I n uno dei saggi-manifesto della letteratura working class italiana, Non è un pranzo di gala (2022), Alberto Prunetti scrive a proposito di Amianto, probabilmente il suo romanzo di maggior successo: “Non eravamo tutti classe media, gli operai esistevano […], solo che nessuno li raccontava mai. […] E se si raccontavano bene, senza cadere in semplificazioni ed errori, avrebbero spinto il lettore a fare i conti con il passato e il presente, con la propria (spesso celata) eredità di classe”. Amianto è stato ripubblicato da Feltrinelli nel 2023, nove anni dopo la prima uscita per Alegre, a dimostrazione di una maggiore apertura alle scritture working class da parte dell’editoria mainstream, della quale lo stesso Prunetti nel suo saggio lamentava a ragione la ritrosia – quando non si trattasse di manifesta volontà politica – ad ammettere nei propri cataloghi autori e storie di personaggi di classe subalterna. È anche a causa di questa riluttanza che, nella sua indagine pubblicata da minimum fax, l’autore sostiene la necessità, allo stesso tempo letteraria e politica, di portare sulla pagina quella che definisce una “epica stracciona”, le storie dei subalterni e dei dimenticati della Storia. La letteratura working class, sostiene Prunetti, deve essere radicalmente altra rispetto a quella borghese nelle forme e nei temi, deve tendere a una costante sperimentazione, al fine di distinguersi tanto dal romanzo borghese tradizionale, quanto dalla narrativa sul lavoro del secondo Novecento.
Rientra a pieno nei canoni di questa sperimentazione il suo ultimo romanzo Troncamacchioni, sempre per Feltrinelli, in cui Prunetti racconta, attraverso l’utilizzo di fonti e materiali d’archivio, una serie di “fatti di sangue” avvenuti circa cento anni fa a Tatti, una frazione del complesso minerario di Massa Marittima: la violenza sessuale (5 aprile 1921) da parte del socialista Gualtiero Bucci, calzolaio anima delle organizzazioni cooperativistiche locali, ai danni di Teresina, nipote dodicenne del fascista Antonio Mucciarelli, “forse il più ricco del paese”; lo scontro a fuoco (20 maggio 1922) tra i comunisti di Tatti, alcuni fascisti di passaggio in paese e i carabinieri, in cui perse la vita Patrizio Biancani, padre del ciabattino comunista Robusto; il successivo omicidio (il 22 maggio) di Mucciarelli e di suo nipote Enrico Stefani, ritenuti colpevoli della morte di Patrizio Biancani, a opera di Robusto e di un altro comunista, Albano Innocenti. Molti altri sono i personaggi che costellano questa storia corale. Le vicende, incorniciate da alcuni antefatti e dal successivo resoconto dei destini dei protagonisti, si articolano seguendo, forse in modo pedissequo, la cronologia degli eventi. Come è scritto nell’ultimo capitolo, “la tragedia termina con un nodo che si scioglie e si allenta, senza che ci sia una catarsi o una nemesi”.
La “novella nera”, così è definita nel sottotitolo, è una riscrittura del suo esordio letterario del 2003, Potassa. La storia editoriale di questo testo segue una parabola molto simile a quella di Amianto ma parte da un punto ancora, se vogliamo, più marginale: è stato pubblicato prima da un’associazione culturale in un’edizione priva di distribuzione e poi, l’anno successivo, da Stampa Alternativa, prima di essere ristampato con il titolo Piccola controstoria popolare proprio da Alegre nel 2014, lo stesso anno di Amianto. Scrive Prunetti nella postfazione di Troncamacchioni (corsivi miei):
Per raccontarla bene, è stato importante dare metodo a quelle vicende, riorganizzando la trama, favorendo le tradizionali categorie di unità di tempo, luogo e azione con una struttura classica in tre atti e un prologo d’apertura iniziale […]. La ricostruzione di questi episodi è infatti esposta in forma romanzesca ma è ancorata al metodo del lavoro e del mestiere dello storico, con un uso di fonti archivistiche, giornalistiche e bibliografiche rielaborate in chiave narrativa. […] Per correttezza storica, devo esplicitare la parte finzionale.
Come è evidente da questo brano, in Troncamacchioni Prunetti sperimenta mescolando stili e generi differenti. Una sperimentazione che si riflette sia nei suoi aspetti formali che nelle implicazioni politiche. Anticipo brevemente gli aspetti più interessanti della novella: la caratterizzazione dei personaggi, eroi popolari o antieroi; il ribaltamento del rapporto tra eroi-individui e Storia collettiva, con una netta prevalenza di quest’ultima (in contrasto con il romanzo borghese e con l’epica classica); infine, una risemantizzazione degli obiettivi narrativi dell’epica tradizionale. Proprio l’ultimo di questi tre elementi è il fondamento del mio interesse per Troncamacchioni, che si inserisce in un più ampio filone di ripresa degli stilemi dell’epica tradizionale piuttosto diffuso nella letteratura italiana contemporanea (si pensi alle biografie di personaggi storici che troppo spesso sfociano nell’esaltazione mitica o alla costellazione di romanzi sulle famiglie imprenditoriali italiane), modificandone però in maniera sostanziale le forme e gli obiettivi.
Secondo Prunetti la letteratura working class deve essere radicalmente altra rispetto a quella borghese, nelle forme e nei temi: deve distinguersi tanto dal romanzo borghese tradizionale, quanto dalla narrativa sul lavoro del secondo Novecento.
Il testo si apre con un antefatto intitolato “C’era una volta cent’anni fa”. L’avvio della novella ha il tono e lo stile di una fiaba: “C’era una volta cent’anni fa una Maremma ribelle, sovversiva e indomita. Una Maremma diversa da quella di oggi. Una Maremma crognola, tetragona, armigera. Una Maremma proletaria, solidale, minerale. Ne hanno fatto una Maremma domesticata, ispezionata, spiata, diretta, legiferata, regolamentata, recintata e indottrinata. Una Maremma catechizzata, controllata, censurata e comandata. Una Maremma annotata, registrata, censita, timbrata, squadrata, postillata e impedita. Una Maremma riformata, raddrizzata e corretta. Una Maremma ammonita, fuoriuscita e confinata”. Prunetti gioca con la lingua e con i suoi suoni: il ritmo serrato di assonanze, rime e anafore costruisce una narrazione insieme scanzonata e solenne. Il plurilinguismo è una caratteristica ricorrente in tutto il testo, in cui la “bassezza”, rivendicata ed esaltata, della lingua delle classi popolari si mescola a codici narrativi piuttosto complessi. Il riferimento temporale “cento anni fa” contenuto nelle prime frasi del testo richiama la storia d’archivio, in contrapposizione al “c’era una volta” delle fiabe, preludendo a un cambio di registro che introduce la dimensione epica del racconto. Dopo il primo capoverso, infatti, la narrazione cambia registro in modo inaspettato:
Ma io vi canterò di quell’altra Maremma. La Maremma ribelle e indomita. Canterò allora l’armi e gli eroi, il sangue e il respiro grosso, la rabbia e l’ira funesta dei villici crognoli di Maremma. Narrerò le fughe tra i lecceti gli scopeti i castagneti e i forteti, col cuore in gola e le labbra spaccate, coi piedi gonfi dal freddo e le narici piene di tabacco.
La presa di parola dell’io narrante e il passaggio narrativo dalla terza alla prima persona – questa alternanza si ripeterà più volte nel corso della novella – ricalca la forma proemiale dei poemi omerici (“Cantami, o Diva, del pelide Achille/ l’ira funesta”) e ariosteschi (Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,/ le cortesie, l’audaci imprese io canto). Non è l’unico caso, all’interno del testo, in cui Prunetti cita i poemi epici più tradizionali. L’Atto primo della novella, ad esempio, imita nuovamente il proemio dell’Iliade e il personaggio di Achille: “Canterò l’ira rovinosa del furioso facchino di Potassa, che infiniti lutti addusse ai ricchi possidenti di Maremma”. L’accostamento tra i protagonisti di questa vicenda e gli eroi omerici si ripete più avanti nel testo in maniera ancora più esplicita, in un passaggio che vale la pena citare ampiamente:
Forse avreste preferito commuovervi o entusiasmarvi con righe cariche di passione. O sentire la grande storia piegarsi sotto la volontà di uomini eminenti. Ma la verità è che i protagonisti della letteratura e i personaggi illustri della storia rispetto ai minatori maremmani mi sembrano soldi di cacio. Napoleone, Churchill, Cavour. Tutta gente piena di privilegi che ha vissuto solo per finire dentro ai sussidiari scolastici. Voi mi direte: ma la rabbia del Pelide Achille? E io vi rispondo con l’incazzatura di Domenico Marchettini detto il Ricciolo. Vi entusiasmate per le avventure di Castore e Polluce? Non avete mai visto in azione i fratelli Sili di Prata, Florindo e Italo, armigeri carbonai ai ferri per aver trafugato dei sigari a un bottegaio che faceva la spia, o i fratelli Innocenti di Tatti, Albano e Ivo, capaci di far cantare L’Internazionale, con le buone o le cattive, anche a un coro di bambini della parrocchia.
Quando Prunetti scrive “voi” sembra rivolgersi direttamente alla classe media riflessiva che legge e scrive romanzi borghesi – anche perché, probabilmente, sa che adesso costituisce una parte del suo pubblico. L’autore sembra voler tracciare una linea di demarcazione netta per ribadire la costitutiva alterità della letteratura working class non solo nella forma ma anche nella comunità dei lettori. Proprio nel rispetto degli stilemi delle scritture subalterne, è evidente infatti la volontà programmatica dell’autore di dare dignità tragica ed eroica alle vicende di personaggi comuni, gli antieroi che generalmente non sono considerati i protagonisti della Storia. L’epica stracciona di Prunetti si pone in aperta contrapposizione all’epica tradizionale, che con una certa forzatura potremmo definire “borghese” nell’esaltazione dei suoi eroi, nello sviluppo di fittissime trame orientate al pathos e all’emozione dello spettatore. Il contrasto tra le figure classiche e i personaggi del maremmano è volutamente esagerato, forzato, ma risponde al desiderio di esaltare figure comuni insistendo sulla loro normalità. Non è un caso, inoltre, che in questo brano Prunetti sovrapponga figure storiche, come Napoleone, Churchill e Cavour, a personaggi mitici come Achille, Castore e Polluce: non importa, in questo caso, se si tratti di protagonisti reali o immaginari, quello che conta evidenziare è che non esiste distinzione tra il mito e la Storia borghese, quando si tratta di esaltare le vite di eroi individuali.
Quando Prunetti scrive “voi” sembra rivolgersi direttamente alla classe media riflessiva che legge e scrive romanzi borghesi – e che adesso costituisce una parte del suo pubblico.
Come esiste un “voi” rispetto al quale l’autore vuole distinguersi, così c’è un io che racconta la storia. La struttura diegetica di Troncamacchioni è piuttosto articolata e segue, anche in questo caso per imitazione o per antitesi, schemi classici. Se l’io narrante dell’epica classica è onnisciente, l’io prunettiano ricalca quello dantesco nella doppia dimensione diegetica di “autore”, cioè colui che racconta la storia, e “agente”, in questo caso colui che cerca materiale nelle biblioteche e negli archivi toscani. Prunetti si racconta mentre indaga alla ricerca di testimonianze, documenti, tracce da seguire nella ricostruzione dei fatti storici, che usa anche per giustificare le descrizioni dei personaggi: “‘adiposità molta’, così è registrato nelle carte d’archivio”. L’io agente è spesso incerto nella ricostruzione delle vicende, tanto da essere costretto ad assecondare le versioni che emergono dalle testimonianze degli stessi personaggi, anche laddove siano incoerenti.
Il Bucci è un personaggio che risulta respingente. È un molestatore di bambine? O è davvero vittima di una persecuzione politica, come sostiene lui? O entrambe le cose? Di certo è un personaggio scomodo, difficile da incasellare. Eppure è un narratore che continua a ribadire le sue verità sulla vicenda che raccontiamo. Ed è un narratore inaffidabile e ubiquo. Ogni volta che mi infilo in un archivio, lui esce dai faldoni. E ogni volta racconta la sua verità in maniera diversa, accomodando il racconto alle circostanze. Quanto credito dobbiamo dare alle sue parole?
È così che Troncamacchioni si nutre anche degli stilemi e dei toni del reportage. All’esposizione dei fatti, ora storica ora epica ora fiabesca, si intrecciano le impressioni immediate di chi racconta la storia: “Possibile che sia il fratello Robusto? Non mi aspettavo che Robusto, che è un bracciante e un ciabattino, fosse tanto elegante”, scrive Prunetti mentre commenta la foto di un personaggio. La scrittura dell’io nella letteratura working class svolge una funzione essenziale per vari motivi: come fonte di autenticità per la narrazione, come trasfigurazione di una voce collettiva, per legittimare culturalmente e politicamente il contenuto dei testi. Mi sembra che nel caso di Troncamacchioni, una novella che racconta di un passato non direttamente connesso alla biografia personale di chi scrive, l’io si faccia meno ingombrante, se non per il legame biografico di Prunetti con la Toscana, che emerge peraltro soltanto nell’esergo e nella mente di chi conosce l’autore.
Si noti brevemente anche il debito di Troncamacchioni con il teatro: la suddivisione del testo in tre atti, a cui sono aggiunti un antefatto e un “sipario” (il capitolo finale); la ripresa delle categorie classiche di unità di luogo tempo e azione, sebbene i concetti di unità di tempo e di azione non siano intesi da Prunetti nel loro senso aristotelico, poiché l’azione si svolge in più anni e seguendo le vicende di molti personaggi differenti; l’inserimento di prologhi che sembrano ricalcare quelli del teatro classico e popolare. In effetti, sono molti i legami dell’arte working class con il teatro, soprattutto in Inghilterra, contesto privilegiato di queste sperimentazioni e delle ricerche dello stesso Prunetti. Non è forse un caso che Il Capitale, lo spettacolo teatrale della compagnia Kepler-452 nato a partire dalla collaborazione con gli operai GKN, abbia vinto nel 2023 il premio UBU, uno dei più prestigiosi per il teatro.
Se la Storia ufficiale si perde nel mito, l’epica stracciona trova nel puro resoconto dei fatti la propria eccezionalità.
Prunetti, come abbiamo detto, lascia ai documenti d’archivio il compito di raccontare gli eventi. Sono gli stessi personaggi delle vicende di Tatti, in qualche modo, a essere i narratori delle loro vicende. Ne è esempio la voce del carabiniere Domenico Mauri, che ha stilato molti dei verbali a cui Prunetti si rifà per ricostruire le vicende giudiziarie di cui racconta. In un tono a tratti comico-grottesco, Mauri è immaginato a invocare la Musa, o a esserne addirittura invasato prima di stilare i documenti ufficiali che raccontano gli eventi di Tatti, come se il carabiniere stesso fosse l’autore involontario di questa storia: “È appena stato tirato in ballo il carabiniere Domenico Mauri. Le righe con cui ricostruisce le due giornate del maggio 1922 le ha scritte quasi un anno dopo, nel 1923, quando indirizza in maniera ancora più smaccata ogni accusa contro i tatterini e assolve i fascisti, anzi, li occulta quasi dal racconto. Che dire? C’è voluto un anno, poco più, ma alla fine la Musa l’ha soccorso”.
È bene evidenziare come il lavoro di ricerca di Prunetti sia effettivamente archeologico, rigoroso nella selezione delle fonti e nell’esposizione dei fatti, come dimostra l’inserimento nel testo delle scansioni di documenti originali e di fotografie dei personaggi. È evidente, in questo caso, una delle intenzioni più importanti del testo: ribaltare i piani tra Storia documentaria, oggettiva e completa, e narrazione, soggettiva e parziale.
Esiste chiaramente una questione legata all’interesse del pubblico per le storie raccontate: Prunetti racconta vicende ambientate agli albori dell’epoca fascista che hanno, volutamente o meno, un fortissimo legame con i fatti di cronaca politica più recenti, dagli scontri di piazza alle recrudescenze neofasciste, che oggi, al contrario di cento anni fa, non incontrano la risposta della stessa violenza. In più contesti, inoltre, autori come Gianluigi Simonetti hanno evidenziato l’interesse crescente dell’editoria mainstream e dei premi letterari per storie ambientate in epoca fascista, come dimostrano i libri finalisti alle edizioni recenti dello Strega e del Campiello.
Tuttavia, a dispetto delle questioni di attualità, Prunetti ribadisce più volte l’intenzione di non voler “fabbricare” il pathos narrativo attraverso l’uso dell’intreccio, ma di lasciar parlare da sé i fatti. Questa volontà si lega non soltanto a un’esigenza documentaria, ma, ancora una volta, alla più profonda urgenza politica di ribaltare l’idea comune di Storia come narrazione delle grandi gesta di uomini illustri. Se la Storia ufficiale si perde nel mito, l’epica stracciona trova nel puro resoconto dei fatti la propria eccezionalità. Il revisionismo storico operato dalla letteratura working class – si intenda il termine “revisionismo” in accezione neutra e non politicamente connotata – non risiede tanto in una riscrittura degli eventi, quanto nella loro narrazione più completa e puntuale possibile. È nella descrizione oggettiva degli eventi la dignità delle classi popolari, è nella contraddittorietà e nella complessità dei fatti la loro ricchezza.