mio padre su questo punto è stato categorico.
“Fuori da casa mia quei due froci! Che già il bambino è strano, sennò chi sa come mi diventa!”
Lui le detesta in abiti maschili, ma vorrei vedere come reagirebbe se le vedesse nelle loro vere vesti. Le due regine infatti sono proprio travestite, per piacere, non per mestiere, e hanno una passione per mia madre, che è la loro maestra di uncinetto. Prima i corsi li teneva alla Casa del Popolo, poi dopo lo scandalo della loro presenza in abiti da ballo, contestata dal comitato centrale, a domicilio. Più spesso la lezione è da loro, ma io non sono ammesso al travestitissimo sancta sanctorum della Gibi, di cui ho visto le fotografie: un delirio di pizzi e centrini, con poster di Vogue UK alle pareti e la Union Jack in bella vista.