D oveva chiamarsi Mandala. “Quando ho pensato a questo libro ero ossessionato con l’idea del mandala”, quei labirinti mistici della cultura induista e buddhista composti da quadri o disegni divisi in settori “grazie ai quali si facilita il compimento di una serie di passi spirituali. È come la fissazione grafica di un processo spirituale”. Una volta finito però, decise di chiamarlo Rayuela, un gioco da bambini conosciuto in Italia come “Il gioco del mondo” o Campana.
Non è un caso che Julio Cortázar abbia scelto il nome di un gioco infantile per l’opera che in breve tempo la critica avrebbe definito un anti-romanzo, e che lui preferiva definire un “contro-romanzo”, perché sovverte il rapporto tra lo scrittore e il lettore, perché contiene una “tavola d’orientamento” per essere letto e perché non ha un vero e proprio ordine convenzionale di lettura: si può partire dal capitolo 73, passare al 1, al 2 e poi saltare al 116.
Ora, benché la risposta alla domanda “che cos’è Rayuela?” sarebbe incompleta, e di fatti lo stesso autore afferma che non è per nulla facile “sintetizzare qualcosa che, in un certo senso, è l’esperienza di tutta una vita e il tentativo di dirla e di portarla alla scrittura”, ritengo comunque utile la definizione trovata dalla saggista Beatriz Sarlo, secondo cui Rayuela è un “romanzo sperimentale che si collega alle avanguardie europee, specialmente il surrealismo e la patafisica, però ha anche radici fortemente argentine”.
In principio, qui, era stato come un salasso, delle percosse ad uso interno, una necessità di sentire lo stupido passaporto dalla copertina azzurra nella tasca della giacca, la chiave dell’albergo ben appesa al chiodo del pannello. La paura, l’ignoranza, l’offuscamento. Questo si chiama così, questo si chiede così, adesso quella donna sorriderà, oltre quella strada incomincia il Giardino Botanico. Parigi, una cartolina con un disegno di Klee accanto ad uno specchio sporco.
L’opera rifiuta di rientrare in una categoria ben precisa e a sentire Cortázar non dovrebbe sorprenderci. In fondo Rayuela “è stato un tentativo per cercare di eliminare, di vedere in modo diverso, il contatto tra un romanzo e il proprio lettore”. Un rapporto da demolire anche a livello meta-letterario: a chi gli domandasse se fosse d’accordo col termine “anti-romanzo” rispondeva “dovresti domandarmi qualcosa riguardo i suoi lettori, perché è lì che si trova (anche se io non pensavo individualmente ai lettori) tutto il tentativo del libro, e penso si capisca sin dalle prime pagine, è un tentativo destinato a modificare l’atteggiamento del lettore che legge romanzi”. L’intenzione è quella di scuotere l’interlocutore, perché di norma un libro “lo leggi, entri nel gioco del romanzo, ma hai un’attitudine passiva”; certamente ognuno ha le sue “reazioni parziali, può non piacerti e abbandonarlo, puoi trovare aspetti che ti piacciono o no, ma sei sempre immerso in quel clima”.
Invece Cortázar ebbe l’idea, ai tempi “difficile, realmente difficile”, di scrivere un libro “in cui il lettore anziché leggere il romanzo consecutivamente avesse diverse opzioni” che non solo lo situasse in un rapporto di “quasi uguaglianza con l’autore (perché anche chi scrive prende diverse opzioni all’ora di farlo)”, ma che gli permettesse di conferire al lettore la scelta, la possibilità di “lasciare una parte del libro e leggerne un’altra, o leggerla in un altro ordine”.
Il percorso di lettura, infatti, può essere duplice o triplice. Quello più classico prevede una lettura continua dall’inizio alla fine (capitolo 56), altrimenti si può intraprendere la versione indicata dall’autore e quindi saltare i capitoli seguendo la “tavola d’orientamento”, o si può iniziare col percorso classico e virare su quello sperimentale all’occorrenza. Nononostante le sue aspirazioni potessero risultare ambiziose, l’autore era conscio che nella pratica il discorso non corrispondeva a pieno i suoi desideri: “i lettori di Rayuela l’hanno accettato nel suo insieme come un libro, e in quel senso è un romanzo come qualsiasi altro”. Tuttavia, una gran parte di essi “hanno sentito che da loro si pretendeva una partecipazione molto più attiva”, un tipo di coinvolgimento che moltiplicava le interpretazioni del romanzo. Questo concetto è alla base di quel che Cortázar chiama “lettore complice”. Il concetto – e forse sarà già balenato nella testa di chi sta leggendo – tocca da vicino l’idea di Opera Aperta formulata da Umberto Eco: non è un paragone sbagliato, d’altronde il saggio di Eco è stato stampato nel 1962, un anno prima della pubblicazione di Rayuela, che abbracciava senz’altro le avanguardie europee contemporanee.
Oggigiorno però, come dimostrato dal saggista Andrea Pari, esiste uno schema più adeguato in cui inserire il capolavoro di Cortázar, una categoria dove rientrano Cent’anni di solitudine, Moby Dick o Faust, ossia, quella delle opere mondo. Perifrasi coniata da Franco Moretti nel ’94 per designare tutte quelle opere aperte che trascendono gli aspetti identitari e nazionali, gettando uno sguardo universale e producendo una rappresentazione del mondo senza confini attraverso diverse tecniche, tra cui: l’utilizzo di flussi di coscienza, l’uso di allegorie ad interpretazione aperta e una narrazione senza inizio né fine. Per Moretti le opere mondo sono il corrispettivo dell’epica ai tempi della modernità. Il romanzo di Cortázar ne ha tutte le caratteristiche, benché i personaggi siano talvolta diametralmente opposti a quelli delle opere con cui viene paragonato. Mano a mano che sviluppava il suo stile lo scrittore realizza che non voleva “utilizzare, con la facilità che ciò comporta, un personaggio molto intellettuale, un grande artista, come ha fatto Thomas Mann (e questa non vuole essere una critica)”, il gesto ha una motivazione di natura sociale.
Il disordine in cui vivevamo, ossia l’ordine per cui un bidè si va trasformando per azione lenta e naturale in discoteca ed in archivio di corrispondenza da evadere, mi sembrava una disciplina necessaria anche se non volevo confessarlo alla Maga. Mi ci era voluto assai poco per capire che alla Maga non si doveva proporre la realtà in termini di metodo, l’elogio del disordine l’avrebbe scandalizzata tanto quanto la sua condanna.
Rayuela racconta le vicissitudini di Horacio Oliveira, “eterno studente” argentino in bilico tra Parigi e Buenos Aires nella perenne ricerca di un “centro”, di qualcosa che dia senso alla sua travagliata – e oggi potremmo anche dire – precaria esistenza. La ricerca viene influenzata dalla sua relazione con La Maga, figura femenina e musa di Oliveira che, a differenza di quest’ultimo, è ingenua e per nulla avvezza ai discorsi metafisici che lui intraprende con la compagnia di amici chiamata Il Club della Serpente. Nella maga si trova la chiave degli archetipi di Cortázar, perché “è relativamente facile prendere sempre personaggi molto evoluti intellettualmente e inserire nelle loro bocche grandi problemi, quella è gente che disquisisce su piani sempre alti”.
La ricerca dello scrittore va in questo senso verso un realismo più tangibile ma non per necessariamente meno profondo, “conosco, e mi ci includo dentro, gente che è fondamentalmente media, addirittura mediocre, e che ciononostante vive esperienze angosciose, esperienze metafisiche, per usare la parola; una necessità di apertura, una necessità di vedere ciò che si trova dall’altro lato delle cose”.
Quel che molta gente definisce amare consiste nello scegliere una donna e sposarla. La scelgono, te lo giuro, li ho visti. Come se si potesse scegliere in amore, come se non fosse un fulmine che ti spezza le ossa e ti lascia lungo disteso in mezzo al cortile. Tu dirai che la scelgono perché-la-amano, io invece credo che avvenga tutto dall’aicsevor. Beatrice non la si sceglie, Giulietta non la si sceglie. Tu non scegli la pioggia che t’inzupperà le ossa all’uscita di un concerto.
Potremmo tranquillamente dire che Oliveira è un palcoscenico dove si incontrano diversi tipi di pulsioni e caratteri, alter ego di Cortázar che si sviluppano in senso opposto e lottano fra di loro in un contesto che varia vertiginosamente. La trama, infatti, si svolge in due piani fisici che, a seconda di come il lettore sceglie di proseguire, si intersecano di continuo: “Dall’altra parte” (Europa) e “Da questa parte” (Argentina/Uruguay).
Qui risiede probabilmente una delle differenze significative con Borges. Sin dai suoi primi scritti, firmati con lo pseudonimo Julio Denis, ci si allontana – quasi verso una posizione antitetica – dalla letteratura borgesiana, laddove quest’ultima progetta racconti strutturalmente perfetti, Cortázar getta le basi per una letteratura libera da un’estetica “eccessivamente rigida”. Lui stesso riconosce che i suoi percorsi sono “diversi da quelli borghesiani. Ne I Re mi sono congedato lussuosamente da un linguaggio estetizzante, che mi avrebbe affogato in velluto e trapassato prossimo. Nei racconti successivi scrissi in argentino.” Ecco perché l’aspetto più curioso di Rayuela sta nel suo stile che, pur facendo un ampio uso di flussi di coscienza, è difficilmente incasellabile in un’avanguardia precisa. La chiave di volta, probabilmente, risiede nel secondo motivo per cui scrisse Rayuela, ed è un aspetto legato all’idea di linguaggio, al concetto di tempo e al modo di lavorare del suo autore.
Cortázar sosteneva che l’opera rappresentasse anche “lo sforzo di andare fino alla fine di un lungo cammino di negazione della realtà quotidiana e l’ammissione di altre possibili realtà”. Effettivamente, il libro sviluppa una vasta serie di quelli che l’autore chiama “episodi incongruenti, assurdi, a volte addirittura incoerenti, dove le situazioni più drammatiche vengono trattate con umorismo e viceversa”. E per raggiungere questo scopo affina a sua volta una tecnica molto pratica e aleatoria che si trova in gran parte della sua produzione letteraria.
Anti-accademico per natura, rifiuta categoricamente “la nozione di stile riportata nel dizionario e di cui se ne parla interminabilmente nelle accademie di questo pianeta”. Al suo posto adotta una forma di comunicazione molto più pragmatica e proficua, la ricerca di un nuovo linguaggio, fortemente legato alle proprie esigenze: “io sentivo che se hai qualcosa da dire e non la dici con l’esatto e preciso linguaggio con cui deve essere detta, allora in un certo senso non la dici o la dici in modo sbagliato”.
Ed era così naturale attraversare la strada, salire i gradini del ponte, penetrare nella sua sottile vita ed avvicinarmi alla Maga, che sorrideva senza sorpresa, convinta quanto me che incontrarsi per caso non era un caso nelle nostre vite, e che la gente che si dà appuntamenti precisi è la medesima che ha bisogno del foglio a righe per scriversi o che preme dal basso il tubetto del dentifricio.
Già nel 1963 Cortázar crede che ogni tipo scrittura è lecito per comunicare il messaggio, poiché la forma con cui lo si comunica è in simbiosi col contenuto; non è il fine che giustifica il mezzo, bensì il mezzo che modifica il messaggio. Su questo punto, però, dovremmo fermarci qui. Finire l’articolo approfondendo McLuhan sarebbe un ottimo modo di mettere in atto lo stile cortazariano, ma purtroppo questo testo ha una struttura fissa. Ci basti dire che quel linguaggio tanto ricercato è stato raggiunto in Rayuela e lo si può trovare in quasi tutta la sua bibliografia.
Il suo processo creativo era incentrato sulla casualità, scriveva in modo discontinuo e aveva regole estemporanee, lavorava saltuariamente e senza concepire il tempo come la maggior parte delle persone: “non ho nessuna nozione di orario, mi risulta insopportabile […] non sono per niente disciplinato”. La sua sregolatezza però, era complementare a una sicurezza innata, “in questo momento c’è un racconto che passeggia da qualche parte, che ho iniziato a sentire a Londra, dove sono stato quindici giorni fa, che ha continuato per Parigi e che diventa ossessivo qui a Madrid, allora lo sto scrivendo in diversi fogli di carta” e non aveva paura di non riuscire a finirlo “perché in qualche modo il racconto è già stato scritto. Quel di cui ha bisogno, semplicemente, è di convertirsi in linguaggio, e quello è il mio lavoro. Ma il racconto è già stato scritto. […] potrebbero succedere nuove interruzioni, tre settimane in cui io non potrei lavorare, ma non importa, il racconto è già fatto. Lo finirò non appena avrò un caffè in cui si possa scrivere, un treno, un aereo o a casa mia.”
Tuttavia – e qui compare l’aspetto più curioso e paradossale – ciò che può essere visto come una libertà o un privilegio, diventava una costrizione ossessiva in cui l’autore cadeva prigioniero, schiavo di “una specie di stato ipnotico” che i francesi chiamano État Second; lo scrittore argentino lavorava “in modo molto disperso, molto anarchico, senza nessun orario, tranne quando sto arrivando al punto centrale di quel che voglio dire”. Ed è qui dove si riscopre una “vittima” di ciò che sta scrivendo: “sono posseduto da quel che sto facendo e, bada bene, tutto il finale di Rayuela è stato scritto in condizioni fisiche tremende, perché mi ero scordato del tempo, non sapevo se era di giorno o di notte e ricordo che mia moglie veniva e mi portava una scodella di minestra o mi diceva ‘bene, bisogna che tu vada dormire un attimo’, e quel tipo di cose”. Un periodo durato svariate settimane e preceduto da “due anni in cui io non avevo fatto niente, scrivevo cose in modo disperso, così, un capitolo, un altro e poi c’è un momento in cui tutto si concentra. E lì devi finire”.
Che cosa venivo a fare io sul Pont des Arts? Mi sembra che quel giovedí di dicembre avessi pensato di portarmi sulla riva destra e di bere del vino nel piccolo caffè della rue des Lombards dove Madame Léonie mi legge il palmo della mano e mi annuncia viaggi e sorprese. Non ti ho mai portata da Madame Léonie a farti leggere la mano, forse avevo paura che scorgesse nella tua mano qualche verità su di me, perché sei sempre stata un terribile specchio, una spaventosa macchina di ripetizioni, e ciò che chiamavamo amarci forse fu che io ero in piedi davanti a te, con un fiore giallo in mano, e tu reggevi due candele verdi e il tempo soffiava contro i nostri volti una lenta pioggia di rinunce e addii e biglietti di metrò.
Il premio nobel Vargas Llosa disse che per Cortázar scrivere era giocare, divertirsi, organizzare la vita con l’arbitrarietà, la fantasia e l’irresponsabilità con cui lo fanno i ragazzi o i pazzi. L’approccio “ludico” alla letteratura era accompagnato da un senso del ritmo, uno “swing” come lo chiamava lui stesso – “non ha niente a che fare con la rima o le allitterazioni, no, è una specie di battito, di swing, una specie di ritmo che se non c’è in quello che faccio, quella è per me la prova che non serve, e bisogna buttarlo e ricominciare”. Il curatore di Carte inaspettate, Carles Álvarez Garriga, sostiene che il metodo di lavoro cortazariano non variava mai, sia che fosse alle prese con un romanzo, un racconto o un saggio, scriveva per ore e si fermava solo quando lo swing incominciava a calare.
Tutto ciò potrebbe spiegare perché Cortázar – per sua stessa ammissione – si è sempre trovato più a suo agio nell’ambito del racconto che in quello del romanzo: per quanto suoni paradossale, la brevità di un racconto gli permetteva giocare al meglio e di cambiare stile di volta in volta a seconda di ciò che voleva raccontare e comunicare. Vorrei infatti concludere l’articolo con un consiglio altrettanto paradossale: se non avete mai letto Cortázar, potreste provare a non iniziare da Rayuela. Lasciate l’opera mondo come piatto principale e cominciate da un antipasto di racconti: Tutti i fuochi il fuoco, Storie di Cronopios e di Famas, Bestiario sono solo alcuni dei tanti esempi, in ognuno di essi troverete comunque la narrazione di un pazzo, di un bambino o di un autore che vi sbatte il libro in faccia.