È indicibilmente grasso ma incredibilmente statuario, arrogante ma seduttivo, ha tratti volgari eppure il suo volto emana voluttà. Questa è la descrizione che William Somerset Maugham fa di Oliver Haddo, protagonista, anzi villain, del suo romanzo The Magician, uscito nel 1908 e di recente ripubblicato da Adelphi con il titolo Il mago. L’autore inglese, che non molti anni più tardi diventerà famoso per una serie di romanzi e sceneggiature cinematografiche, ha spesso mescolato elementi biografici, o comunque di realtà, con il racconto di fiction, e anche in questo romanzo, che viene normalmente ascritto al genere horror o quantomeno al fantastico, succede qualcosa di simile. Oliver Haddo, infatti, non è altri che l’esoterista e scrittore Aleister Crowley, che Somerset Maugham ebbe modo di incontrare durante un soggiorno a Parigi.
Per quanto il ritratto di Crowley sia caricaturale, dai tratti forse ingigantiti, i riferimenti alla sua biografia sono invece espliciti in molti dettagli, ad esempio quelli relativi alla sua passione per l’alpinismo e per le imprese estreme. Quando si incontrano a Parigi nel 1902, Somerset Maugham e Crowley non sono ancora i personaggi che saranno in futuro: un affermato autore di pièce di teatro il primo; “l’uomo più cattivo del mondo” – come fu ribattezzato dalla stampa – il secondo. Crowley è reduce da una spedizione fallimentare sul K2, che non era riuscita ad arrivare in vetta pur essendo arrivata, con scarso equipaggiamento, nel punto più alto fino a quel momento conquistato, a quota 6.600 metri circa. A guidare la cordata c’era Oscar Eckenstein, uno dei grandi nomi dell’alpinismo e innovatore in fatto di tecniche di scalata.
Si capisce facilmente, quindi, come mai già a quel tempo la figura di Crowley – che all’epoca aveva 27 anni – fosse ammantata di un’aura speciale, in grado di esercitare fascino sulle persone che avevano a che fare con lui. Non fu così per Maugham, che ebbe modo di conoscerlo al ristorante Le Chat Blanc (che nel romanzo diventa Le Chein Noir), ritrovo di una nutrita comunità di artisti e personaggi non ordinari, grazie all’iniziativa del comune amico Gerald Kelly, un pittore britannico. Crowley aveva già una discreta fama legata all’occulto e alla magia, era entrato a soli ventitré anni nella Golden Dawn – ordine massonico esoterico di cui faceva parte anche il poeta Yeats, che divenne uno dei maggiori detrattori di Crowley – contribuendo ad accentuare la spaccatura in seno all’organizzazione, essendo riuscito a farsi iniziare a un grado elevato dal fondatore Mathers. Invece di lasciarsi sedurre dalle sue storie inverosimili, che pure hanno elementi di realtà come riconosce lo stesso Maugham, l’autore inglese coglie piuttosto il carattere manipolatore del personaggio, tanto da trasformarlo nella figura cardine di questo suo romanzo considerato, forse un po’ sbrigativamente, minore.
Un personaggio (parliamo del romanzo) in grado di soggiogare con la mente giovani fanciulle, uccidere in un sol colpo ben tre leoni, dare vita impunemente a raccapriccianti esperimenti alchemici. Aleister Crowley si riconobbe nel ritratto, tanto da rispondere sempre nel 1908 su Vanity Fair con un articolo firmato provocatoriamente Oliver Haddo. Il personaggio di The Magician si rovescia dunque nel detrattore del suo autore, accusato sostanzialmente di aver plagiato e saccheggiato diversi saggi e romanzi, da L’isola del dottor Moreau di H. G. Welles alla Vita di Paracelso di Franz Hartmann, passando per la Kabbalah Denundata di Christian Knorr von Rosenroth, tradotta in inglese proprio da Mathers. In effetti, ampi stralci di storie riportate in questi libri sono presenti nelle digressioni di The Magician, nelle parti in cui l’autore si discosta dal meccanismo classico del romanzo per chiedere al lettore di immergersi con lui nella materia dell’esoterismo, nei suoi riti, nelle sue narrazioni. La critica dell’epoca considerò questi riferimenti come fonti, sia pur dettagliate, di un’opera originale e lasciò cadere nel nulla il tentativo di polemica di Crowley. Tuttavia lo stesso Somerset Maugham, che ripubblicò anni più tardi il romanzo definendolo “un frammento autobiografico” si stupì, nello scritto che accompagnava il romanzo e che ne raccontava la genesi, di quanto fossero approfonditi i riferimenti al mondo dell’esoterismo, di cui lui era in realtà digiuno, commentando, a proposito del periodo in cui era occupato nella stesura del romanzo: “Devo aver passato giorni e giorni a leggere nella biblioteca del British Museum”. Crowley stesso, anni più tardi, si mostrò più compiaciuto che offeso dall’operazione letteraria di Somerset Maugham; nell’autobiografia The Confessions of Aleister Crowley scrive:
‘The Magician’ è stato nei fatti un riconoscimento del mio genio quale mai avrei sognato di ispirare. Mi ha mostrato quanto sublimi fossero le mie ambizioni e rassicurato su un punto che qualche volta mi preoccupava – se cioè il mio lavoro valesse la pena di fronte al mondo.
La storia raccontata ne Il mago ha un andamento abbastanza classico, rispetto al genere “perturbante” dell’epoca, e presenta anche qualche tratto di maniera che rende i personaggi, e le relazioni tra di loro, figli del loro tempo. Eppure è anche questo aspetto a renderlo un libro da leggere; c’entra ovviamente la scrittura di Somerset Maugham (e alla traduzione italiana di Paola Faini), ma c’entra pure la cornice temporale che viene raccontata, fatta di persone suggestionabili e granitici propugnatori dello scetticismo, oppure di stimati studiosi che non trovano affatto disdicevole dedicarsi all’occultismo con la stessa perizia e rigore che dedicano alle scienze positive. La trama, in breve: Arthur Burdon è un chirurgo inglese di successo che si reca a Parigi per incontrare la fidanzata Margaret Dauncey, di cui è stato precedentemente il tutore quando lei, ancora giovinetta, era rimasta orfana. Divenuta nel frattempo una bellissima ragazza, e scoppiato l’amore tra i due, Arthur acconsente a rinviare di un paio di anni la data del matrimonio per permettere a Margaret di studiare arte nella ville lumière, trasferendosi a casa dell’amica Susie Boyd, che è più grande d’età e meno affascinante – oltre ad essere segretamente innamorata di Arthur. Tutto sembra andare per il meglio nella vita dei due fidanzati, e ciò che li separa dal coronamento del loro sogno d’amore sembra essere giusto la scelta dei dettagli per il matrimonio, quando fa il suo ingresso Oliver Haddo. Inquietante ma anche attraente, Haddo è un personaggio su cui esistono innumerevoli dicerie, che lui stesso alimenta con i racconti sensazionalistici delle sue imprese.
Non riuscendo però a impressionare lo scettico Arthur, Haddo finisce per inimicarselo, e per vendicare un affronto subito soggioga psicologicamente (o forse con l’aiuto della magia) la più fragile Margaret. La ragazza si trasforma, passando dall’essere una giovane ingenua a una traditrice in grado di occultare la sua doppia vita, ma non senza un contraccolpo: il suo carattere allegro ed entusiasta della vita evapora e lascia spazio alla malinconia profonda, non priva di senso di colpa. Margaret, infatti, è come soggiogata da Haddo, e se compie questa trasformazione è perché non può sottrarsi al suo influsso: finirà per lasciare Arthur e sposarsi con l’inquietante mago. Il contraccolpo per la fine della relazione trasforma anche Arthur, che da medico brillante e sicuro di sé diventa un essere malinconico, svuotato di vitalità, quasi uno zombie. L’occasione di riscatto giunge quando i tre tornano inaspettatamente a incontrarsi: Haddo e Margaret sono divenuti una coppia celebre e viziosa, dedita al gioco, ma Arthur, trovando il modo di parlare alla sua ex fidanzata, capisce l’estrema sofferenza di lei e cerca inutilmente di liberarla dal potere che la soggioga. Alla fine Arthur, coadiuvato dal dottor Porhoët, che ha seguito l’intera vicenda, e da Susie, tentano il tutto per tutto per liberare la ragazza.
Uno degli aspetti più interessanti di questa novella gotica sta proprio nella metamorfosi di Margaret. Anche se alla fine sappiamo che la sua trasformazione da fanciulla ingenua a ingannatrice è frutto di una manipolazione, il “sabotaggio” della figura stereotipata della ragazza sotto tutela, fragile ma entusiasta della vita, che ripone tutte le sue speranze di felicità nel matrimonio, è comunque estremamente interessante perché – fino a un certo punto della storia – gioca su un piano di ambiguità. Margaret è davvero sedotta dal male e si stupisce di quanto sia facile ingannare i suoi amici, ingenui quanto la se stessa di poco prima. È vero, Maugham ritrae questa ragazza come consumata dal proprio “peccato”, ragione per cui non c’è nessun sovvertimento delle categorie di bene (il matrimonio, l’onestà, l’amicizia) e di male (il tradimento, il vizio, la slealtà); eppure la forza che la attrae è anche di tipo sensuale, è anche frutto di una seduzione autentica. Margaret vive una scissione, c’è una parte di sé che è in dialogo con la ragazza che è stata, che prova disgusto di Haddo e di sé stessa, e un’altra parte di sé che non può fare a meno di questo disgusto, che vive con voluttà la sua discesa agli inferi. Questa forza attrattiva – la stessa che Maugham riscontrò in Crowley – non è semplicemente un potere occulto che soggioga, ma una forma di seduzione in cui il soggiogato è, pur parzialmente, una parte attiva. Un po’ come nella dipendenza da sostanze, gli abissi che possono aprirsi sono sì di prostrazione, ma anche di piacere.
Il secondo aspetto che rende questo libro interessante anche per chi lo legge oltre un secolo dopo la sua pubblicazione sta nelle digressioni sull’esoterismo – soprattutto le parti che riguardano Paracelso –, ovvero quelle stesse porzioni di testo che gli avevano attirato l’accusa di plagio da parte di Crowley. Pur non essendo un esperto di occulto, Maugham crea un affresco interessante per i profani e cerca di ricondurre l’atmosfera del romanzo gotico, a volte vaga nei suoi riferimenti al soprannaturale, a una linea di narrazione che va ben oltre la fiction, ovvero alla tradizione alchemica e alle leve che la muovevano. E qui c’è un terzo aspetto, forse il più significativo e attuale, che riguarda il rapporto dell’uomo con il potere. Nel romanzo scopriamo a un certo punto che quello che muove Oliver Haddo, la sua aspirazione più profonda, è acquisire la facoltà di “creare la vita”. Haddo riprende un esperimento di Paracelso, la creazione di homuncoli, di piccoli esseri che l’alchimista sarebbe in grado di produrre dalla materia grazie a un articolato procedimento di incubazione, a formule magiche e a un’alimentazione a base di sangue. Paracelso affermò di non avere mai effettuato l’esperimento, perché sarebbe stato un affronto al potere di Dio, l’unico che può davvero creare la vita e farlo in modo perfetto (non a caso gli alchimisti possono al massimo creare homuncoli); ma condivideva la credenza che l’esperimento fosse stato tentato, e che esseri nani e deformi potessero essere discendenti di questi bizzarri golem alchemici.
Il potere di creare la vita è l’unico vero potere assoluto e Haddo vuole raggiungerlo non perché abbia ambizioni legate al suo effetto, ovvero alla creazione di individui, ma perché è innamorato del potere (e paradossalmente finisce per soggiogare e distruggere una donna, ovvero l’unico soggetto davvero titolato a dare la vita, per ottenere la capacità di farlo). Le sue considerazioni al riguardo sono lampanti. Quando si parla del potere Haddo abbandona i suoi modi enigmatici e finisce per dire in modo esplicito ciò che davvero pensa:
E cos’altro cercherebbero gli uomini nella vita se non il potere? Se voglio denaro, è solo per il potere che esso assicura; e la conquista della conoscenza è sempre una lotta per il potere. Miserabili e stolti mirano alla felicità, ma gli uomini mirano solo al potere. Il mago, lo stregone, l’alchimista sono conquistati dal fascino dell’ignoto e anelano a una grandezza inaccessibile al genere umano. Pensano che, grazie alla scienza studiata tanto pazientemente, grazie alla sopportazione e alla forza, alla volontà e all’immaginazione – perché queste sono le grandi armi del mago –, potranno finalmente conquistare un potere che consenta loro di sfidare il Dio dei cieli.
Il potere, secondo questa concezione, è ciò che rende la vita degna di essere vissuta. Forse perché dietro la soddisfazione dei propri desideri (o vizi) c’è un angoscia e un’aspirazione più profonda, quella di superare i limiti della vita stessa, andare oltre la sua imperfezione che è costituita dal dolore e dalla morte. Inesorabilmente, tuttavia, il tentativo di ergersi oltre il limite umano produce proprio dolore e maggiore imperfezione, anzi vera e propria deformità. Se questo discorso può sembrare connesso a una società ancora carica di una morale cristiana ben più di quanto la nostra oggi non lo sia, in realtà le connessioni con il presente sono diverse e notevoli. Non solo perché il rapporto perverso degli esseri umani con il potere è lontano dall’essere risolto (ed è stato anzi spesso causa del fallimento delle rivoluzioni che si proponevano di risolverlo); ma anche perché l’occidente secolarizzato non ha mai smesso di coltivare l’ambizione di “curare” le imperfezioni della creazione. Certo oggi il confine tra natura e cultura, tra artificiale e naturale, si è quasi dissolto, giustamente messo in crisi da una critica che mette in discussione l’antropocentrismo delle religioni e quello che permane nel senso comune, che anche quando oppone un’ipotetica Arcadia da cui homo sapiens si distacca distruggendo il mondo che abita finisce per rafforzare la convinzione che il genere umano si trovi naturalmente al centro di tutto ciò che esiste. Nonostante il ridimensionamento della posizione degli esseri umani operata dalla scienza, la convinzione che il genere umano possa “impadronirsi dei poteri di Dio” non ha smesso di affascinare, né di sembrare una concreta opportunità.
Cambia il contesto, ma non l’obiettivo. Basti pensare al transumanesimo dei nostri giorni raccontato da Mark O’ Connell in Essere una macchina (sempre Adelphi), al tentativo di superare i limiti biologici del corpo e della mente sia in termini di potenza che di usura, arrivando a ipotizzare la possibilità teorica di estendere all’infinito l’esistenza di un individuo. In fondo, anche se in una chiave ottimistica e tutt’altro che gotica, non è altro che la risposta all’eterno timore dell’uomo, quella rappresentata dallo sforzo prometeico del Frankestein di Mary Shelley. La differenza è che a capo di questa schiera di visionari sperimentatori non c’è uno scienziato pazzo ma alcuni degli uomini con più disponibilità economica al mondo, come Elon Musk e Peter Thiel. Se Dio non è altro che un’ideale, e l’uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio, allora è giunto il momento che l’ideale e la copia combacino finalmente e in modo definitivo. Quello che un tempo sarebbe stato un peccato di hybris è oggi una prospettiva di ricerca e di investimento forse velleitaria, ma considerata realistica da molte persone in grado di investire un notevole capitale in termini di risorse ed energie. Ma anche se ci si riferisce a questo superamento di homo sapiens con termini tecnici e medicali come “potenziamento del corpo” e “riprogrammazione genetica”, non sfugge il carattere questo processo alle inquietudini più profonde che si agitano sotto il pensiero religioso.
Cosa c’entra tutto questo con The Magician? Le linee che collegano il libro alle derive contemporanee sono tante e probabilmente travalicano le intenzioni di Maugham, che però ebbe l’acume di tracciare un filo che attraversa la storia umana proprio sul tema del potere, a partire dalle sue digressioni sull’alchimia. Fuori dalla finzione del romanzo l’eredità di Crowley finì davvero per influenzare personaggi che si ponevano, in chiave più o meno rigorosamente scientifica, gli stessi antichi problemi degli alchimisti. Tra questi c’è ad esempio Jack Parsons – di cui parlo nel mio libro Catalogo delle religioni nuovissime –, scienziato che inventò un propellente per razzi rivoluzionando la scienza missilistica, il quale era allo stesso tempo un seguace di Crowley e un interlocutore dei cosmisti russi, e cioè i precursori del transumanesimo attuale.
Certo, si può obiettare che in fondo la fascinazione per il potere, così come il desiderio di sconfiggere la morte, sono cose vecchie quanto l’essere umano. Ma in momenti paralleli tecnologia e magia, approfittando della perdita di presa sul mondo da parte della religione, hanno rivisitato il mito di Prometeo da prospettive opposte che però, in certi momenti hanno finito per toccarsi. Se la tecnologia ha però conquistato un immaginario positivo (oggi forse meno di prima), ciò non toglie che anch’essa, pur propugnando una trasformazione radicale del mondo e del corpo che rivoluzionerà l’intera specie umana e la vita sul pianeta, di fatto promette un paradiso che sarà, almeno in una prima fase, a portata di mano soprattutto dei ricchi e dei potenti del pianeta. Fosse anche possibile avere un corpo e una mente potenziata, chi potrà mai permettersi queste sofisticate tecnologie? Si creeranno due classi di uomini, o addirittura due specie distinte tra chi ha avuto accesso a questo snodo dell’evoluzione e a chi non ci si è potuto avvicinare?
L’ambiguità di fondo dell’accelerazione tecnologica nell’era del tardo capitalismo è che si vende come quella dell’era industriale, come qualcosa di rivoluzionario che cambierà la vita di tutti; cosa che forse a un certo punto avverrà pure, ma come effetto secondario di un arricchimento per pochi, oppure non avverrà mai, perché lo scopo ultimo che spinge gli esseri umani a investire le proprie risorse è quello di sentirsi migliori degli altri. Il transumanesimo dei proprietari delle grandi industrie ha il pregio di rendere esplicito questo processo. Dall’altro lato, invece, maghi ed esoteristi danno gioco facile a Maugham nel mettere in evidenza un’ambizione latente nel genere umano che è sì di immortalità, ma è soprattutto legata al desiderio di sentirsi superiori. A esprimerlo in modo chiaro, nel romanzo, è il dottor Porhoët, che a corollario dei suoi lunghi anni di studi delle scienze dell’occulto trae la seguente conclusione:
Era uno strano sogno quello inseguito da questi maghi. Volevano farsi amare da chi amavano e vendicarsi di chi odiavano, ma, soprattutto, cercavano di diventare più grandi degli uomini comuni e di esercitare il potere degli dei.
Umani troppo umani che sognano di diventare divinità.