Vi proponiamo un inedito di Elaine Castillo, scritto per LETTERATURE – Festival Internazionale di Roma, che si tiene alla Basilica di Massenzio.
D a anni circolano, riguardo alla scrittura e alla didattica della scrittura, convenzioni talmente diffuse che, quando ci si mette a pensare al come o al perché si scrive, spesso le si sente orbitare ai margini della consapevolezza. Per esempio: «Scrivi di quello che sai». Oppure: «Non raccontare, mostra». Ma se io penso alla pratica di scrittura decoloniale e alla didattica di scrittura decolonizzata che mi servirebbero, e che cerco, e che vorrei creare io stessa, non di rado mi accorgo che avrei preferito sentirmi dire qualcosa di diverso.
Avrei preferito sentirmi dire qualcosa tipo: Scrivi di quello che non sai, di quello che credi di sapere. Scrivi ciò che non ti sei mai permessa di chiamare sapere, di ciò che vedi, senti e vivi. Mostra ciò che va oltre la tua capacità di raccontarlo. Racconta ciò che supera la tua capacità di mostrarlo. La logica dell’autorità ci dice che gli scrittori hanno un potere, e questo è sicuramente vero; ma allora abbiamo anche la responsabilità di capire verso dove quest’energia può essere deviata, dove sono le interruzioni lunghe, o addirittura storiche, in quella gigantesca rete elettrica globale che chiamiamo «letteratura».
Quando penso alla scrittura, soprattutto da figlia di una diaspora, penso anche ai silenzi, alle cancellature, agli oblii e ai falsi ricordi, alle sacche di incapacità espressiva; a quanto in me è senza nome, e potrebbe toccare o essere toccato da quanto è senza nome in altri. In fin dei conti molti di noi non sono narratori; o quanto meno, non sono solo quello. I miei genitori erano tanto narratori quanto custodi di silenzi: erano immigrati che così spesso chiudevano il cancello del silenzio, su pezzi delle loro vite che non riuscivano a conciliare con quella attuale, da darmi la sensazione di averli conosciuti solo nella loro terza o quarta vita, perché le loro esistenze precedenti restavano per me opache, inconoscibili e impossibili; oppure raccontavano storie per dare un senso minimo, fortuito e alla fin fine ottimistico alle loro diasporiche vite dimenticate, ma gran parte di queste storie erano incomplete, o revisioniste, e rielaborate ai limiti della mitologia.
Sono figlia di una diaspora, dicevo, e come a tanti altri simili a me, così mi arrivavano le storie: butterate di vuoti, silenzi, bugie. Che le nostre vite ci siano spesso incomprensibili non è solo un fatto umano, una parte del mistero dell’essere vivi, dello stare al mondo; è anche un elemento fondamentale del retaggio della colonialità. Tra noi c’è chi ha visto le proprie storie rimosse, cancellate o disperse, e mai si è pensato che dovesse rimetterle insieme, tutte quelle cose scheggiate e deformate. E il tentativo di raggiungere una minima comprensione della nostra vita solo mediante le istituzioni della colonialità – l’autorità e il potere con cui promette di salvarci, definirci e proteggerci – sarà sempre inadeguato, perché la sostanza delle nostre storie e di come noi ci viviamo dentro – e più ancora, di come loro vivono in noi – è un archivio che va oltre la logica dell’archiviazione.
Pensiamo alla citazione da A Tempest, una pièce del poeta martinicano Aimé Césaire, la cui opera spesso si scontra con i retaggi della colonizzazione francese dei Caraibi e il cui dramma si scontra con l’opera di Shakespeare, uno tra i massimi esponenti di ciò che in Occidente definiamo «classico»… il che, ovviamente, è anche il nostro argomento di stasera. Césaire scrive del noto stregone esule e retto duca di Milano immaginato dal Bardo, Prospero, a cui qui si rivolge il suo schiavo, Calibano:
Prospero, voi siete maestro di illusioni.
La menzogna è il vostro sigillo.
E così tanto mi avete mentito
(mentito sul mondo, mentito su di me)
da finire con l’impormi
un’immagine di me.
Sottosviluppato, mi marchiaste,
inferiore,
in questo modo mi obbligaste a vedermi
io detesto quell’immagine! E per giunta, è una menzogna!
Ma ora vi conosco, vecchio canchero,
e conosco anche me stesso.
Sapere che ci sono saperi che mai vengono considerati, e men che meno registrati come tali: è questo, l’inizio di una scrittura decoloniale. È l’inizio di una resa dei conti con i limiti dell’autorità, e dell’arte. Non c’è comprensione dei classici che sia completa – con il suo ieri, oggi o domani – senza questa resa dei conti.
E allora, se vogliamo parlare di classici, dobbiamo parlare di potere. E se vogliamo parlare di potere, dobbiamo parlare di… principesse. Ebbene sì, di principesse, e di mostri, miti e fiabe, perché queste sono le primissime storie che ciascuno di noi sente, e quindi non soltanto sono le prime narrazioni sul potere a entrare nelle nostre vite, ma anche le prime narrazioni che hanno il potere di entrare nelle nostre vite: le prime storie a esercitare un vero potere su di noi, quelle che iniziano a plasmare le persone che diventeremo.
Vorrei concentrarmi sul rapporto fra il mito e quelle che oggi possiamo considerare narrazioni culturali più ampie, e sulla maniera in cui proprio il mito continua a essere trasmesso e quindi autorizzato a sopravvivere. In quanto lettori e scrittori, è urgente per noi riflettere su questo rapporto, e riflettere sui contesti narrativi entro cui tutti viviamo e lavoriamo, che si sia romanzieri, poeti, saggisti o un qualche ibrido dei tre, e comprendere che siamo gli eredi, in ogni possibile veste (qualcuna benevola, qualche altra meno) di una certa ecologia del narrare che plasma il modo in cui vediamo noi stessi: e di conseguenza, come vediamo gli altri, cosa riteniamo che sia una lingua, cosa un mostro, cosa una donna.
E allora, a cosa ci riferiamo quando parliamo di mito, o di favola? Magari parliamo dell’Iliade, dell’Odissea, del Rāmāyaṇa. Magari parliamo di fiabe, della Bella addormentata nel bosco e di Cenerentola. Di norma pensiamo a narrazioni culturali primitive, solitamente originate per trasmissione orale, spesso dalla paternità contestata o incerta, e che di norma vengono usate per capire e interpretare le prime fasi della storia di un popolo; i suoi grandi eroi, le sue grandi bellezze, i grandi cattivi e i grandi mostri, le grandi battaglie, le grandi storie d’amore, le grandi tragedie.
Ora devo svelarvi un segreto: a diciott’anni pensavo di fare la classicista. Sì, all’università ho studiato greco antico e anche latino; ho letto l’Iliade in originale e in uno dei miei primi esami ho preso un voto altissimo con la traduzione di un brano di Erodoto. Mi sa che pensavo di diventare la Anne Carson filippina. Il che rende ancor più toccante il mio essere a Roma stasera, e proprio in questo luogo; in un’altra vita avrei potuto trovarmici per fare delle ricerche, o persino uno scavo archeologico, e invece sono qui per dare vita in un altro modo a quel mio amore infantile per i miti.
Siccome una volta volevo diventare classicista, devo aggiungere che trovo l’aspetto magniloquente del mito e della sua interpretazione – identità nazionale, racconti eroici – molto meno interessante di altri elementi che possiamo individuare, e animare, nei miti che ereditiamo. La fantasia mitica, in definitiva, si ritrova spesso a rimpiazzare una forma di propaganda, una specie di modellazione e lettura (di solito travisata) del passato che ne elide opportunamente gli aspetti più sfumati, e spesso opera invece per stabilire dualismi rigidi tra bene e male, eroe e cattivo. Ma sappiamo tutti che queste distinzioni, se davvero esistono, sono molto più complicate di così.
Le storie fondative sono confezionate e possono essere riconfezionate; non ci arrivano in uno stato di neutralità, come spesso siamo portati a credere, e di certo non rimangono in uno stato di neutralità. È dunque utile che lettori e scrittori lo capiscano: quali condizioni mi rendono possibile leggere o scrivere quel che sto leggendo o scrivendo? Non solo: che cosa cerca di dirmi, questa storia, sul mondo che descrive, sull’eroe che descrive, sulla civiltà, ma anche: che cosa mi racconta questa storia, inavvertitamente e forse involontariamente, sul mondo che descrive, tramite ciò che individua come mostruoso? Quando diciamo che sappiamo cosa è un mostro e cosa un eroe, com’è che siamo venuti a saperlo? E cosa ci consente di credere, quel sapere, riguardo al nostro mondo, e come plasma la nostra maniera di vivere in quel mondo, per tacere della maniera in cui noi vi leggiamo e scriviamo?
Quando ero piccola, una delle mie fiabe preferite era Cenerentola; da bambina ho visto la versione animata della Disney e ricordo di non essere stata tanto interessata a Cenerentola o al Principe Azzurro, quanto completamente conquistata dai bruni topini lavoratori che in sostanza Cenerentola civilizza, riveste, battezza e usa come operai e alleati. Poi, ovviamente, ho scoperto la fiaba di Cenerentola com’era stata scritta dal francese Charles Perrault.
Perrault scrive la sua versione di Cenerentola nel 1697. Nello stesso anno in Francia si firmava il Trattato di Ryswick, con cui l’impero spagnolo cedeva la porzione occidentale di Hispaniola, l’attuale Haiti, alla corona francese. A quel punto i francesi ribattezzano il loro nuovo possedimento Saint-Domingue, e fanno quel che i colonizzatori europei dell’epoca erano soliti fare: trasformano la colonia in una piantagione di zucchero, annientano quasi del tutto la popolazione indigena Taino e importano schiavi africani per lavorare la terra.
Cito questi fatti perché la versione di Perrault è la prima, fra le storie di Cenerentola, a menzionare la celebre zucca che si trasforma in carrozza per portarla al ballo.
Solo che le zucche – anzi, le Cucurbitacee in generale – non sono originarie della Francia, e nemmeno dell’Europa. Vengono, al contrario, dalle Americhe. Erano un alimento base dei Taino.
Vale a dire: la più nota versione di Cenerentola è una storia coloniale. La fiaba di Charles Perrault, questo classico d’Occidente, reca la traccia indelebile del mondo in cui circolava. Questi miti, racconti popolari e fiabe spesso recano la traccia di molte fate e tradizioni senza nome; senza la cui esistenza non esisterebbero i racconti, ma la cui presenza in questi stessi racconti spesso viene trascurata o rimane sotto traccia, per affiorare solo come zucca che si trasforma in carrozza o come selvaggio da uccidere.
Nel 1662, trentacinque anni prima della pubblicazione della Cendrillon di Perrault, Luigi XIV commissionò una tre giorni di celebrazioni per la propria ascesa al trono. Il festival si chiamava Le Carrousel e aveva per tema la «Battaglia delle Nazioni», tra cui la prima e principale era Roma antica, con la quale la Francia stessa era fusa nei simboli e nell’iconografia in una sorta di metafora vivente delle antichissime, e quindi sostanzialmente divine, origini dell’impero francese. Lo stesso sovrano era ritratto in guisa di imperatore romano, e gli eroi di Francia venivano raccontati come discendenti di eroi omerici come Achille.
Durante questo festival a tornei, l’imperiale e divina squadra della Francia-come-Roma sconfiggeva simbolicamente quattro nazioni barbare: America, Turchia, Persia e India, ognuna delle quali rappresentava un’area di grande interesse coloniale francese. La descrizione degli amerindi è particolarmente sinistra; mentre gli altri «barbari» sono abbigliati con sete e gioielli, dell’amerindio si dice che indossa pelli di animali; praticamente, un animale anche lui. In breve, questa Battaglia delle Nazioni non fu che un miscuglio di storia inventata, un esempio di come si consolida l’identità nazionale mediante l’autocelebrazione masturbatoria e la demonizzazione premeditata del forestiero e soggiogato: una roba che il dorato puttanaio dell’odierna politica statunitense troverebbe forse troppo discreta.
In termini d’importanza storica il festival citato non è unico, né granché degno di nota. È però degno di nota il fatto che a stendere la relazione ufficiale su questo Carrousel delle Nazioni, nel 1662, fosse chiamato non altri che Charles Perrault. Questo, è il contesto dell’uomo che scrisse le fiabe che oggi conosciamo e amiamo; questo è il mondo che lo creò, e il mondo che lui contribuì a creare, e che oggi abbiamo ereditato.
Nel suo The Story Time of the British Empire («Fiabe della buonanotte dell’Impero britannico»), la studiosa indiana Sadhana Naithani analizza la strettissima dipendenza della trasmissione di ciò che oggi chiamiamo folklore dal rapporto fra l’impero coloniale e i popoli assoggettati; in tutto il mondo il folklore è stato raccolto dai colonizzatori europei, e quella raccolta è stata funzionale alla creazione di ciò che l’autrice definisce «archeologia coloniale della conoscenza». Scrive Naithani:
Difficile sopravvalutare l’importanza del narrare storie nella vita privata e pubblica degli individui e delle società… Nel processo narrativo le culture si formano, si riformano e si distruggono. Anche i poteri politici, nel loro processo di istituzione e affermazione, sono accompagnati dal racconto… Come ha creato, quest’impero, la propria identità? Come l’ha comunicata? Quali storie ha raccontato di sé? Come le ha create? Cos’hanno a che fare, queste storie, con la percezione che abbiamo oggi del mondo?
Le narrazioni che ereditiamo e cancelliamo, così come quelle che creiamo o ignoriamo, non sono mai neutre né astoriche, e la forza che portano con sé è in grado di influenzare, consciamente o no, il nostro modo di leggere il mondo, e di conseguenza il nostro modo di scriverlo; quelli che definiamo i nostri classici, e i classici che condanniamo il mondo a non conoscere mai. Dunque in quanto narratori, e soprattutto narratori che si scontrano con i retaggi della colonialità nella vita e nel lavoro, come facciamo a vedere il potere della narrativa anche come potere non del tutto innocente, come potere che può convogliare in sé anche la capacità di violenza e cancellazione epistemica, di un tipo che spesso siamo riluttanti a riconoscere? E come facciamo a contrastarlo?
Per esempio ricordando o, ancor meglio, ri-membrando. I figli delle diaspore conoscono il potere letterale della ri-membranza, giacché «diasporico» deriva dal greco diaspeirein, sparpagliare, disperdere. Se la diaspora è l’essere sparpagliati e smembrati, allora il ri-membrare decoloniale – e lo scrivere decoloniale – consistono letteralmente nel rimettere insieme questo mondo diviso. Senza cancellare o riavvolgere quanto è successo: né il narrare né il ri-membrare – né il vivere, se è per quello – vanno così lisci. Noi pure rechiamo le tracce di ciò che ci è successo; fessure, fratture e vuoti sono parte di ciò che siamo.
Prendiamo per esempio il fatto che di cognome io mi chiamo Castillo. La mia famiglia, e gran parte dei filippini, lo pronuncerebbero Cast-ILL-iò e non alla spagnola, cioè Ca-sti-io: quella pronuncia è un atto di ri-membranza.
Non saprò mai come si chiamavano, i miei avi, prima che gli spagnoli gli strappassero il nome e li ribattezzassero Castillo, per semplificare la vita ai nuovi governatori coloniali che sull’isola di Luzon rinominarono tutti e via, in ordine alfabetico da nord a sud; la famiglia di mio padre è del Nord, e quindi il cognome inizia per «c». L’orrore può dispiegarsi anche così, come niente: cognomi gettati via per un fatto di efficienza amministrativa. Perciò, anche il mio attuale cognome è di per sé la traccia di un disastro, un disastro che si ripete ogni volta che viene pronunciato. Nonché un’opera di narrativa epica spagnola.
Ma quel piccolo atto resistenziale di ri-pronuncia – il pronunciare quel nome così spagnolo in un modo tutto filippino – raduna i pezzi. Fa qualcosa che non è precisamente nuovo, ma nemmeno è solo quel che era. Crea qualcosa che è anche nostro. È un’opera di narrativa epica filippina, e quindi: un’opera di ri-membranza. Certo, in verità l’opera di ri-membranza è un piccolo lavoro quotidiano, umile e scrupoloso, che non ha mai termine né vera ricompensa: se non nel mondo che ci aiuta a costruire, e nelle vite che ci aiuta a sopportare, e a testimoniare.
C’è una poesia di Orazio che ho sempre amato – e che casca a fagiolo, visto dove siamo stasera! Funziona anche da critica di un certo tipo di scrittura, di un certo tipo di mitopoiesi. Dell’opera di un altro poeta, Orazio dice:
Tu parli sempre molto / […] dei discendenti d’Eaco, / delle grandi battaglie combattute / sotto le mura della sacra Ilio. / Ma quanto invece abbiamo noi sborsato / adesso per quest’anfora del buon vino di Chio, / o chi provvederà con un bel fuoco / a riscaldare l’acqua, / […] e quando potrò infine liberarmi / di questo freddo atroce / che sembra sceso dai monti Peligni… / tu questo non lo dici.
Orazio ci dice una cosa importante sulla scrittura decoloniale. Come persone che combattono il retaggio di ciò che la narrativa ha compiuto – il male che può fare, fino alla distruzione dei nostri nomi – noi abbiamo il dovere di non parlare solo degli alberi genealogici dei nostri grandi eroi o delle sacre battaglie di Troia. La scrittura decoloniale presta attenzione al prezzo di un’anfora di vino di Chio; presta attenzione a chi ci scalda l’acqua per il bagno; ci mostra dove ripararci dal gelo dei monti Peligni. La scrittura decoloniale rifiuta la formula «c’era una volta» perché è una menzogna, una comoda finzione unilaterale. Sa che c’era un tempo preciso, e un posto, e delle persone. Che avevano dei nomi. Che mangiavano la zucca.
Mio padre è morto lontano da casa. E così anche un grande poeta di questa città: Virgilio. Virgilio morì nell’attuale Brindisi, che all’epoca si chiamava Brundisium. Il poeta era in viaggio in Grecia e contrasse una febbre, perché viaggiare compromette il sistema immunitario, come qualunque immigrato sa. Riuscì a tornare in Italia in nave, ma morì poco dopo a causa del corpo estraneo a cui si era trovato esposto all’estero, quale che fosse. Laggiù nel porto di Brundisium, insieme ad altri immigrati, schiavi messi all’asta e prostitute, il celebre poeta morì mentre era ancora in transito. Morì da straniero, malgrado fosse nel suo paese; come morì da straniero anche mio padre, benché fosse un cittadino americano naturalizzato. A lui, l’essere straniero pareva soprattutto un destino, inevitabile e immutabile, e nessuna lontana rinuncia al passaporto filippino lo avrebbe convinto del contrario. Conosceva bene la differenza tra naturalizzati e naturali; e per tutto il tempo in cui l’ho conosciuto, si è considerato uno che viveva in esilio e che in esilio sarebbe morto.
Dante certo ricordava questo fatto, quando fece di Virgilio la sua guida all’Inferno: conoscere una morte da stranieri significa conoscere l’inferno. «Ond’io per lo tuo me’ penso e discerno / che tu mi segui, e io sarò tua guida, / e trarrotti di qui per loco etterno; / ove udirai le disperate strida, / vedrai li antichi spiriti dolenti, / ch’a la seconda morte ciascun grida.»
Per seconda morte, in questo caso, s’intende la morte dell’anima nella dannazione; e tra le dannazioni c’era anche quella di morire da stranieri. Così fu la morte di Virgilio, che un tempo aveva scritto: «Dopo tanto patire, si chiude loro tutto il mondo, e la causa è l’Italia». Il corpo fetido e agonizzante di Virgilio, fragile e umano, sul letto di morte è ancora pieno di versi; anche in punto di morte, ancora il poeta pensava di rivedere l’Eneide; anzi in quel momento avrebbe voluto bruciarla, quella robaccia… sensazione che, ne sono certa, tutti gli scrittori presenti comprenderanno.
«Si chiude loro tutto il mondo.» A dire il vero, non è stato Virgilio a scrivere queste parole; lui, ovviamente, scriveva in latino. Mentre i versi che io ho citato in inglese sono di un tale John Dryden, che tradusse Virgilio, ma aveva scritto anche un lungo poema in onore del neonato principe e futuro del suo Paese: Britannia Rediviva. Prima di scrivere questo poema, Dryden aveva una volta pubblicamente sostenuto l’idea di una Repubblica del Commonwealth; ma poi, evidentemente, aveva cambiato idea. Una volta, troppo giovane, ho letto un po’ di questo Britannia Rediviva, ma era pieno di cose che all’epoca compresi a malapena: su monarchi sacri e barbari senza legge, sulla tragedia dei re esiliati e il disordine lasciato in loro assenza; su quanto brutta e spaventevole si era scoperta essere la libertà, almeno agli occhi di questo poeta inglese.
«Ciechi come il Ciclope, e come lui selvaggi, / Godevan d’una libertà priva di leggi; / Qual quella che stimavan gli avi nostri, tinti in volto / avanti le civili arti dell’impero aver accolto.»
Senza un re, non siamo molto più dei selvaggi che abbiamo civilizzato, afferma Dryden; è la sua argomentazione per la monarchia e contro la repubblica. Dryden pensava inoltre che il suo re dovesse dare una bella spinta al commercio navale, soprattutto in posti tipo i Caraibi, l’Estremo Oriente e il Nordamerica. «Or la Nazione nostra, di un unico interesse benedetta / Non paga di pesar, vedrà che ogn’altra sottometta. / Mai estera Frontiera la potrà limitare, / Ma scorrerà infinita, come il Mare.»
Ciechi come il Ciclope, e come lui selvaggi, scriveva Dryden. Eccoci, dunque, nello ieri dei classici: ciechi e selvaggi.
Ma il Ciclope non è sempre stato cieco, vero? O almeno, uno specifico Ciclope: Polifemo, che nell’Odissea omerica viene accecato da Odisseo. La cecità del Ciclope non è un tratto genetico, bensì una specifica ferita, con una sua specifica storia. In seguito, però, chiunque ha preso a dare dei ciechi a tutti i Ciclopi, senza mai chiedersi quale tra loro fosse stato accecato, e da chi, e perché. Bene, parliamo di quella storia.
Comincia così: Odisseo e gli altri suoi compagni d’arme approdano sull’isola di Polifemo; hanno appena finito di razziare la città di Ismaro sulla via del ritorno da Troia, hanno ucciso gran parte degli uomini e si sono divisi le donne e il bottino. Ed è solo perché si sono fermati a Ismaro troppo a lungo, tra una baldoria e uno stupro, che i pochi isolani superstiti, con i loro alleati, riescono a tornare in numero maggiore e a scacciarli, uccidendo sei componenti dell’equipaggio.
È dunque in questo stato d’animo, furibondi per la razzia interrotta, che Odisseo e i suoi uomini arrivano sull’isola dei Ciclopi. A malapena ci hanno dato un’occhiata, ma già sanno – e lo sanno perché è una loro prerogativa sapere queste cose, in questi modi – che malgrado il suo aspetto paradisiaco, o forse proprio per quello, l’isola è un luogo senza legge, pieno di cannibali. Chiunque non mangi pane lievitato dev’essere per forza un cannibale, si dicono. Uno che non è degno di non venire ingannato, di rimanere incolume, intero.
Nell’epos omerico, è Odisseo a raccontare la storia. La racconta ai Feaci, il popolo più civilizzato di tutto il poema, l’immagine capovolta dei Ciclopi. Insomma, Odisseo narra:
Di là navigammo avanti, sconvolti nel cuore, e dei Ciclopi alla terra, ingiusti e violenti, venimmo, i quali fidando nei numi immortali, non piantano una pianta di loro mano, non arano; ma inseminato e inarato là tutto nasce, grano, orzo, viti, che portano il vino nei grappoli, e a loro li gonfia la pioggia di Zeus. Non hanno assemblee di consiglio, non leggi, ma degli eccelsi monti vivono sopra le cime in grotte profonde; fa legge ciascuno ai figli e alle donne, e l’uno dell’altro non cura. Un’isola piatta davanti al porto si stende, non vicina, né molto lontana dalla terra dei Ciclopi, boscosa, e vi nascono capre infinite, libere: passo d’uomini mai le spaventa, né i cacciatori le inseguono, che tra le selve sopportano stenti, correndo le cime dei monti. Né da pastori son possedute, né da aratori, ché l’isola, sempre inseminata e inarata, d’uomini è vuota, nutre capre belanti.«Non hanno i Ciclopi navi dalle guance di minio, non mastri fabbricatori di navi ci sono, che sudino a far navi solidi banchi e queste poi tocchino, uno per uno, i borghi degli uomini, come gli uomini spesso, gli uni gli altri cercandosi, il mare sulle navi traversano; essi potrebbero anche far l’isola ben abitata, perché non è sterile e produrrebbe ogni sorta di frutti. Vi son prati, del mare schiumoso lungo le rive, umidi e morbidi: e vigne durevoli potrebbero crescervi. Facile v’è l’aratura e folta sempre la messe alla stagione potrebbero mietere, ch’è molto pingue il suolo di sotto. C’è un porto comodo, dove non c’è bisogno di fune, o di gettar l’ancora o di legare le gòmene, ma basta approdare e restare a piacere, fino a che l’animo dei marinai non fa fretta o non spirino i venti. In capo al porto scorre acqua limpida, una sorgente sotto le grotte: pioppi crescono intorno.
E qui Odisseo fa un sospiro teatrale, sistemandosi un immaginario elmo coloniale. Omero ci mostra Odisseo che tiene questo discorso per farci capire che lui è un uomo civile; perché dove gli altri vedono una natura selvaggia, lui vede un grande potenziale agricolo. E inoltre, bisogna anche capire che i Ciclopi sono dei selvaggi proprio perché non hanno fatto ogni cosa che era in loro potere fare per sfruttare tutto il terreno disponibile, e anche di più.
I Ciclopi vivono «fidando nei numi immortali» afferma Odisseo, sprezzante; ma fidare nei numi, a quanto pare, non basterà a proteggerli dal popolo delle navi.
Odisseo e la sua flottiglia sbarcano dunque sull’isola «incontaminata», uccidono le capre selvatiche per mangiare, si ubriacano come tifosi in trasferta. E lui prosegue: «… in breve ci diede un dio una caccia abbondante. Mi seguivano dodici navi, e per ciascuna toccarono nove capre ai compagni: dieci per me solo ne scelsero. Così tutto quel giorno, fino al calar del sole, sedemmo a goderci carni infinite e buon vino».
Il giorno seguente Odisseo dice ai suoi che andrà a vedere che tipi sono questi Ciclopi: «Voialtri ora aspettatemi, miei cari compagni; io con la mia nave e la mia ciurma andrò a esplorare queste genti, chi sono, se son violenti, selvaggi, senza giustizia, o amanti degli ospiti».
È facile immaginare gli eleganti, profumati e ben nutriti Feaci che a ogni sensazionale dettaglio si fanno sempre più attenti; loro, ascoltatori della storia, sanno bene che gente sono, naturalmente.
Allora Odisseo comincia a strafare: «Qui un uomo aveva tana, un mostro, che greggi pasceva, solo, in disparte, e con gli altri non si mischiava, ma solo viveva, aveva animo ingiusto. Era un mostro gigante; e non somigliava a un uomo mangiatore di pane, ma a picco selvoso d’eccelsi monti, che appare isolato dagli altri.»
E quindi, mentre Polifemo è fuori a pascolare le greggi – occupazione, si noti, che richiede cura e attenzione costanti, altro che la stolida ribalderia che Odisseo gli attribuisce – lui e i suoi penetrano nella caverna del gigante, zeppa di agnelli chiusi nei recinti, formaggi ad asciugare e catini di siero. Il «selvaggio» Polifemo, si scopre quindi, è un mastro casaro; anzi, secondo Omero è proprio a lui che il mondo deve il primo formaggio (la feta, per la precisione). Insomma il «selvaggio» Polifemo è il primo essere, letteralmente, a produrre cultura.
Gli uomini di Odisseo esortano il capo alla fuga, a prendersi agnelli e formaggelle e andarsene. Ma Odisseo è un esploratore e vuole conoscerlo, il Ciclope. Perciò lui e i suoi restano, accendono il fuoco e continuano a mangiarsi la feta artigianale del selvaggio.
Polifemo torna e, senza accorgersi degli intrusi, si rimette alla sua opera di casaro, che Omero descrive in particolari addirittura affettuosi.
Portava un carico greve di legna secca, per la sua cena. E dentro l’antro gettando produsse rimbombo: noi atterriti balzammo nel fondo dell’antro. Lui nell’ampia caverna spinse le pecore pingui, tutte quante ne aveva da mungere; ma i maschi li lasciò fuori, montoni, caproni, all’aperto nell’alto steccato. Poi, sollevandolo, aggiustò un masso enorme, pesante, che chiudeva la porta: io dico che ventidue carri buoni, da quattro ruote, non l’avrebbero smosso da terra, tale immensa roccia, scoscesa, mise a chiuder la porta. Seduto, quindi, mungeva le pecore e le capre belanti, ognuna per ordine, e cacciò sotto a tutte il lattonzolo. E subito cagliò una metà del candido latte, e, rappreso, lo mise in canestrelli intrecciati; metà nei boccali lo tenne, per averne da prendere e bere, che gli facesse da cena.
Ecco qui il tranquillo, radioso ritratto privato di un uomo solo al lavoro, al centro di tutti i minimi e quotidiani compiti necessari a costruirsi una vita dignitosa: mungere le greggi, cagliare metà del latte, mettere da parte il siero, lasciarne una porzione da bersi la sera… ciascuno degli attenti rituali descritti ci regala una rara e quasi insopportabile intimità. Che in effetti si rivelerà insopportabile agli eroici protagonisti di Omero; con dolore, il poema ci ricorderà che la piccola, banale, certosina vita di Polifemo non è materia d’epica.
Solo al termine delle incombenze di giornata Polifemo accende a sua volta il fuoco, e nota gli itacesi lì ad aspettare. Al vederli, chiede:
«Stranieri, chi siete? E di dove navigate i sentieri dell’acqua? Forse per qualche commercio, o andate errando così, senza meta sul mare, come i predoni che errano giocando la vita, danno agli altri portando?»
Polifemo vuole sapere se sono mercanti, pirati o mercenari. Per un selvaggio, o presunto tale, conosce assai bene la differenza tra amicizia e ostilità; tra incolumità e morte. Odisseo, col sapore di formaggio spilluzzicato ancora in bocca, risponde pretendendo l’ospitalità e i doni che è uso riservare agli ospiti in base alle leggi divine; tutto questo, in greco, si chiama xenia.
Si sente dire spesso – di certo lo dicevano i miei insegnanti – che tutto il mondo omerico, e a dire il vero tutta l’antichità classica, sono fondati su quest’idea di ospitalità, sulla pratica della xenia; ma non è esattamente così. Il mondo omerico non si fonda sull’ospitalità, bensì sui suoi limiti assoluti: chi si aspetta ospitalità e non la ricambia mai, chi la merita e non la riceve mai. Quest’idea di ospitalità è, di fatto, un’idea di civiltà; la xenia è un modo per spiegare cosa significava, per gli appartenenti a quella civiltà, essere ospiti; cosa significava chiedere un favore ad altri; cosa significava entrare nella casa, e quindi nel mondo, di un altro. Ma la xenia è anche uno steccato; un modo per capire chi siamo noi, e chi sono loro.
Oggi li conosciamo bene, questi steccati. Talvolta si tratta di veri e propri muri; talvolta, di gabbie; talvolta, di spogliare del voto una certa area o popolazione; talvolta lo steccato è un cappellino da baseball rosso.
A ogni modo, la cultura del Ciclope è diversa; lui non ci crede, alle leggi della xenia, e non le osserva. Si mangia due degli uomini di Odisseo, perché per lui sono uguali alle pecore; ma naturalmente, quest’atto va a significare che adesso, per Odisseo, Polifemo è condannato. Che il Ciclope viva al di fuori degli usi che lui ritiene universali, a Odisseo figlio di Laerte e uomo pieno di risorse non viene neanche in mente. Che agli occhi di Polifemo, uomini della taglia di Odisseo e dei suoi compagni siano quel che vacche e agnelli sono per l’alimentazione umana, a Odisseo figlio di Laerte e uomo pieno di risorse non viene neanche in mente. Che abbia chiesto ospitalità a un uomo di cui ha violato il domicilio e a cui ha rubato il cibo, a Odisseo figlio di Laerte e uomo pieno di risorse non viene neanche in mente.
Quando l’ora segnata dal destino giunge e Odisseo infilza Polifemo nell’occhio, uccidendolo, l’eroe mente al Ciclope e gli dice di chiamarsi Outis, «Nessuno»: cosicché, al compimento dell’atto scellerato il gigante urla di dolore: «Nessuno, amici, m’uccide d’inganno e non con la forza!» Si tratta della nota e paradossale avventura del Ciclope, quella che forse conosciamo meglio.
E si tratta anche della trappola geniale tesa da Odisseo: una trappola che, di base, è una struttura sociale. L’eroe rimane impunito perché può dettare le condizioni della propria visibilità e conoscibilità; acceca Polifemo non solo fisicamente ma anche socialmente, perché ora il Ciclope non è più in grado di sapere, e nemmeno di riferire, chi è stato a ferirlo. Odisseo ci mostra come si distrugge una vita senza mai doverne rispondere. Ma è poi vita, la vita di un selvaggio?
Eppure Odisseo non si accontenta dell’anonima sicurezza della fuga. Dopo aver mutilato l’occhio di Polifemo, alla fine non resiste alla tentazione di rivelare il proprio vero nome e dice: «Ciclope, se mai qualcuno dei mortali ti chiede il perché dell’orrenda cecità del tuo occhio, rispondi che Odisseo t’ha accecato, il figlio di Laerte, che in Itaca ha casa».
La vanteria è una carta d’identità gettata ai piedi del Ciclope, e fa più male del palo arroventato nell’occhio. Distruttore di rocche, prode guerriero, uomo pieno di risorse, figlio di, nato a. È la fiducia nel suo proprio contesto, la maggior forza di Odisseo; il suo più grande privilegio e la sua più efferata crudeltà. Sarà anche in viaggio, ma non è un migrante; uomo pieno di risorse, con uso di mondo, abile diplomatico, amante della refurtiva e dei giochi sadici… Odisseo ha sempre una casa a cui tornare. Ovunque vada porta la civiltà, al prezzo della disperazione altrui.
Diversamente da Virgilio, Polifemo muore a casa sua; eppure, come quella di Virgilio, anche la sua è una morte da straniero. Nel mio primo romanzo c’è una frase che dice: «La prima cosa che rende estranei a un luogo è nascerci poveri». Polifemo muore a casa sua, ma Odisseo ve lo ha reso estraneo; barbaro, selvaggio, uno di cui si può invadere il mondo per farlo a pezzi, e poi abbandonarlo a morire.
Questa storia poteva tranquillamente concludersi migliaia di anni dopo, con un ammiraglio spagnolo che parla di tutt’altra isola; e invece il racconto prosegue senza perdere un colpo:
Non usano armi, né le conoscono, tanto che mostrai loro le spade e le prendevano dalla parte del filo e si ferivano per ignoranza. Non hanno nessuna sorta di ferro, le zagaglie loro sono aste senza ferro, talune portano sulla cima un dente di pesce, altre di altre cose. Generalmente sono tutti di buona statura, di modi gentili e ben fatti. Notai di alcuni di loro che portavano sul corpo come segni di ferite, domandai a gesti che fosse mai ed essi mi fecero intendere come arrivasse gente da isole vicine per catturarli e loro se ne difendevano. E io credetti e credo che venga qui gente da terraferma per catturarli e farli prigionieri. Devono essere buoni e di ingegno vivace che m’avvidi che in breve tempo ripetevano ciò che dicevo loro. E credo che facilmente si farebbero cristiani perché mi parve non avere essi alcuna religione. Io, a Nostro Signore piacendo, quando mi partirò da qui, porterò con me sei di questi uomini che condurrò alle Vostre Altezze affinché imparino a parlare. Nessuna bestia di nessuna sorta vidi, salvo pappagalli, in questa isola.
Chi parla è Cristoforo Colombo, o Cristobal Colón, e pare proprio di sentire il suo avo Odisseo, figlio di Laerte, uomo pieno di risorse. Noterete che è solo dopo aver accennato ai selvaggi, i quali vorrebbe portare indietro come souvenir, che di colpo gli vengono in mente le bestie; come ad aggiungere, tutto allegro: «Già che siamo in argomento!».
C’era un corso seminariale che ho seguito per un po’, per poi abbandonarlo di corsa, in cui quasi tutti i testi in esame erano di artisti e pensatori bianchi ed etero; in cui quasi tutti i docenti erano bianchi ed etero; in cui un importante scrittore europeo, autore di un romanzo sulla vita di un colonialista inglese, quando l’unica donna nera in aula (ma in effetti, in tutto il corso) gliene chiese conto difese senz’altro il proprio spigliato uso della parola con la «n»; in cui un celeberrimo filosofo europeo usava fare abitualmente battute il cui perno andava sempre a toccare la violenza sessuale contro donne e bambini, o un’enfatica ossessione per i genitali dei maschi neri, e queste sue battute erano inevitabilmente accolte da un pubblico di giovanotti adoranti, soprattutto bianchi, che ridevano sempre; e un corso in cui quasi tutte le addette della mensa alberghiera dove gran parte degli studenti faceva colazione, pranzava e cenava, erano ragazze asiatiche che, quando gli ho chiesto se potevamo parlare un po’, mi hanno risposto che non avevano tempo di parlare, che cominciavano molto presto e finivano molto tardi, e nel frattempo si guardavano furtivamente alle spalle per vedere se il padrone dell’albergo (bianco, europeo, ricco e noto per l’atteggiamento predatorio verso le ragazze del corso) stava ascoltando.
Era un corso in cui una volta un giovane studente bianco ed etero ha preso in giro un gruppo di compagne etero dicendo: «Pare siano loro, le padrone della loro vagina!»; in cui il direttore bianco mi chiese di partecipare più attivamente alle lezioni e agli incontri serali (spazi fortemente machisti ed eurocentrici, palesemente inospitali per le donne o le persone di colore che prendevano la parola, se quelle stesse persone rifiutavano di depoliticizzare sé stesse o le proprie posizioni), al che io risposi che parlavo se mi andava, e che non intendevo lasciarmi costringere alla parola proprio come non mi sarei lasciata costringere al silenzio… al che lui a sua volta rispose: «Ma basta, con queste stronzate femministe!».
Era un corso in cui ho visto il filosofo Alain Badiou tenere una lezione scintillante su cambiamento e rivoluzione, il suo francese tradotto da due studenti di colore, la sua analisi splendida e raffinata al pari delle sculture rinascimentali che si trovano nei musei di tutta Europa, alcune anche qui a Roma, nel Foro o a Villa Borghese, e che con tanto genio, talento e innegabile abilità artistica ritraggono: donne stuprate dal tale virilissimo dio, dal tale adorabile mascalzone, o da un elegantissimo cigno, chissà dove, in un qualche spazio e tempo vago, distante, sufficientemente atemporale e aspaziale.
Una volta un altro scrittore e curatore mi ha chiesto un saggio per un’antologia: le mie opinioni su poetica, politica e avanguardia. E per fornirmi un contesto mi inviò l’ultima delle quindici tesi di Alain Badiou sull’arte contemporanea, che dice così: «È meglio non fare nulla che contribuire formalmente alla visibilità di ciò che, per l’Impero, già esiste».
Dopo aver letto questa, mi sono procurata e letta le altre tesi sull’arte contemporanea che Badiou ha esposto.
Per esempio la numero due: «L’arte non può essere l’espressione di una particolarità (sia essa etnica o personale). È la produzione impersonale di una verità che si rivolge a tutti».
O la numero cinque: «Tutta l’arte proviene da una forma impura, e la purificazione di questa impurità dà forma alla storia, sia della verità artistica, sia del suo esaurimento».
Ed ecco alcune delle domande che avrei voluto fare alle donne asiatiche che servivano in mensa e agli studenti che traducevano Badiou: che film mettono i vostri genitori quando siete a casa? Che musica ascoltate in cuffia? Vi capita mai di abbassarla perché temete che i bianchi nei paraggi si lamentino del volume o del linguaggio dei testi? Vi accorgete che per certa gente fate sempre troppo rumore, anche quando state zitti, che è come se la vostra faccia facesse un rumore a cui loro si sono naturalmente (socio-culturalmente) adattati, come segugi che fiutano l’odio e la paura? Vi capita mai di usare termini di parentela con gli amici? Dove vengono sepolti, sparsi, messi in mostra o lasciati i vostri morti? È vicino a dove vi trovate ora? Qual è la probabilità che anche voi, da morti, sarete sepolti, sparsi, messi in mostra o lasciati nello stesso posto? In che modo vi hanno insegnato a condire i cibi amidacei? Chi ve l’ha insegnato? Se sapete di dover prendere un autobus per il centro, vi vergognate di avere i vestiti impregnati di certi odori di cibo: salsa di pesce, cumino, aglio, qualunque cosa fermentata? Quando siete su quell’autobus e vi chiama un amico o un parente con cui non potete parlare in una lingua europea, abbassate la voce perché, se parlate a volume normale, lo sguardo degli altri su di voi ha delle oscillazioni pazzesche, e di solito in relazione a quanto più grossi o scuri siete – se portate una felpa con cappuccio – se siete sole o con un marito bianco – se vi si vedono o non vi si vedono i capelli – se avete l’aria di poter sopraffare chi vi guarda – se avete l’aria di poterne essere sopraffatti?
Qualunque tesi artistica stimi l’astrazione come vertice della creatività, avendo come modello e obiettivo la purificazione – la «produzione impersonale di una verità che si rivolge a tutti», come dice Badiou – potrà solo deluderci, finché non riconosciamo che le ideologie di astrazione e purezza sono sempre state, nella storia, strategicamente indispensabili alla cancellazione, allo sfruttamento, all’umiliazione e all’esclusione dalla cultura dominante. Per quanto tempo si potrà continuare a liquidare la realtà materiale delle nostre vite come «mera particolarità», notevole solo perché va espunta, come quando uno studente scrive ai margini del foglio i passaggi con cui risolve un’equazione e poi si affretta a cancellarli, in modo che sulla pagina non resti che la soluzione, fulgida, immacolata, incontrovertibile? Io mi chiedo: che c’è di così svilente nell’«etnico» e nel «personale», di così infetto che l’idea dell’arte contemporanea di Badiou deve tremare per la ripulsa che ne prova?
Oppure, e forse peggio: a volte l’etnico e il personale non vengono espunti affatto, bensì selezionati, laccati e idolatrati, trasformati in elementi d’interesse etnografico, al punto che il nostro merito come artisti di colore viene legato inscindibilmente al nostro valore di merce esotica; al punto che i lettori che poi fruiscono delle nostre storie cercano solo una pornografia della tragedia, in un esercizio turistico che corrompe tutta la nostra cultura di lettori, non solo intellettualmente ma anche moralmente. Per troppo tempo ci siamo rivolti agli autori di colore per istruirci sulla storia dimenticata e sulle sacche nascoste del mondo: storia che dobbiamo ricordare, sacche del mondo che dobbiamo rendere visibili, come stasera ho chiarito. E tuttavia, far questo senza premure né sfumature, farlo senza riflettere sul nostro ruolo in queste storie, spesso significa strumentalizzare quegli autori e la loro arte, fare di loro i nostri docenti, prima di dargli una possibilità di diventare i nostri artisti. Questo spesso crea un divario tra quelli che potremmo chiamare scrittori minoritari, e scrittori della cultura dominante: ricorriamo ai minoritari per apprendere il particolare, ma ci rivolgiamo ai dominanti per percepire l’universale. In altre parole, da una scrittrice bianca possiamo apprendere del dolore, della rabbia e della femminilità; ma da una scrittrice filippina apprendiamo solo del dolore filippino, della rabbia filippina e della femminilità filippina.
Badiou, tesi numero nove: «L’unico precetto dell’arte contemporanea è che non deve essere imperiale». Numero undici: «L’astrazione dell’arte non imperiale non riguarda alcun pubblico in particolare. L’arte non imperiale è legata a un aristocratismo proletario: fa quel che dice, senza distinguere fra tipi di persone».
Il punto è che non voglio, e non mi serve, un’estetica dell’arte che si sforzi solo di essere «non imperiale» senza sforzarsi anche di essere esplicitamente decoloniale. La differenza tra il non imperiale e il decoloniale è niente di meno che la differenza tra il modo in cui l’oppresso e l’oppressore fanno esperienza del potere. Del «non imperiale» di Badiou non rimane che un’astratta negazione dell’Impero, come se la violenza imperiale fosse una sgradevole stanza chiassosa dalla quale basta uscire.
Eppure molti di noi sanno, e sentono, che le cose sono diverse. L’unico modo di creare spazi – e quindi opere d’arte – realmente non imperiali è tramite un’opera di decolonizzazione, che non può essere praticata senza un’attenzione al particolare, al personale, al materiale e al sensual-storico. «Fa quel che dice, senza distinguere fra tipi di persone»? Come idea di un’arte d’avanguardia non imperiale, questa appare stranamente identica alla visione imperiale. Il fatto che alcuni possano permettersi il lusso di non sentirsi obbligati a distinguere fra tipi di persone non inficia il fatto che – frase surreale da scrivere e, adesso, da pronunciare – esistono diversi tipi di persone, distinguibili le une dalle altre. Una politica dell’arte cieca alle differenze? È una battuta che non fa ridere, ma il suo perno è la mia vita. In altre parole, «non imperiale» è un eufemismo mediocre, il genere di parola che usa chi ha troppa paura, o è inadeguato, o non è disposto a praticare un’autentica decolonizzazione; una anti-colonizzazione.
Forse per alcuni artisti e pensatori è più facile parlare di ciò che a loro sembra indistinguibile, quando si tratta del Grande Non Detto dell’arte e dell’Impero. Ma sapere e sentire che le cose sono diverse – e dunque vivere e creare diversamente – è anche sapere che non c’è mai stato nulla di davvero astratto (indistinguibile) né nell’Impero, né nell’arte. Nulla è apolitico nel nostro agire, nei nomi che gli diamo, o nei modi in cui lo differenziamo dall’agire altrui. E allora come affrontare in maniera più sfaccettata il nostro modo di ricevere, creare e ricreare categorie come verità, realtà, significato, bellezza, maestria, conoscenza, senza dimenticare che proprio queste categorie sono state funzionali al potere tassonomico ed escludente del colonialismo, il quale continua a negare a molti di noi una piena umanità (la verità di chi, la bellezza di chi, la conoscenza di chi)? Le violenze dell’Impero, e l’arte che in esso è implicata, si avvertono nel modo più quotidiano e corporeo, e una tra queste è convincerci che l’astrazione è non solo possibile, ma anzi preferibile; che la gente può essere merce, che le identità sono trascurabili oppure indistinguibili o, al massimo, degne di essere portate al re di Spagna come souvenir.
Prima abbiamo parlato della parola «autore», e di cosa può avere a che fare con l’autorità e con il potere. Adesso dobbiamo chiederci: come respingere, nella pratica creativa e critica come nella didattica, le tendenze che contribuiscono solo a rafforzare le gerarchie, a conservare i privilegi, a fomentare le divisioni e ad alienare gli emarginati? Possiamo pensare l’arte non solo come spazio dell’autorità, ma anche come spazio di ricettività, interdipendenza, disvelamento reciproco e reciproco affidamento; l’arte come luogo di vulnerabilità, intimità, conflitto e connessione? Come intendiamo rendere conto – e alla radice, rendere conto significa letteralmente raccontare la storia di noi stessi – di ciò che abbiamo ricevuto e interiorizzato: conoscenze e sconoscenze, narrazioni, silenzi e violenze, particolarità («etniche o personali»)… tutte cose che ci situano come scrittori e soggetti, troppo a lungo condizionati a segregare tra mente e corpo, tra la nostra storia e le nostre storie, le nostre menate e le nostre opere.
Essere costretti a rendere conto – a tenerci davvero stretti a noi stessi entro la profonda vastità delle nostre storie e rimanere lì, nella loro martellante inconsolabilità – significa far valere, nella nostra arte, non la parte più forte, autorevole e intelligente di noi, bensì: la più specifica, la più precaria, la più sconsolata. Perché un’arte autenticamente urgente e vitale non ci dice che siamo forti e potenti; non ci conferisce autorità, né la esercita. Ci dice che non siamo soli; ci dice che abbiamo bisogno gli uni degli altri; ci dice che, gli uni senza gli altri, non sopravviveremo.
Per concludere questa nostra chiacchierata, parliamo un po’ di tesi, e dell’origine di questa parola.
Temi fu la seconda moglie di Zeus, il sovrano di tutti gli dèi greci. La prima però era stata Meti, il cui nome significa sapienza, talento, astuzia; dal suo nome proviene uno fra gli epiteti con cui spesso ci si riferisce a Odisseo, cioè polýmētis, l’uomo dai mille inganni, dalle mille risorse e scaltrezze.
La storia, come tutte queste storie, racconta che a un certo punto della loro unione Meti comincia a rappresentare una minaccia per la supremazia di Zeus; in parte perché è così sapiente, e in parte perché girano profezie secondo le quali darà alla luce un figlio destinato a rovesciare il padre. La reazione di Zeus è un trionfo di raziocinio e giustizia: la trasforma in una mosca e la ingolla tutta intera.
Dopodiché Zeus prende in moglie Temi, il cui nome rimanda alla norma; non solo nel senso in cui definisce, secondo le regole della civiltà, il giusto e lo sbagliato, ma anche l’opportuno e l’inopportuno; themis è la legge che si manifesta come tradizione, costume, mantenimento dell’ordine sociale. Il sostantivo deriva a sua volta dal verbo títhēmi, disporre, mettere a posto.
Come tanti comuni mortali sotto il patriarcato, dopo il fiasco con la «prima moglie forte» anche il dio degli dèi ha imparato un paio di cose su donne e sapienza, donne e potere, donne e come devono comportarsi, nonché su cosa tutto questo abbia a che fare con quel che chiamiamo «civiltà». Il secondo matrimonio di Zeus è una canzone d’amore dal ritornello che fa più o meno così: «Meglio se impara, ’sta stronza, a stare al posto suo». Da títhēmi abbiamo preso anche la parola tesi.
E allora, ogni tesi riguarda anche la sovrana prerogativa del patriarca di mettere le cose al loro posto; e allora, la differenza fra una tesi e una poetica, una thesis e una poiesis, è la differenza tra mettere qualcosa al suo posto, e qualcosa che trova per sé un posto nuovo, o resiste in tutto e per tutto alla logica passiva del mettere a posto.
Questa sera, dunque, la mia poiesis alternativa per lo ieri, l’oggi e il domani dei classici – e per il futuro della scrittura decoloniale – potrebbe essere una cosa tipo: il decoloniale dev’essere diverso come lo è un corpo dall’altro; rovente e terapeutico come il sale sulle ferite. Dev’essere qualcosa che non sa stare al suo posto, che rifiuta di sapere qual è il suo posto… eppure continua a ripetere da che posto viene. Sa di feta fatta in casa; o di zucca. Sa quanto costa il vino di Chio. Si ricorda del dolore. Ha dei nomi. Ci offre riparo dal gelo dei monti Peligni. C’è sempre stato; e ancora ci sarà domani.
(Traduzione di Elisa Ponassi e Isabella Zani)
Martedì 18 giugno l’autrice sarà sul palco del Festival, a Roma, con Carlo Lucarelli e Chris Offutt. Mercoledì 19 giugno sarà alla Libreria Colibrì di Milano.