S ul mercato editoriale tedesco appaiono con regolarità, ormai da tempo, alcuni romanzi dalle caratteristiche così specifiche e costanti da far pensare a un nuovo genere di narrativa. Negli ultimi venti anni l’industria del libro ha a tal punto omologato i diversi mercati nazionali che non sarebbe difficile trovare esempi europei analoghi; ma in Germania il fenomeno si presenta con particolare evidenza per ragioni riconducibili alla sua realtà socioeconomica e alla sua supremazia a livello internazionale. Le caratteristiche di questo genere letterario sono facilmente individuabili: si tratta di libri scritti da tedeschi o tedesche per un pubblico di connazionali; trattano temi di drammatica attualità internazionale; mettono in scena un nativo del paese in crisi tramite un io-narrante o una terza persona che assume il suo punto di vista e omettono di caratterizzare questo protagonista, senza attribuirgli un modo personale di esprimersi (quello che in semiotica si chiama idioletto), senza attribuirgli opinioni personali né consapevolezza storico-politica; i suoi atti e i suoi pensieri sono anodini perché sempre e solo politicamente corretti. Più che di personaggi romanzeschi si tratta di maschere approssimative dietro le quali si intuiscono con agevolezza i dati anagrafici degli autori e delle autrici. A livello linguistico il solo intervento sul protagonista è qualche volta l’uso di parole appartenenti alla sua lingua madre, translitterate quando necessario nell’alfabeto latino e seguite dalla traduzione: un uso volto non tanto a caratterizzare il personaggio quanto a palesare, quasi in un malinteso sforzo di realismo, che è davvero indiano o messicano o palestinese.
Tre esempi non tradotti in Italia: Il vestito di mia madre di Anna Katharina Hahn, Gioiello blu di Katharina Winkler – entrambi editi nel 2016 da Suhrkamp – e Il buio tra stella e stella di Benjamin Lebert, uscito per S. Fischer pochi mesi fa. Il vestito di mia madre racconta la vita quotidiana di Anita, una ragazza spagnola che nella Madrid della crisi economica si muove tra gli amici, la disoccupazione, l’insofferenza verso i genitori e la tentazione di emigrare. Quando i genitori muoiono, Anita scopre per caso che sua madre era l’amante di un misterioso scrittore tedesco e decide di cercarlo. Gioiello blu è la storia di Filiz, adolescente curda che insieme al proprio ragazzo Yunus fugge dal padre possessivo e violento, arriva in Germania, sposa Yunus ma scopre che è anche lui un feroce patriarca; picchiata, violentata, schiavizzata e costretta a portare il burka, viene salvata dall’intervento dei servizi sociali.
Il buio tra stella e stella alterna tre diversi io-narranti per raccontare le storie di Achanda, Shakti e Tarun, ragazzini nepalesi venduti dai genitori che finiscono in una casa-famiglia e fanno amicizia: Achanda sogna di comprare una moto e fuggire insieme a Shakti; Shakti è affascinata da un volontario europeo che lavora nella casa-famiglia, ma si accorge dell’amore di Achanda e piano piano lo ricambia; Tarun, il più piccolo, ama una bambina-serva di nome Kalpana; spera che un giorno il terzo occhio di Shiva si aprirà per distruggere il mondo e crederà di assistere all’ira di Shiva quando, nel finale, il catastrofico terremoto del 2015 distruggerà Katmandu.
Formalmente i tre romanzi sono quasi identici: affidano la narrazione alle risorse dello storytelling di scuola statunitense, privilegiano la paratassi fino a farne in alcuni casi l’unico modulo sintattico, usano un lessico limitato e attingendo largamente alle risorse del pathos esibiscono il dolore, la miseria e l’arretratezza del paese che raccontano. Un esempio da Il vestito di mia madre:
Fino a qualche anno fa io e mia madre andavamo spesso al Corte Inglès, la domenica, per concederci delle piccole cose. […] E oggi? Beh, raccontare significa anche dire la verità. E dunque, già che ci siamo: più di una volta in albergo ho mangiato i resti della cucina, roba buonissima che altrimenti verrebbe buttata via. Oltretutto tornando a casa posso dire: no, io ho già fatto, mangia tu. I soldi non bastano per due adulti, in particolare a fine mese.
Un esempio da Gioiello blu:
Noi bambini siamo un gregge. Il fieno è il nostro letto. Odore di estate tagliata. Siamo distesi di traverso, gli uni addosso agli altri. Chi lo sa, a chi appartiene questo piede o quella mano. Madre? Respiriamo in profondità. Odoriamo del giorno precedente. Di sudore, di sole. Ci scoreggiamo in faccia. Sento dire che siamo dieci bambini. Sento dire che io sono la settima. Nostra madre partorisce bambini come una mucca, uno dopo l’altro, tra la semina e il raccolto e la semina.
Un esempio da Il buio tra stella e stella:
Quando gli uomini parlano con gentilezza, allora quasi sempre sono botte. Lo so. L’ho sperimentato abbastanza spesso. E il vecchio ha parlato con gentilezza. Ha parlato con troppa gentilezza? Resta in piedi alla mia sinistra, vicino al tavolo. Lo guardo da sotto in su. Non devo perdere di vista le sue mani. In particolare devo stare attento alla sua mano sinistra, quella impura, quella che si usa quando si va in bagno. Quando le persone picchiano, usano per lo più la mano impura.
Come si può notare anche dai tre passi sopra riportati, per forza di cose un’operazione narrativa di questo tipo è destinata a risolversi in una raccolta di stereotipi: quelli che servono a un autore tedesco per raccontare realtà delle quali sa poco o nulla e a un lettore mediamente istruito (che legge romanzi pubblicati da prestigiose case editrici ma non ne coglie l’implicita banalizzazione del mondo) per trovare conferma a quanto conosce solo per sentito dire. Ne risulta una lista di luoghi comuni “nazionali”, come nelle barzellette sui sopravvissuti ai disastri aerei. Eccone alcuni, premettendo che la lista è incompleta e ricordando che uno stereotipo non è esattamente un falso: è il risultato di un’operazione conoscitiva che rende pertinenti alcuni elementi a scapito di altri, li assolutizza e poi – come in un tendenzioso vetrino da laboratorio – li incarna tutti in un solo individuo o in una sola situazione.
Nella Madrid della crisi economica troviamo la giovane donna cui non è permesso uscire da sola e che trova lavoro solo grazie alla sua bellezza; le vecchie zie che nel testamento donano tutto alla chiesa cattolica lasciando sulla strada la nipote da loro allevata; la baysitter pagata con sigarette e vecchie magliette; il fratello germanista che emigra a Berlino e lavora nei cantieri per mandare soldi alla famiglia; il padre che non aiuta nei lavori domestici; il vecchio satiro che approfittando dell’indigenza delle ragazze spagnole propone loro di prostituirsi. Sulle montagne turche il padre della giovane Filiz è un sadico che più volte vediamo correre fuori dalla stalla gridando “Allah!” per tramortire di botte i figli (responsabili di avere lasciato sbranare le pecore dai lupi) mentre la madre osserva costernata che non potrà nemmeno lavare le tracce di sangue dalla lana ormai inservibile.
A questo padre secondo il quale “l’onore viene prima di tutto” Filiz deve anche lavare i piedi. Mangiano in silenzio, dormono ammucchiati; e siccome tutti i padri e tutti i mariti sono violenti, le donne del paese vanno in giro coperte di lividi (da qui il titolo del romanzo; “da grande diventerò una donna blu”, dice Filiz). In Nepal, che è geograficamente e culturalmente più distante ed è dunque più difficile da conoscere o da immaginare, il repertorio degli stereotipi diventa quasi mitologico: donne inginocchiate che lavano i piatti, bambine che devono onorare i genitori e guardarsi da vecchi feticisti interessati alle loro mutande, famiglie che masticano canna da zucchero sedute davanti alla capanna, neonati allattati in mezzo alla strada polverosa e abluzioni rituali al fiume. C’è anche un quindicenne che anziché “coca-cola” dice “il liquido dolce che pizzica e accende un fuoco d’artificio sulla lingua”, come se gli adolescenti nepalesi fossero dei primitivi dotati di capacità poetiche.
C’è sempre qualcosa di comico nella pretesa serietà di chi vede il mondo per stereotipi: e sarebbe giusto ridere di tanta leggerezza, come pure dell’ipocrisia di chi, dicendo io al posto di un altro, vorrebbe ottenere – autrice o lettore – un attestato di solidarietà a buon mercato. Ma vista come genere, la nuova letteratura piccolo-borghese delle aree di crisi permette di svolgere due considerazioni sulla società che la esprime: una società ricca, secolarizzata, democratica, scientifica e capitalista, che all’interno dei propri confini tutela l’individuo combattendo ogni discriminazione e oltre i confini attua un imperialismo soft, indiretto, solo marginalmente affidato alle azioni di polizia internazionale con cui stabilisce una pax propizia al regime economico neoliberista.
Della società opulenta e illuminata Georges Bataille scrisse in uno dei suoi libri più belli (quello su Nietzsche): “in un mondo liberato dagli dèi, dalla preoccupazione della salvezza, perfino la “tragedia” è solo un divertimento”. Il fuoco che consumava Bataille era ontologico: aveva a che fare con l’essere e con il nulla, presenze imbarazzanti che Bataille nella propria opera corteggiò e temette. Fu un teologo senza divinità, impegnato in una nostalgica rievocazione del sacrificio umano e dell’orgia rituale come passi di danza che uniscono gli umani davanti all’abisso; e disprezzava la quieta soddisfazione dell’utilitarismo che ai suoi tempi veniva ancora definito “borghese”. Tutto questo ha fatto di lui un autore sospetto, per alcuni addirittura sinistro nonostante un’intera generazione di intellettuali francesi abbia espresso per bocca di Foucault il proprio debito verso di lui.
La sua osservazione resta in ogni caso valida: in una società che lo sviluppo scientifico-tecnologico ha messo al sicuro dalla fame, dalla minaccia della dannazione eterna e dai saccheggi, la sola via d’accesso alla tragedia è “fare letteratura” sulla fame altrui. Se il postmoderno fu e continua a essere ludico perché l’Occidente si è ritrovato con un cumulo di estetiche eterogenee che rimescola perché non sa cos’altro farne, la letteratura delle aree di crisi segue come può l’esortazione di Francis Scott Fitzgerald: “mettete la vostra sedia sull’orlo di un precipizio e io vi racconterò una storia”. Non fosse che i nostri precipizi sono stati da tempo forniti di ringhiera. Usa dunque in comodato quelli degli altri, e in questo passaggio la tragedia diventa un bene di consumo per l’industria dell’intrattenimento. Il vestito di mia madre:
Una vita che ogni mattina comincia con la domanda se valga la pena di alzarsi. Nessuno di noi trova il lavoro per il quale si è formato, anzi un lavoro non ce l’abbiamo proprio, per non parlare di un appartamento.
Gioiello blu (qui verrebbe da commentare con Adorno, “le opere d’arte sono ascetiche e senza pudori; l’industria culturale è pornografica e prude”):
Si butta sul mio corpo inerte, mi lacera la camicia da notte, la strappa via dalle spalle, dal seno, la fa salire sui fianchi, io non tremo, mi allarga le gambe, davanti a me c’è la sua lancia. Come fuori di sé mi trafigge. Di’ che mi ami! Di’ che mi ami!
Il buio tra stella e stella:
Corro verso la porta, ma è troppo tardi. L’uomo mi ha già afferrato per il colletto e colpisce. Colpisce ancora. Finché non c’è più un ragazzino, solo i colpi del palmo della mano e un corpo che vuole allontanarsi dalla mano ma non può.
Ma i romanzi sopra menzionati non si limitano a usare i precipizi degli altri: parlano anche al loro posto, come quando nei teatri di posa si riproducono i rumori del vento o della ghiaia con un gesto isolato che resterebbe grottesco, se un correlato sistema di illusioni combinate non facesse sorgere negli spettatori una sensazione di realtà. Per collocare adeguatamente queste isolate voci del precipizio è importante ricordare che l’imperialismo “morbido” che caratterizza l’attuale ordine mondiale dispone ai suoi fini di una pluralità di strumenti, tra i quali l’intervento armato svolge rispetto al passato un ruolo solo marginale. Gli strumenti di intervento sono piuttosto di ordine monetario e finanziario (come accade da tempo con i programmi di aggiustamento strutturale della Banca Mondiale e come sta accadendo con la Grecia), commerciale (che sviluppa nuove forme di scambio iniquo come la pratica del cosiddetto land grabbing) e culturale: intesi, questi ultimi, alla creazione del consenso per mezzo di un poderoso apparato retorico che plasma i desideri e le aspettative delle popolazioni investite costruendo un immaginario condiviso (lo mostra bene il mondo cosmopolita, democratico e amico univocamente comunicato dai nuovi media). Nel quadro di questo apparato per la creazione del consenso Antonio Negri colloca anche le organizzazioni non governative, il cui intervento “morale” – la difesa dei diritti umani che si traduce in pubblica denuncia dei colpevoli – prepara il terreno per eventuali interventi militari.
In questo contesto la letteratura delle aree di crisi appare come un atto di propaganda. I suoi protagonisti affamati, depressi, picchiati, malati, dimenticati, venduti, superstiziosi, disumanizzati e assediati da molestie sessuali di ogni genere sembrano fatti apposta per suscitare sdegno verso le inadempienze di alcuni paesi e insieme compiacimento in chi riconosce come prerogative occidentali (o addirittura mitteleuropee) l’importanza riconosciuta al benessere del Pil, l’impegno per i diritti delle donne e la tutela dell’infanzia: non a caso in Il vestito di mia madre e in Gioiello blu i personaggi finiscono per rifugiarsi in Germania o in Austria (lo zio di Yunus è emigrato in Germania come il fratello di Anita, Yunus decide di spostarsi con la famiglia in Austria e lì Filiz viene salvata dallo Stato). Non a caso il volontario da cui Shakti è affascinata è biondo con gli occhi azzurri, l’orfanotrofio di Katmandu ha un nome inglese (Recovery Home) e la donna che si prende cura dei bambini viene chiamata Housemother.
Il vestito di mia madre:
Ángel è impazzito per tutto quel che è tedesco: la musica, i libri, il cibo, in particolare il pane, pane tedesco, che a volte compra da un fornaio a Salamanca. E naturalmente le ragazze. […] «Sono così… così verdi. È come rotolarsi su un prato bagnato di pioggia. E quando poi parlano mi rotolo dentro un volume di Hölderlin, Goethe o Tieck.»
Gioiello blu:
L’Austria è come la Germania. […] L’Austria e la Germania sono paesi come la vita in televisione [sic], senza povertà e malattie, e i supermercati sono pieni dal pavimento al soffitto di cose deliziose, in confezioni colorate, provenienti da tutto il mondo. L’Austria è come la Germania, e la Germania è come l’America. E là sorge il sole.
Il buio tra stella e stella:
Il Brother viene da là, vengono da là quasi tutti i Brother e le Sister che fanno visita alla Recovery Home per stare con noi… un po’ di tempo. Un paio di giorni. Settimane. Viene dal centro di quell’enorme e potente paese che si chiama Europa.
Se fossero testi di ottanta anni fa e raccontassero la Somalia o l’Etiopia, parleremmo di propaganda fascista e di razzismo. Oggi, come recentemente indicato da Daniele Giglioli nel suo attento e incoraggiante Critica della vittima, sembra più opportuno parlare di una grande «macchina mitologica» produttrice di vittime impotenti che – private di ogni soggettività e di ogni diritto che non sia quello al soccorso – si trasformano in un docile strumento di potere, tanto che il credo umanitario ha fornito la prima fonte di legittimità a quasi tutte le ultime guerre. Le vittime vengono messe sotto tutela sociale, politica, militare e adesso anche artistica: come è successo dall’8 aprile al 16 luglio di quest’anno quando Documenta, la più importante mostra tedesca di arte contemporanea, è stata “esportata” ad Atene sollevando le proteste della cittadinanza lungo strade in cui è abituale vedere la croce uncinata disegnata accanto al simbolo dell’euro («è una trovata che permette di usare la tragedia della Grecia per procurare un piacevole massaggio alla coscienza. Come quegli americani ricchi che vanno in vacanza nei paesi africani poveri, fanno un safari e si credono a una crociata turistica umanitaria,» ha commentato Yanis Varoufakis).
È ancora da scrivere la storia del modo in cui l’industria culturale sia diventata a partire dagli anni Ottanta un agente primario spontaneo nel processo di formazione del consenso. Ed è compito che spetterà probabilmente alle generazioni future, perché se la propaganda è per definizione difficile da isolare per i contemporanei ai quali è destinata (e vedere la propaganda delle altre epoche non significa essere più intelligenti, ma solo essere immersi in una diversa temperie storica) ancora più difficile è decifrare quella che sorge all’interno di un regime democratico “forte” come quello tedesco e privo di articolazioni esplicite tra il processo decisionale politico e quello della produzione culturale. In una rielaborazione del lascito della Scuola di Francoforte, Byung-Chul Han ha evidenziato nel suo La società della stanchezza come le sindromi simboliche del nostro tempo, tutte di natura neuronale (da burn-out, da difetto dell’attenzione, depressiva), siano le malattie di chi si tira indietro perché sottoposto a un surplus di positività somministrata in dosi massicce del medesimo, senza contraddizioni, all’interno di un contesto sociale in cui l’imperativo di ottimizzare la prestazione e l’ottimismo programmatico del yes, we can si configurano come espressioni di un pensiero totalitario, “performativo”, che ha disimparato a dubitare di se stesso.
In questo contesto i romanzi di cui sopra trasmettono l’ambasciata implicita che le società povere siano tali perché non si sono “sviluppate” abbastanza sul cammino occidentale (o tedesco). A leggerli sembrerebbe che solo in Europa (solo in Germania) si possa vivere dignitosamente, sembrerebbe che in Europa (in Germania) non esistano condizioni mediche preoccupanti come il consumo di psicofarmaci aumentato negli ultimi dieci anni del 400%, o drastiche disparità sociali che comportano per le donne una remunerazione del 21% inferiore a quella degli uomini; sembrerebbe che non esistano una diffusa indifferenza per la collettività (si pensi alla grande truffa “ambientale” della Volkswagen) o per la progressiva trasformazione degli individui penalizzati da prodotti dell’iniquità sociale (il presupposto del vecchio welfare state) a colpevoli parassiti da scoraggiare e punire (il fenomeno è ben raccontato dall’ex lavoratrice dei servizi sociali Inge Hannemann nel suo La dittatura dell’Harz IV). Allarmanti circostanze sociali che i benestanti volontari di una ONG turca attiva sul territorio tedesco potrebbero denunciare all’opinione pubblica internazionale. Ma in Germania non ci sono ONG turche e i nepalesi istruiti non scrivono romanzi in cui immaginano di essere tedeschi poveri.