N elle analisi seguite alla chiacchieratissima uscita di Parasite, ad animare le discussioni è stata sovente la scansione spaziale, la separazione sul piano visivo delle abitazioni dei poveri da quelle dei ricchi, i movimenti di macchina ascendenti da quelli discendenti, lo stile di vita a cui si aspirava da quello che si cercava di rifuggire. La metafora della separazione alto-basso, piani di sopra-seminterrati, è stata scandagliata e lodata per la sua valenza politica e per la sua immediatezza, ma la differenza di classe non detiene il primato come referente. Se si volge lo sguardo alla scena cinematografica austriaca (una scena più circoscritta, certo, e culturalmente molto diversa dalla Corea del Sud), in pellicole come Im Keller di Ulrich Seidl, documentario sui pruriginosi svaghi che occupano il tempo libero e le cantine degli austriaci, dal sadomasochismo alla nostalgia del Führer, o Michael di Markus Schleinzer, liberamente ispirato ai casi di Elisabeth Fritzl e Natascha Kampusch, la messa in scena della frattura tra sopra e sotto, o più generalmente del contrasto tra esterno e interno, tra sfera pubblica e quanto invece avviene a porte chiuse, sembra essere una costante, un’ossessione culturale e collettiva difficile da vagliare. Già dagli anni Settanta in Austria è in uso la metafora del Punschkrapfen, un dolce tradizionale che sotto la glassa tinta di rosso nasconde un ripieno color bruno, a sottintendere la tacita adesione al nazismo che parte dei politici nasconde sotto la facciata socialdemocratica. Lo stesso Robert Menasse, tra gli autori di punta della scena letteraria austriaca, ricorre ampiamente a questo paragone nel suo Das war Österreich, raccolta di saggi su “un paese senza qualità”.
Questa tensione tra esterno e interno, tra quanto avviene nella sfera pubblica e quanto accade invece a porte chiuse, tra mito e slancio alla demistificazione, è da sempre un assillo per la coscienza austriaca. Già nel 1963 Claudio Magris pubblicava Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna, opera cardine per la disamina di quel dissidio tra “la vecchia Austria, che […] si presentava come un seducente volto dell’ordine, della totalità armoniosa” e la letteratura da essa prodotta, che nelle parole dell’autore “smascherava, con disillusa lucidità, il vuoto della civiltà, il nichilismo del sapere moderno”. Allora come oggi, la società austriaca e il suo panorama letterario gettano luce su temi di stringente attualità, come la xenofobia, un passato scomodo mai affrontato a viso aperto, la discrasia tra apparato burocratico europeo e realtà concreta delle classi lavoratrici, la crescente globalizzazione e le disparità economiche: a distanza di un secolo dalla dissoluzione dell’Impero austro-ungarico, a preoccupare la scena artistica non è più la disgregazione della totalità o il tentativo di tenere insieme un’armonia risolutiva, bensì quella che Magris ha definito l’epifania del nulla. Se un secolo fa è stato “proprio il vagheggiamento dell’ordine che ha permesso di smascherare il disordine”, se è stato lo slancio verso la negatività e la mitizzazione a rivelare la precarietà degli equilibri sociali e degli stati-nazione, allora possiamo imparare da questa letteratura ancora oggi. Come infatti emerge dalla monografia Felix Austria?, a interessare del caso austriaco non è tanto il carattere nazionale quanto la capacità sempre rinnovata, tramite la produzione letteraria, di fornire un modello sperimentale di osservazione di fenomeni politici e culturali ben più vasti del singolo caso.
Il paradosso fondante del mito absburgico, che è in ultima istanza quello di ogni mito unificante, è il nucleo impossibile di ogni pretesa totalità. Nella prefazione all’edizione del 1996, Magris ricorre ripetutamente ai termini ordine, mondo, caos, cultura e tutti gli artifici possibili mediante i quali “una civiltà si sforza di ridurre la pluralità del reale a un’unità”. La scelta ultima del lemma mito poggia infatti su un’aporia costitutiva, sul suo essere al tempo stesso “più e meno della realtà”, su un indicibile statuto di ambivalenza che elude lo sguardo del soggetto, ma ne determina simultaneamente il modo di guardare al mondo. Il mito stesso, la cornice entro cui inscrivere i propri valori e la propria esperienza, è già incorniciata a sua volta da parte del suo contenuto; e ogni tentativo di fornire una lettura esaustiva di un fenomeno unificante, o in questo caso della sua disgregazione, si scontra con un antagonismo irriducibile che ne costituisce il centro. Le crepe nel mito e la consapevolezza del declino di un’epoca, che siano scritte con l’ironia posata e dissacrante di un Musil o la roboante veemenza di un Kraus, testimoniano e precorrono ciò che Žižek affermerà decenni più tardi ne L’oggetto sublime dell’ideologia, e cioè che “tutta la «cultura» è in qualche modo una reazione-formazione, un tentativo di limitare, di canalizzare, di coltivare questo squilibrio, questo nucleo traumatico”.
L’accostamento dei due intellettuali può sembrare azzardato, ma se l’obiettivo primario di Magris durante la stesura del saggio era esattamente quello di comprendere quanto, dell’esperienza in frantumi, fosse recuperabile o riconducibile a una narrazione organica – o se invece un simile sforzo fosse vano, l’opera di Žižek rileva come la negazione, la contraddizione e l’impossibilità siano parte necessaria e costitutiva della totalità:
Non appena cerchiamo di concepire l’ordine sociale esistente come una totalità razionale, dobbiamo subito includervi un elemento paradossale che, senza cessare di esserne un componente interno, funziona da sintomo, e sovverte così lo stesso principio universale e razionale di questa totalità
Così afferma il filosofo, ma se l’opus magnum di Magris si concentra nel constatare l’esistenza e i termini di questa dissoluzione dell’uno alla fine di un’epoca, la letteratura austriaca del secondo Novecento si schiera invece dalla parte del sintomo, incarnando cioè la questione fondamentale di questo antagonismo, “il punto in cui la Ragione incarnata nell’ordine sociale esistente incontra la propria irrazionalità”.
È nel contesto del secondo dopoguerra, di un’Austria per cui “la denazificazione non è mai avvenuta”, come scrive Paola Moretti, che viene a formarsi una corrente letteraria tesa alla satira feroce, alla critica sociale e alla dissacrazione di valori e assunti sino ad allora dati per intoccabili. Nell’area germanofona, questa forma di critica ha un’etichetta ben precisa: i suoi fautori vengono definiti con sprezzatura Nestbeschmutzer, “insozzatori di nido”, ma se da un lato i loro strali colpiscono il bersaglio mettendo a nudo gli aspetti più sinistri della società e delle istituzioni, dall’altro questi scrittori vengono bollati come detrattori fini a sé stessi, e i loro scritti derubricati a pure provocazioni. Nello spinoso frangente della memoria storica, la principale differenza tra Austria e Germania sta nell’aver proiettato, nel caso austriaco, le proprie responsabilità politiche e la propria connivenza all’esterno, anziché averle interiorizzate com’è invece accaduto per la Germania.
La principale differenza tra Austria e Germania sta nell’aver proiettato, nel caso austriaco, le proprie responsabilità politiche e la propria connivenza all’esterno, anziché averle interiorizzate com’è invece accaduto per la Germania.
Già la satira di Kraus, morto prima della Seconda guerra mondiale, mirava al punto cieco nell’ideale della società, ma sarà con l’avanguardia letteraria del Gruppo di Vienna, attivo dagli anni Cinquanta, che si aprirà finalmente il dibattito pubblico sul coinvolgimento dell’Austria nelle atrocità naziste. Questo sguardo critico proseguirà nell’opera di autori e autrici come Ingeborg Bachmann, Thomas Bernhard e Gerhard Roth, ma il caso più interessante e attuale è quello di Elfriede Jelinek, che se per tutto il corso della sua carriera ha tenuto d’occhio le notizie di cronaca e gli scandali del suo paese natale, negli ultimi anni ha scelto di estendere l’accusa a un sistema ben più capillare e insidioso della semplice sfera politica austriaca: l’economia globale.
Nota ai più come autrice de La pianista, romanzo del 1983 a cui seguì il fortunato adattamento cinematografico di Haneke che vede Isabelle Huppert nei panni della nevrotica e difficile protagonista Erika, Jelinek ha alle spalle, oltre a una decina di romanzi, una lunga e prolifica carriera come drammaturga. Da sempre attenta all’attualità, pur mantenendo uno sguardo fisso sull’Austria, la sua produzione si distingue per il suo carattere postdrammatico, per il citazionismo vertiginoso e poliedrico, la cui modulazione abbraccia tragedia greca e linguaggio pubblicitario, versi di Hölderlin e comunicati della RAF, e per quello che è stato definito Primat des Lautes vor der Bedeutung, “il primato del suono sul significato”, in una partitura di procedimenti linguistici fatta di rinvii, anafore, anastrofi, allitterazioni e giochi di parole che sostituiscono l’assenza di dialoghi e figure drammatiche sulla scena. Nell’assenza di una struttura tradizionale, nei testi di Jelinek è la parola, nella sua dimensione dialogica, a trovarsi al centro della scena, in un’attenzione alla materialità linguistica e alle tecniche di montaggio mutuate dalla stagione letteraria del Gruppo di Vienna. Le voci sono autonome, senza alcun controllo sul discorso, i locutori, come osservato da Lucia Perrone Capano nella sua analisi di Kein Licht e Fukushima-Epilog, sviluppano percorsi autonomi ma privi di orientamento, alle volte persino in contraddizione gli uni con gli altri.
Accantonando momentaneamente gli elementi stilistici del teatro di Jelinek, è interessante notare la preminenza del mito nella sua opera. In prefazione a Sport: una pièce; Fa niente, anche Luigi Reitani insiste sulla dimensione del mito e sulla sua importanza nella letteratura di Jelinek, ma se per Magris il mito era un’aspirazione a una totalità e a un senso cui era difficile dar conto, i miti di Jelinek, che scrive e agisce oltre mezzo secolo dopo, sono i miti d’oggi di Barthes. Non più, quindi, una rassicurante narrazione di appartenenza, ma una deformazione ideologica che trasforma la storia in segni, un’entità che de-storicizza le dinamiche materiali rovesciandole in una narrazione contraddistinta da valori d’uso e di scambio – una realtà che l’artista ha il compito di demistificare. Il mito opera così una trasformazione della storia in pseudo-natura. Tutto ciò che è frutto di dinamiche storiche e sociali acquista nel mito il carattere dell’immodificabilità e del valore eterno”, così Reitani.
Ma per Barthes, come per la Jelinek, la critica del mito non può però risiedere nel discorso razionale e scientifico, ma nel rendere visibili le deformazioni del mito come tali, portandole all’assurdo. Anche la critica al mito è dunque un lavoro sul mito.
Ma se il mito di ieri era la patria, l’impero asburgico o l’unità impossibile, declinazioni di una stessa alienazione politica che in Magris puntava a “trovare delle ragioni di vita a una compagine statale sempre più anacronistica e impossibile, e […] distrarre in tal modo le energie dalla concreta percezione della realtà”, e la demistificazione letteraria ne rivelava semplicemente l’obsolescenza, all’inseguimento di un’epoca serenamente immobile, il mito d’oggi non è più politico ma economico, e la letteratura di Jelinek, ancor più quella degli ultimi quindici anni, punta allo smascheramento del sistema capitalista come l’ultimo dei sogni ideologici.
Tre sono i testi in cui Jelinek si è maggiormente cimentata con l’economia: Die Kontrakte des Kaufmanns (I contratti del mercante), “commedia economica” scritta nel 2009 dopo la crisi finanziaria del 2008; il “saggio teatrale” del 2012 rein GOLD, una rielaborazione de L’oro del Reno il cui stesso titolo gioca sull’omofonia tra Rhein e rein, puro; e Dati personali, finora l’unico dei tre disponibile in traduzione italiana, dove l’indagine fiscale di cui l’autrice è stata oggetto la porta a riflettere retrospettivamente sulle persecuzioni naziste subite dalla famiglia Jelinek, sulle simpatie xenofobe e di estrema destra dell’Austria contemporanea e, infine, sui flussi del capitale globale. Questi titoli vengono a formare un trittico ideale dalla composizione sempre più rarefatta, dove alla solida struttura iniziale e al fitto gioco intertestuale subentra sempre più il parassita della lingua: eppure il maggiore grado di astrazione non comporta soltanto digressioni o disgregazioni, ma anche e soprattutto maggior lucidità nell’analizzare fenomeni che, di fatto, sono impalpabili quanto il discorso stesso – non a caso nei ringraziamenti in coda ai testi sono presenti rimandi a Marx, Engels e Piketty, che l’autrice ha approfonditamente studiato in preparazione alla stesura dei testi. Se analizzati da una prospettiva che tiene conto della loro continuità, queste tre opere possono essere lette come una progressione della critica di Jelinek all’economia, capace di adattarsi, tanto quanto l’economia stessa, alle oscillazioni del mercato e ai cambiamenti dell’assetto globale.
A differenza dei drammi economici coevi comparsi nel panorama tedesco, quello di Jelinek si distingue per l’assenza di personaggi o strutture che consentano lo sviluppo di trama in direzione di un capro espiatorio.
I Kontrakte muovono dalla crisi della banca Meinl e le sue strategie gestionali opache, come la creazione di filiali e società derivate a fini ambigui, lo spostamento di ingenti somme di denaro da banche ucraine, lituane e lettoni attraverso prestiti a compagnie offshore e l’addebito di ingenti commissioni per gestione fondi o vendita di certificati: al centro del testo di Jelinek c’è infatti la prefazione al rapporto annuale Meinl del 2006 (la cui retorica si avvale di termini come libertà, giustizia, dovere e responsabilità), scomparso dalla rete in seguito al successo della pièce. Le attività coloniali della compagnia Meinl, fondata nel 1862 come compagnia di importazioni di caffè e generi alimentari, vengono giustapposte allo sfruttamento economico dell’Europa centro-orientale dopo la caduta del Muro, svelando le intenzioni torbide che il mercato ha cercato di celare sotto l’ideale dell’Europa unita. A differenza dei drammi economici coevi comparsi nel panorama tedesco, quello di Jelinek si distingue per l’assenza di personaggi o strutture che consentano lo sviluppo di trama in direzione di un capro espiatorio, ma ancor più per le scelte testuali e sintattiche che rendono l’idea di un sistema chiuso in cui i piccoli investitori sono invischiati quanto le banche. Gli intertesti di cui l’autrice si serve spaziano dalla tragedia greca, che trapela dalla bipartizione dei cori, alla Santa Giovanna dei macelli di Brecht, opera cardine per l’esposizione dell’offuscamento linguistico proprio delle tattiche imprenditoriali.
Il singolo caso Meinl viene quindi parzialmente astratto dal suo contesto per renderlo una vicenda esemplare del funzionamento del capitalismo, delle sue infrastrutture e delle sue giustificazioni. Pia Janke segnala, nella sua analisi ai Kontrakte, la presenza di una fitta rete di riferimenti a Benjamin e al suo Capitalismo come religione, dove il filosofo interpreta il sistema economico come appunto una religione, perché in grado di soddisfare gli stessi bisogni umani della fede. La presenza di “angeli della giustizia” sulla scena – altro riferimento a Benjamin – e le scelte linguistiche di Jelinek hanno quindi per Janke l’intento di sottolineare “la natura divina e l’inviolabilità dei rappresentanti economici, nonché la sostituzione del destino divino con il capitalismo e le sue promesse”. Con la caduta del Muro, il discorso marxista portato sulla scena dai personaggi angelici diventa motivo di derisione, e gli ideali rivoluzionari vengono soppiantati dal mito del mercato e dei processi economici, assimilati al movimento irrazionale e misterioso delle pietre mobili nella Valle della Morte. A essere preso di mira da Jelinek è il processo mitopoietico stesso, sia esso il mito della speculazione o del perfetto colpevole incarnato dalla figura dell’usuraio ebreo poco importa, e l’autrice si spinge fino all’assimilazione della pratica letteraria con quella finanziaria, poiché entrambe fuori dalla sfera della produttività e basate su una garanzia esterna di un valore che trasforma un pezzo di carta in una banconota con valore di scambio, o un testo in un’opera letteraria.
rein GOLD, scritto pochi anni più tardi, porta avanti la critica economica abbozzata nei Kontrakte, e la estende alla crisi del debito sovrano europeo che ha seguito la crisi del mercato azionario e delle banche. Il testo, che si rifà al terzo atto della Valchiria wagneriana, è un lungo dialogo tra Wotan e Brunilde che si snoda tra riferimenti alla politica tedesca (in particolare l’affare Wulff, che ha portato alle dimissioni dell’ex Presidente) e alla lettura marxista della tetralogia wagneriana. Il furto dell’oro del Reno, commesso nel mito per saldare il debito della costruzione della dimora celeste di Wotan, diviene qui una critica al debito sovrano e al lavoro non retribuito. Wotan e Wolff, entrambi macchiati da scandali creditizi, rileggono le ombre dell’epopea nazionale e tentano di dar conto della crisi economica corrente in un’epoca di posizionamento finanziario predominante, per la Germania, nel contesto europeo. La critica al mito wagneriano, le cui riletture nazionaliste non sono certo una novità, non sussiste soltanto sul piano economico. Il vetriolo di Jelinek colpisce anche l’impiego dell’immaginario eroico in chiave suprematista: numerosi sono infatti i riferimenti all’NSU, cellula terroristica di matrice neonazista, mentre il simbolismo eroico di cui Sigfrido è investito, così come la sua retorica dell’ascetismo e dell’onore, è soltanto l’altra faccia, quella della narrazione pubblica, dello sfruttamento del sistema bancario e dell’avidità delle alte cariche.
Diverso è il caso di Dati personali, lunga requisitoria dalle tinte autobiografiche i cui temi centrali, la storia familiare dell’autrice e l’indagine fiscale di cui è stata oggetto, sono l’accumulazione, la fuga, la colpa e il debito. L’arcinota riservatezza di Jelinek, complice anche l’agorafobia di cui soffre sin dalla gioventù, viene qui accantonata, almeno in parte, per dare al lettore uno scorcio di una vicenda che, per quanto circoscritta alla famiglia Jelinek, tocca dei nervi scoperti nella storia dell’Austria e dell’Europa centrale: le persecuzioni e le espropriazioni subite dai parenti internati nei lager, espropriazioni da cui gli stati traggono profitto ancora oggi, i suicidi o le difficoltà di reinserimento dei sopravvissuti, le agevolazioni finanziarie di cui gli ufficiali nazisti hanno beneficiato dopo la guerra, le accuse rivolte all’autrice di voler lucrare sulla memoria.
Per la psicoanalisi lacaniana, l’isteria è innanzitutto una messa in discussione del proprio ruolo simbolico, ossia storicamente determinato.
Ma la storia personale di Jelinek e dei suoi antenati, nonché la perquisizione da parte delle autorità della sua abitazione di Vienna-Hütteldorf, è solo lo sfondo che rende possibile una digressione ben più ampia sui flussi del capitale globale, le frodi sui dividendi azionari CumEx, l’evasione fiscale delle grandi società di calcio tedesche e lo scandalo Wirecard. “Sì. sto parlando di soldi, non parlo di nient’altro anche quando parlo di qualcos’altro”, afferma la voce narrante. Filo conduttore di tutte le digressioni, che trattino di temi d’attualità come la crisi dei rifugiati e la pandemia o esperienze strettamente personali quali il complesso rapporto coi genitori, è il denaro, quel denaro che per l’autrice “può tutto, io non posso niente”.
Nella sua recensione per il Frankfurt Allgemeine Zeitung, Hanna Engelmeier mette in primo piano l’ostilità dell’autrice alla fissazione sulla scrittura, anche la più intima (in corso d’indagine le autorità hanno requisito dalla residenza viennese manoscritti, hard disk e scartoffie disparate), e sullo sfruttamento – o sul potenziale lucrativo o pregiudizievole – del materiale testuale. Non stupisce, allora, che la scelta della forma ricada su un impianto smaccatamente orale. L’andatura monologante dei testi anche quando l’impianto ha una componente dialogica, caratteristica che peraltro è precipua del teatro di Jelinek, è arricchita, in Dati personali, dalla consapevolezza della propria ricezione e da un’assunzione consapevole del proprio ruolo di isterica.
Soffermarsi sull’accusa di isteria in chiave femminista sarebbe un cliché ormai fuori moda; a venirci incontro è nuovamente la lettura dei testi tramite il pensiero di Žižek – uno sguardo obliquo e poco ortodosso, soprattutto se confrontato con capisaldi della critica come Il mito absburgico, ma non per questo meno efficace di fronte ai cambiamenti del contesto globale. Per la psicoanalisi lacaniana, l’isteria è innanzitutto una messa in discussione del proprio ruolo simbolico, ossia storicamente determinato: un soggetto isterico, afferma Žižek, implica per sua stessa esistenza una sovversione del contesto, o del mito, che lo definisce come tale. La posizione isterica del dubbio è una domanda produttiva indirizzata all’autorità, che mette in scacco ogni assunto dato per certo, producendo concetti nuovi invece di riprodurre pedissequamente i vecchi, siano essi miti o propaggini dell’ideologia.
Sempre in prefazione a Sport, Reitani dissuadeva il lettore dall’assimilare l’inconscio parlante di Jelinek a quello lacaniano, perché “mondo e parole mentono”, e il teatro è “disvelamento della menzogna”. Ironia della sorte, questo disvelamento della menzogna ideologica è proprio l’esito della domanda isterica, che diventa, nella sua stessa esistenza, il punto d’incrinatura del mito. E, altrettanto ironicamente, di letteratura e ideologia parlerà proprio Magris nella recente conversazione con Gao Xingjian, in cui affermerà che, se l’ideologia non coglie il vero ma “impone una concezione utile a dominare la realtà”, allora è “l’opposto della letteratura, della sua libertà fantastica, della sua concretezza sensibile”. E se la più grande letteratura del Novecento “è stata scritta da ribelli alle regole, da innovatori che hanno frantumato le forme e le strutture” confrontandosi “col naufragio di tutta un’epoca e col nulla della vita senza alcun rassicurante parapetto ideologico”, il punto d’osservazione privilegiato resta, dalla dissoluzione dell’Impero a oggi, quell’elemento disarmonico e inassimilabile che resiste, come il teatro di Jelinek, alla tentazione di qualsiasi totalità rassicurante e priva di conflitto, e ne svela i meccanismi costringendoci al confronto col vuoto – o con noi stessi.