P er via di quell’ingenua idea secondo cui leggendo la “giovane” letteratura di un paese si può capire l’aria che tira da quelle parti, troppi anni fa, mentre preparavo un viaggio in Islanda, cercai un’antologia di scrittori e scrittrici islandesi contemporanee. Scoprii che una certa rivista americana, tale McSweeney’s Quarterly Concern, aveva da poco dedicato un suo numero proprio alla narrativa islandese dei nostri tempi. Il nome McSweeney’s non mi suonava nuovo: in effetti lo avevo già intravisto nella quarta di copertina de L’opera struggente di un formidabile genio, di Dave Eggers, che la rivista l’aveva fondata. Mi procurai quel numero, il quindicesimo; poi, una volta letto, mi abbonai, e piano piano cominciai a recuperare tutti i numeri precedenti, al tempo reperibili a pochi dollari. Ecco, la mia storia con McSweeney’s è cominciata così.
Per chiudere la parentesi islandese con una coincidenza: i primi numeri della rivista furono stampati – contro ogni logica di costi e distribuzione – in una tipografia islandese, Oddi Printing. Perché? Perché l’idea di stampare in Islanda era divertente e affascinante. Nel mondo di McSweeney’s era un’argomentazione più che sufficiente. Qualche giorno fa è arrivato il postino e mi ha consegnato il plico con il cinquantesimo numero. Dall’editoriale: “Non avevamo idea che ci stessimo avvicinando a un traguardo così importante, benché l’esistenza del numero 49 fosse un indizio”. Arrivati a questo punto, sia io che la mensola che in casa mia regge tutti quei numeri ci sentiamo di voler tentare una sorta di bilancio: del resto, i bilanci sanno essere anche omaggi affettuosi, e l’uscita del cinquantesimo numero di una rivista è pur sempre un tempo dell’affetto, per quanto affetto critico.
Per non confonderci: qui ci concentreremo su ciò da cui è partito tutto: la rivista Timothy McSweeney’s Quarterly Concern. È bene precisarlo perché, dopo la pubblicazione dei primi numeri, McSweeney’s è presto diventata anche una casa editrice, con una rivista di recensioni e interviste (The Believer), un DVD-magazine (Wholphin), un sito umoristico, una rete no-profit per insegnare a scrivere a bambini e ragazzini (826 Valencia) e con la regolare pubblicazione di romanzi, saggi, poesia, libri per bambini, e molto altro. Più una piccola galassia che una casa editrice, insomma.
Intanto, perché questo nome? Timothy McSweeney era un signore che scriveva lettere a Dave Eggers, quando era piccolo. Sosteneva di essere parente della famiglia di Eggers (il cui destino è ben noto a chi ha letto L’opera struggente di un formidabile genio). Il cognome della madre di Eggers era, appunto, McSweeney. Erano lettere del tutto inusuali, a metà fra il delirio, lo scherzo e una qualche forma di mail art. Veniva regolarmente prospettata un’imminente visita di Timothy alla famiglia Eggers, cosa che non avvenne mai. Le lettere smisero di arrivare verso il 1987 ma, una decina di anni dopo, Eggers non ebbe dubbi su quale nome dare alla rivista. Dall’editoriale di apertura del sesto numero della rivista apprendiamo che, nel 2000, fra gli stagisti di McSweeney arrivò un certo Ross McSweeney, studente alla Columbia. E lui seppe dare una spiegazione di chi fosse Timothy e del perché mandasse quelle lettere: c’erano di mezzo la malattia psichiatrica, l’alcol e, pare, il nonno di Eggers, di professione ostetrico.
Nelle due email dell’estate del 1998 in cui Eggers, reduce dall’esperienza di Might Magazine e al tempo redattore di Esquire, parlò per la prima volta ad alcuni amici e amiche della sua idea di rivista invitandoli a partecipare, la direzione era già chiara:
La speranza è che sia un posto dove possano trovare una casa cose strambe che non calzerebbero in nessun periodico mainstream, e che potrebbero essere troppo bizzarre anche per altre riviste.
A quegli amici chiese poi se nei loro cassetti avessero cose del genere da poter tirare fuori. Eggers passava poi a fare un elenco di possibili contributi: racconti non finiti, abbozzi di personaggi, saggi che uno avrebbe scritto se avesse avuto tempo, brevi recensioni di guerre, interviste da una domanda con persone semi-famose (come quella con il giocatore dei Chicago Bears Jim Cantelupe: “Il tuo nome è Jim Cantelupe?” – “Sì”. Fine), vignette senza disegno, spiegazioni alternative di titoli di articoli di riviste e quotidiani, proposte rifiutate da altre riviste perché troppo insolite, recensioni arrabbiatissime di pubblicità televisive, e così via. La mail di Eggers finiva con “Dài tutti! Ci divertiremo e, se non faremo attenzione, potremmo finire per fare la storia dell’editoria!”
Il primo numero di McSweeney’s Quarterly Concern uscì nel 1998. Un volume semplice, tutto bianco e nero, font Garamond (lo rimarrà sempre), grafica di copertina di solo testo (sarà così per i primi tre numeri). David Foster Wallace mandò un pezzo e un assegno da 250$, chiedendo che la donazione rimanesse anonima. A proposito di Wallace: per il quinto numero mandò a McSweeney’s il racconto “Mister Squishy” (poi inserito in Oblio), chiedendo però di pubblicarlo sotto pseudonimo. Ma ai suoi lettori bastò poco per smascherarlo. Le cose andarono subito bene: la rivista fece presto a diventare una delle più influenti della letteratura nordamericana, e l’effetto di ventata di aria fresca era per i più innegabile. L’uscita avrebbe dovuto avere cadenza quadrimestrale, ma McSweeney’s è uscita sempre un po’ quando le pareva.
Con il crescere della rivista, racconti e altre proposte editoriali arrivavano sempre più numerose alla piccola redazione. Con il passare del tempo, sia i testi proposti alla redazione sia quelli scelti e pubblicati tendevano sempre di più a una relativa normalità narrativa, ma i picchi di quell’eclettismo editoriale degli inizi non mancavano di riproporsi, e a volte anche in maniere più strambe di quanto sarebbe stato possibile immaginare ai tempi di quell’intervista da una sola domanda a Jim Cantelupe.
I redattori di McSweeney’s avevano iniziato tutti come stagisti o volontari, mai con una formazione in editoria o grafica: “Ci consideriamo tutti degli eterni studenti”. Eli Horowitz, per esempio, entrò nel mondo di McSweeney’s come carpentiere volontario per la costruzione della sede di 826 Valencia: pochissimo tempo dopo, si ritrovò editor fondamentale della casa editrice. Peraltro è stato lui l’editor principale della storica edizione di Rising Up and Rising Down di William T. Vollmann, una delle più mirabili e riuscite imprese editoriali di McSweeney’s, otto tomi di riflessioni e reportage sul tema della violenza, da noi uscito per Mondadori nella versione a un solo volume: Come un’onda che sale e che scende. (A proposito, in Italia sono via via apparsi cinque volumi di racconti di McSweeney’s: due Best of per mimimum fax e, per Mondadori altre due raccolte e l’intero numero dieci, curato da Michael Chabon: La super raccolta di storie d’avventura).
Fino al terzo numero, la rivista mantenne lo stesso formato, in bianco e nero e con copertine di solo testo, in Garamond. A proposito di terzo numero: fu lì che apparve la prima delle Convergence di Lawrence Weschler che, ispirandosi a John Berger, affiancava immagini e ricavava riflessioni e interviste da quegli accostamenti. Weschler racconta che erano state tante le riviste a rifiutare le sue Convergence. McSweeney’s non solo le pubblicò, ma le raccolse anche in un gran bel libro, Everything That Rises, che nel 2006 vinse il National Book Critics Circle Award. La storia della rivista è costellata d’improbabili successi letterari di questo tipo.
Viviamo un’epoca in cui gli scrittori e le scrittrici nordamericane sembrano avere smarrito alcune di quelle aree di sensibilità necessarie a una letteratura che sappia essere anche di pancia.
Dal quarto numero in poi, invece, ogni uscita ha assunto un aspetto completamente diverso: molto diverso. Il quarto numero – il primo a colori – era una scatola contenente quindici libretti singoli, l’undicesimo era un sontuoso volume in finta pelle con DVD allegato, la tredicesima strepitosa uscita era dedicata ai fumetti e a cura di Chris Ware, il diciassettesimo numero arrivava sotto forma di mucchio di posta (incluso un serissimo numero della rivista scientifica dei cercatori di yeti e cataloghi in stile Postalmarket surreale), e così via.
Detto così, potrebbe sembrare una rivista umoristica e di design in cui, in fondo, i veri e propri contenuti letterari non erano così importanti: molto fumo e poco arrosto, insomma. Ma la realtà è diversa. È vero, il numero 4 era una scatola, ma dentro la scatola c’erano lunghi racconti di Moody, Murakami e Saunders, fra gli altri; è vero, aprivi il numero 16 e ci trovavi dentro un pettine (un pettine vero), ma poi sfogliavi il volume e ti ritrovavi a leggere gran racconti di Roddy Doyle e Denis Johnson; è vero, per leggere il numero 36 dovevi aprire la scatola cranica di un signore baffuto e canuto, ma poi dentro ci trovavi un gran racconto di Colm Tóibín; è vero, il numero 33 era un mastodontico quotidiano con mille inserti, il San Francisco Panorama, ma dentro poi ci trovavi un ottimo reportage di William T. Vollmann e Stephen King che raccontava a suo modo la stagione degli Yankees; e così via. A volte, per vedere l’arrosto, il fumo basta scrollarselo dagli occhi con una semplice sventagliata della mano. Non è certo facile misurare l’influenza che McSweeney’s ha avuto sulla letteratura nordamericana, né è facile cogliere i modi in cui è stata un termometro di quella scena. Se azzardiamo un bilancio, viene da pensare all’ultimo ventennio letterario nordamericano come una fase – con le dovute eccezioni – quantomeno di stanca.
Alcune delle cose più belle che ci sono arrivate dalle lettere americane degli ultimi decenni ci mettevano in guardia proprio contro quel pericolo di malsana dipendenza dall’intrattenimento pop con maggior potere di assuefazione, rischi in cui quelle stesse lettere sono finite spesso per cadere. Erano insomma spie di un’epoca in cui gli scrittori e le scrittrici nordamericane talvolta sembrano avere smarrito alcune di quelle aree di sensibilità necessarie a una letteratura che sappia essere anche di pancia, una letteratura che riesca in qualche modo a trascendere la mediazione delle altre forme d’intrattenimento, che sappia raccontare più l’esperienza che le mediazioni dell’esperienza, e che insomma si ricordi delle potenzialità del cosiddetto specifico letterario. Del resto, non sono pochi a sostenere che è proprio questa la ragione, per esempio, per la quale si è creato lo spazio per il successo di scrittori e scrittrici forestiere che arrivavano dall’estero a colmare dei vuoti nelle tendenze dominanti in Nord America (dove le traduzioni continuano a rappresentare una percentuale al limite dell’irrisorio, e non c’è “Ferrante Fever” o “Bolañomania” che tenga). In tutto questo, quali sono le responsabilità di McSweeney’s?
Prendiamo l’esempio delle critiche mosse a McSweeney’s dalla rivista politica e culturale n+1. Nel primo numero, del 2004, troviamo un editoriale intitolato “McSweeney’s: A Regressive Avant-Garde”, in cui la rivista veniva accusata di una certa “regressività etica”, di passatismo grafico e di un eccessivo rifarsi a modelli quali MAD Magazine. Se da una parte queste argomentazioni appaiono esagerate e strategiche, dall’altra però esse s’infiltrano in alcune crepe che McSweeney’s ha talvolta mostrato. In ogni caso, le caratteristiche della rivista venivano ricondotte dai creatori di n+1 alla supposta ossessione di Eggers per uno “stile di vita infantile”: se ripensiamo al suo L’opera struggente di un formidabile genio, dove racconta come i suoi genitori siano morti di cancro uno a poche settimane dall’altro (a cui si aggiunge il suicidio della sorella Beth), non appare la più delicata delle accuse.
Ciò non toglie che chi ha letto – mano a mano che uscivano – i libri di Dave Eggers, non fatichi molto a trovare una certa relazione fra la cronologia delle sue scelte di autore e quella delle scelte editoriali di McSweeney’s. Un esempio è il momento in cui sia Eggers che McSweeney’s hanno cominciato a “scoprire” e occuparsi di quel gran casino che è il mondo. Delle cose serie, insomma. È successo più o meno con il numero 14, nella cui copertina campeggiava un disegno, a opera di Eggers stesso, di un George W. Bush con le gambe mutilate e che dice di essere dispiaciuto, sottinteso per la guerra in Iraq. Anche i libri di Eggers presero una direzione a suo modo politica, con i due bei Erano solo ragazzi in cammino e Zeitoun, oltre a varie pubblicazioni della McSweeney’s casa editrice, quali la serie di libri Voice of Witness, e oltre a vari numeri e parti di numero più “impegnati” della rivista. Il numero 26 (2008), per esempio, includeva il libretto autonomo Where To Invade Next, un prontuario del tutto realistico in cui, prendendo sul serio i parametri dell’amministrazione Bush, si stilava un elenco descrittivo dei paesi pronti per essere invasi dagli Stati Uniti. L’obiettivo era mostrare quanto poco bastasse per creare una narrazione e un armamentario argomentativo per convincere una nazione che questo o quell’altro paese è decisamente e urgentemente da invadere.
Da un certo momento in poi, McSweeney’s ha cominciato a sembrare più una start-up che una casa editrice e rivista.
In ogni caso, a un livello più basso delle argomentazioni degli editor di n+1, alcuni motivi che a un certo punto hanno allontanato alcuni lettori dalla rivista erano una certa ripetitività negli autori proposti e una certa sensazione di generale stanchezza e mancanza di freschezza contenutistica e di scelte editoriali. C’è stato chi a un certo momento non ha più rinnovato l’abbonamento (io), chi ha smesso di controllare febbrilmente il sito per vedere quanto mancava al prossimo numero (io) e chi addirittura a un certo punto ha tentato di vendere tutta la propria collezione di McSweeney’s (io). Più che termometro di una scena letteraria, la vita di una rivista somiglia allora a uno specchio in cui ognuno dei suoi lettori più fedeli può, ogni tanto, scrutarsi. Cresciamo e invecchiamo e le riviste sono incapaci di farlo con noi. Oppure cresciamo e invecchiamo e per di più siamo incapaci di farlo insieme alle riviste che amiamo. O niente di tutto ciò, perché in fondo è solo una rivista. Già.
Caso personale e sentimentalismi a parte, quella disaffezione non era semplicemente sintomo del passaggio di una moda, perché ormai i lettori più fedeli della rivista avevano già imparato a mettere presto da parte lo stupore per la trovata grafica di turno e concentrarsi subito sui contenuti. Era piuttosto l’effetto incrociato di due cali a loro modo fisiologici: quello dell’affezionamento a una rivista (soprattutto se così sui generis), e quello della pazienza verso certi limiti della narrativa nordamericana di questi ultimi anni. E poi, non è detta che quello letterario sia l’angolo più giusto – o quantomeno il solo – per cercare d’inquadrare la rivista e darne una sorta di bilancio provvisorio. Un altro angolo è quello del rapporto fra il percorso della rivista e le tendenze dominanti in campi extra-letterari e – su, facciamoci coraggio – creativi.
Esageriamo: da un certo momento in poi, McSweeney’s ha cominciato a sembrare più una start-up che una casa editrice e rivista. O meglio: è come se quel loro eclettismo manifestato in tempi non sospetti (prima, per esempio, che cominciasse a bastare un niente per farsi dare dell’hipster) non abbia saputo non farsi normalizzare e includere in quel mondo di creativi spesso esposti alle intemperie dell’effimero. E somigliare a una start-up (il sottoscritto è uno di quelli che, quando sentono parlare d’innovation da parte di gente brilliant e smart, s’insospettisce subito: che ci vuoi fare) può avere delle conseguenze. Al di là del rischiato fallimento di qualche anno fa dovuto alla bancarotta del loro distributore (fallimento evitato grazie a una fenomenale campagna di crowdfunding creativo), la realtà è che al momento McSweeney’s sembra non passarsela molto bene. La casa editrice sta tentando dal 2014 di diventare un ente no-profit, i libri pubblicati sono sempre meno e sempre meno importanti (lo stesso Eggers non pubblica più le prime edizioni dei suoi libri con McSweeney’s), The Believer è stato venduto a un’altra casa editrice, Wholphin si è fermato al sedicesimo numero, gli ultimi numeri di McSweeney’s sono usciti con un ritardo preoccupante, e così via.
Eli Horowitz e Dave Eggers scrissero nel numero 10 che la rivista sarebbe durata altri 46 numeri (56 in tutto, dunque): non sappiamo quanto sia vero (pare che neanche loro lo sappiano), ma la predizione potrebbe purtroppo rivelarsi piuttosto precisa. Ma intanto al cinquantesimo ci siamo, e un altro paio di numeri sono già vagamente annunciati, poi si vedrà. Nell’attesa, avremo tempo di riflettere sul concetto di fisiologica e giusta durata nel tempo di una rivista letteraria.
Questo volo di ricognizione sopra i primi cinquanta numeri di McSweeney’s è iniziato con un viaggio in Islanda: finiamolo allora con un altro viaggio, stavolta a San Francisco. È lì che si trova la redazione di McSweeney’s, su Valencia Street, di fronte alla sede di 826 Valencia, che si presenta sotto un grande murale di Chris Ware e dietro un annesso negozio di rifornimenti per pirati dove comprai una bottiglia per mandare messaggi in mare e un olio lubrificante per le gambe di legno (che non ho, ma non si sa mai). Si attraversa la strada, si supera un negozio di cartoleria creativa e, attraverso una porticina, ci si ritrova nella redazione, dove alcuni redattori tenevano la propria bici poggiata alla scrivania. Dopo una chiacchierata calorosa con questo e quell’altra, i redattori hanno voluto regalarmi alcune delle loro ultime pubblicazioni, e io ho accettato tutto con profusione di thank you so much goffi ma felici. Fra questi doni, c’era un quaderno marrone con scritto sopra: Impossible you say? Nothing is impossible when you work for the circus. Già. Con tutte le tue contraddizioni e i tuoi limiti, ma: altri cinquanta di questi numeri, caro circo McSweeney’s.