N el 1941, prima con Parenti e poi nello stesso anno con Bompiani, Elio Vittorini pubblica Conversazione in Sicilia, apparso su Letteratura come romanzo d’appendice tre anni prima. La prima edizione illustrata è del 1953, con fotografie di Luigi Crocenzi, la seconda del 1973, con scatti di Enzo Ragazzini. Solo nel 1986 viene pubblicata da Rizzoli la versione illustrata dai disegni di Renato Guttuso, che pure erano stati la prima produzione iconografica di accompagnamento al testo, realizzati tra 1941 e 1943 ma rimasti inediti per oltre quarant’anni. Delle ragioni del lavoro di Guttuso sul romanzo di Vittorini non c’è traccia: né di come sia nato, né dell’opinione che i due ne abbiano avuto a opera conclusa, né del perché sia rimasto sconosciuto per decenni. Nonostante ciò, Conversazione in Sicilia illustrato da Guttuso è un’opera significativa dove si confrontano due linguaggi diversi.
Entrambi siciliani, entrambi antifascisti, Vittorini e Guttuso stringono amicizia a Milano sul finire degli anni Trenta, frequentano la cerchia della rivista Corrente, vivono insieme per un periodo. In quel momento gli intellettuali antifascisti innervano la loro riflessione artistica e letteraria di riferimenti alla società e alla storia: in quello che scrivono o dipingono, e nel confronto con i modelli internazionali – primi tra tutti, in arte, gli esempi della pittura europea espressionista, cubista e fauve – cercano di controbattere all’autarchia culturale propagandata dal regime (ne è testimonianza l’interesse verso la letteratura statunitense che culminerà nel 1941 con la pubblicazione dell’antologia Americana curata da Vittorini). Sebbene il fronte sia unito nell’intento, però, già si trovano i germi che inaspriranno il dibattito culturale dell’Italia liberata, di cui il Partito Comunista sarà importante attore. Vittorini e Guttuso sono amici, ma sono anche due figure paradigmatiche del dibattito intellettuale di metà Novecento: la questione in cui entrambi si espongono con posizioni divergenti si dipana dai primi anni del Dopoguerra.
Appena finito il conflitto Vittorini fonda e dirige, per Einaudi, la rivista Il Politecnico intendendo dare spazio alla formazione di una nuova cultura moderna. Vittorini è comunista, ma non lo è la sua rivista, che cerca un pubblico più ampio rispetto a quello dei fedeli al Partito e che porta una riflessione intellettuale all’avanguardia, politica ma non asservita a una linea altrui. Nella linea editoriale de Il Politecnico gli esponenti di spicco del PCI, Togliatti in testa, vedono un carattere troppo intellettualistico e borghese. Ne nasce uno scontro aperto che porta Vittorini a giustificare le sue scelte dicendo di non voler suonare “il piffero della rivoluzione”, di non voler cioè subordinare la riflessione culturale alla militanza politica. Su questo punto si consuma la rottura con Togliatti, che per Vittorini sarà tanto insanabile da condurlo a rinunciare alla tessera di partito.
Tutto ciò precede di poco lo strappo tra il Partito Comunista e numerosi artisti (esemplari le storie di Emilio Vedova o Renato Birolli), che si consuma a partire dal 1948 su una querelle – la cosiddetta “questione del realismo” – che si spegnerà intorno alla metà degli anni Cinquanta. Commentando la I Mostra Nazionale d’Arte Contemporanea organizzata dall’Alleanza della Cultura a Bologna nell’autunno 1948, Roderigo di Castiglia – pseudonimo usato da Palmiro Togliatti sulle pagine di Rinascita – la definisce “una raccolta di cose mostruose”, di opere che sono “orrori” e “scemenze”. Sul numero seguente stronca le scelte post cubiste e astrattiste degli artisti che pur rimanendo ancorati a un soggetto politico e sociale sperimentavano dal punto di vista formale:
Qualche nostro ingenuo segretario di Lega forse tornò dalla mostra al paese con la dibattuta convinzione che […] la rivoluzione artistica cominci quando si dipingono mondine quadre, con fianchi di legno e viso spaccato come il melone fradicio. […] Permetteteci soltanto di dirvi che non comprendiamo nulla delle vostre studiate, fredde, inespressive e ultra accademiche stravaganze, e che esse di nulla parlano a noi e alla comune degli uomini, se non forse di un non raggiunto equilibrio intellettivo e artistico.
Togliatti assume questa posizione in una fase difficile che segue la sconfitta elettorale del 1948 e richiede per questo di imprimere una nuova spinta ai motivi ideologici e identitari dei comunisti, avviando per il PCI una stagione selettiva e di rigida considerazione del lavoro intellettuale. L’arte figurativa doveva rinunciare alle velleità astratteggianti, era tenuta ad assumere un linguaggio naturalistico, veicolare messaggi politici e rivolgersi alle masse, aderire insomma a un realismo sociale di stampo sovietico. L’arte deve narrare le vicende operaie e la lotta di classe, propagandando un’estetica opposta a quella del gusto borghese e ripudiando l’astrattismo, considerato un prodotto culturale filoamericano.
Anche a seguito della reprimenda, tra gli artisti c’è chi non rinuncia a una carriera artistica libera e incondizionata, aperta alla sperimentazione linguistica e in polemica con la politica culturale del PCI. Dall’altra parte c’è chi decide di “suonare il piffero della rivoluzione”. È questa la strada scelta da Guttuso, che abbandona il post cubismo per impegnarsi nel realismo di stampo sociale, in una pittura prima di tutto orientata alla chiarezza didascalica. L’emergere di istanze espressive diverse nel fronte intellettuale antifascista trova una sua anticipazione nell’incontro tra lo scritto di Vittorini e il disegno di Guttuso per Conversazione in Sicilia. Essendo l’iniziativa motivata dal sincero apprezzamento di Guttuso verso il testo dell’amico, non è inquinata da nessuna polemica. Vi si confrontano però due linguaggi.
Nel romanzo Vittorini racconta del viaggio di Silvestro, un giovane siciliano trapiantato a Milano che una sera, in preda a “astratti furori”, decide di prendere un treno per tornare in Sicilia. Nell’incipit Vittorini descrive lo stato nebuloso e confuso della vita del protagonista:
Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori […] bisogna dica ch’erano astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il genere umano perduto. […] Vedevo manifesti di giornali squillanti e chinavo il capo; vedevo amici, per un’ora, due ore, e stavo con loro senza dire una parola, chinavo il capo; e avevo una ragazza o moglie che mi aspettava ma neanche con lei dicevo una parola, anche con lei chinavo il capo. […] Ero quieto; ero come se non avessi mai avuto un giorno di vita né mai saputo che cosa significa esser felici, come se non avessi nulla da dire.
L’allusione a quanto accade, all’umanità perduta, ai manifesti squillanti, è difficilmente equivocabile agli occhi di un lettore contemporaneo nel 1941. Ma la condizione umana descritta da Vittorini non si riduce a essere soltanto una reazione alla storia: è un disagio esistenziale e individuale, che Silvestro vive nei suoi rapporti personali e nella percezione di sé. È interessante vedere la scelta di Guttuso nell’illustrare queste prime righe: disegna un giornale stropicciato, L’ordine fascista, in cui si dà notizia dei bombardamenti su Guernica, della guerra civile spagnola (che tra l’altro per Vittorini segnò la svolta personale da un “fascismo di sinistra” al convinto antifascismo), dell’antioperaismo fascista. Quando il lettore è ancora in attesa che la storia scritta venga collocata nel tempo e nello spazio, l’intento dell’artista è di riportarlo immediatamente a una realtà storica e geografica circoscritta: l’Italia, la guerra civile spagnola, il fascismo. Guttuso non racconta dell’individuo, si rifà subito a una storia collettiva, al dramma di tutti e a una realtà determinata.
Nel romanzo di Vittorini il riferimento alla storia è chiaro, ma il non-detto e l’allusione introducono a un livello di lettura più profondo. Leggendo e soffermandosi contemporaneamente sulle immagini dell’edizione Vittorini-Guttuso si ha l’impressione che le illustrazioni si attestino su una sola dimensione, evocandola da subito senza rispettare il movimento del romanzo. I disegni propongono una sintesi con scene più realistiche e didascaliche, riducono il polimorfismo del testo vittoriniano. Le sfumature del testo che Guttuso tralascia sono quelle dei moti interiori, in qualche modo astratte: l’impressione che la madre suscita a Silvestro dopo tanti anni, o il paesaggio della Sicilia che prima dal battello e poi dal treno si svela gradualmente al giovane, significando per lui un progressivo svelamento dei ricordi d’infanzia.
Le immagini più calzanti realizzate da Guttuso sono quelle che illustrano i brani più esplicitamente riferiti a una condizione di classe: Guttuso sa descrivere fedelmente la Sicilia perduta di Vittorini. Nella traversata verso Messina, Silvestro incontra un venditore di arance accompagnato dalla “moglie bambina”, rannicchiata nelle coperte. Il personaggio del venditore grida miseria, non riesce ad affrancarsi dalla disperazione di cui è intriso ogni suo gesto.
L’uomo si strinse nelle spalle e non disse altro, aveva una specie di bambina, seduta su un sacco, ai piedi, e si chinò su di lei, e uscì di tasca una grande mano rossa e la toccò come carezzandola e insieme aggiustandole lo scialle perché non avesse freddo. […] Il piccolo siciliano parve disperato, e rimase in ginocchio, una mano in tasca, l’arancia nell’altra. Si rialzò in piedi e così continuò a stare, col vento che gli sbatteva la visiera molle del berretto contro il naso, l’arancia in mano, bruciato dal freddo nella piccola persona senza cappotto, e disperato, mentre a picco sotto di noi passavano, nel mattino di pioggia, il mare e la città.“È così difficile vendere le arance?” “Non si vendono,” egli disse. “Nessuno ne vuole.” Il treno intanto era pronto, allungato dei vagoni che avevano passato il mare. “All’estero non ne vogliono […] e il padrone ci paga così. Ci dà le arance… E noi non sappiamo che fare. Nessuno ne vuole. Veniamo a Messina, a piedi, e nessuno ne vuole… Andiamo a vedere se ne vogliono a Reggio, a Villa San Giovanni, e non ne vogliono… Nessuno ne vuole […] Andiamo avanti, indietro, paghiamo il viaggio per noi e per loro, non mangiamo pane, nessuno ne vuole… Nessuno ne vuole”.
Il pittore dedica due disegni alla figura del “piccolo siciliano”. Nel primo ritrae l’uomo con la moglie seduti a prua dell’imbarcazione che deve giungere in Sicilia, stretti l’uno verso l’altro per ripararsi dal vento in una scena umile e intima. Raffigura una seconda volta lo stesso venditore con il suo sacco di frutta, con il mento e il braccio rivolti all’insù e un’arancia stretta in mano, mentre si rivolge a Silvestro salito sul treno, un po’ pregando e un po’ inveendo contro chi non compra la sua merce e lo condanna alla povertà.
Concluso il viaggio iniziato a Milano, Silvestro rientra nella sua casa d’infanzia, trova la madre Consolazione e avvia con lei una lunga conversazione. Il mobilio della casa e il cibo che Consolazione serve al figlio, lo stesso che gli nascondeva quando lui era piccolo, diventano un pretesto per ricordare aneddoti e abitudini del passato.
Il popone fu messo in tavola e rotolò piano verso di me, una volta, due, verde nella forte scorza sottilmente intarsiata d’oro. Mi chinai ad annusarlo. “È lui,” dissi. E fu odore profondo non di lui solo; vecchio odore come vino del solitario inverno nelle montagne, dinanzi alla linea solitaria, e della sala da pranzo, piccola, col tetto basso, nella casa cantoniera.
Così ogni elemento concreto di quella situazione reale diventa evocativo, apre alla sfera dell’interiorità del personaggio che fa i conti con la sua memoria. Guttuso qui è fotografico: una natura morta con il tavolo della cucina, la sedia vuota, un lume acceso e il melone tagliato sul tavolo, offrendo ancora una volta una rappresentazione molto fisica, reale e concreta del testo, addirittura eliminando la presenza umana.
Conversazione in Sicilia dimostra così, in questa versione pensata tra 1941 e 1943, una precoce differenziazione delle prospettive culturali di metà secolo. Porta all’attenzione del lettore due narrazioni diverse della realtà: una realista e una più onirica. Benché non si conoscano i motivi della mancata pubblicazione, si potrebbe pensare che all’indomani della guerra Vittorini fosse già impegnato nell’edizione di Uomini e no (1945) e che successivamente, negli anni in cui la dialettica culturale divenne più aspra, a nessuno dei due sarebbe stata conveniente una collaborazione pubblica con una figura intellettuale impegnata a difendere una posizione diversa.
Le immagini incluse nell’articolo sono tratte da Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini (Rizzoli, 1986).