L a grande mostra dedicata a Giorgio de Chirico al Palazzo reale di Milano si pone l’obiettivo, nelle parole del curatore Luca Massimo Barbero, di rispolverare l’opera del pittore e di aprirla alle nuove generazioni: sfida complessa in un momento dove l’accelerazione incessante verso il futuro non sembra lasciar posto a un ritorno al passato, ma certo non impossibile, per il valore delle opere esposte e per le caratteristiche della metafisica che si smarca in un certo qual modo dal ritorno all’ordine a cui è generalmente assimilata.
Se infatti, rispetto ad avanguardie più violente e provocatorie come il futurismo o il cubismo, la metafisica assume uno stile e dei toni più neutri, questo aspetto superficiale nasconde in realtà una carica teorica esplosiva che mira ugualmente a costruire una rivoluzione nella percezione della realtà, certo sommersa e meno evidente, ma comunque presente. La decontestualizzazione degli oggetti rappresentati per esempio, tema che ha grande rilevanza anche nella selezione delle opere che costituiscono la mostra, si situa nella grammatica elementare della metafisica: questo spiega in parte, per esempio, come la metafisica ricorra raramente ai giochi e alle deformazioni di gusto dadaista o futurista, perché la deviazione e la ridistribuzione semantica avvengono già all’interno della scena, in evidenza dunque e nello stesso tempo in maniera meno lampante.
Nel catalogo della mostra pubblicato da Marsilio, incentrato su un saggio molto esplicativo del curatore, trova spazio un articolo di Andrea Cortellessa dedicato agli autoritratti di de Chirico che si apre con il riferimento a una poesia del pittore. Nell’opera lirica l’“inquietante” assume un valore decisivo, che Cortellessa mette in comunicazione con l’opera pittorica, ricostruendo una relazione decisiva tra la scrittura e l’arte. Non solo maestro dell’arte metafisica dunque, Giorgio de Chirico è stato anche scrittore, notizia spesso sottovalutata se non del tutto ignorata, e si è cimentato sia nella scrittura in versi che nella prosa. Se quest’ultimo genere è forse un po’ più ricordato (si pensi per esempio a Ebdòmero, “un ouvrage interminablement beau” per usare le parole di Breton, che sarà presto ripubblicato da La nave di Teseo), l’esercizio della poesia resta invece un segreto, questione abbastanza paradossale se si pensa a quanto le sue immagini siano celebri e a quanto il suo nome evocato. C’è però da dire che fino a oggi le poesie di de Chirico non avevano mai avuto una vera e propria pubblicazione e sistemazione in volume (seppure la rivista Metafisica della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico le aveva raccolte con la cura del presidente Paolo Picozza): riveste quindi un grande interesse la pubblicazione per La nave di Teseo di La casa del poeta, volume curato con la consueta precisione e acribia filologica da Cortellessa appunto, che raccoglie per la prima volta e integralmente l’opera poetica di de Chirico (parte delle poesie sono scritte in francese e tradotte da de Chirico stesso, altre da Valerio Magrelli), togliendo, forse, questa componente dell’opera del pittore all’esclusiva attenzione dell’accademia.
La poesia per de Chirico non riveste semplicemente la funzione di un esercizio d’occasione, ma soprattutto nei trent’anni che corrono tra il 1911 e il 1942, rappresenta un laboratorio decisivo rispetto all’attività di pittore. Basti pensare che la celebre tela L’enigma di un pomeriggio d’autunno, fondatrice dell’arte metafisica, risale al 1910, alle porte dell’esperienza poetica, durante un “chiaro pomeriggio d’autunno” a Firenze, in Piazza Santa Croce, dove de Chirico racconta di aver avuto “la strana impressione di vedere tutto per la prima volta”. Nella poesia che Cortellessa cita nel suo saggio nel catalogo, e che ora trova sistemazione nel nuovo volume, “L’ora inquietante”, non è difficile vedere la relazione tra la poesia e le immagini che costituisce il nucleo della sua opera:
Tutte le case sono vuote
risucchiate del cielo aspiratore
Tutte le piazze deserte.
Tutti i piedistalli vedovi.
Le statue – emigrate in lunghe
carovane di pietra verso porti lontani.
[…]
Ma anche l’immortalità è morta
In quest’ora senza nomi sui quadranti
Del tempo umano.
Che sia rimasto io solo con
un resto di tepore vitale sulla
sommità del cranio?
Che sia rimasto io solo con un palpito
superstite nel cuore che non tace?
Torna beatitudine stanca dei miei anni andati!
Ciò che ho perduto non lo riavrò più mai.
Come emerge da questi versi, dove trovano spazio le piazze desolate e i piedistalli vuoti, la nuova arte che de Chirico contribuisce a fondare (insieme, tra gli altri, al troppo dimenticato de Pisis, anche lui interessante scrittore, e al fratello Alberto Savinio) mira a una rappresentazione che oltrepassi la fisica e si sleghi dalla realtà: lo scopo della pittura non è più rappresentare le cose così come sono, ma tentare un itinerario che porti a scoprire il piano nascosto e insolito dietro la banalità della vita quotidiana. Le parole di de Chirico quando scrive che la logica danneggia l’opera d’arte, perché colpevole di annullare il senso di mistero che si trova oltre la soglia del reale, vanno allora interpretate alla luce di questo processo di creazione.
Solo superando questo meccanismo classico gli oggetti che costellano le pitture metafisiche acquisiscono la loro natura più profonda: ricavati dalla folla di cose che sono parte della quotidianità, il buon artista metafisico opera un vero e proprio spostamento degli oggetti non attraverso una deformazione delle linee ma inserendoli in un ambiente non naturale, per fare in modo che questi oggetti si vedano all’improvviso, come se fosse la “prima volta”, per riprendere le parole di de Chirico. Ecco allora, ripensando anche ai versi di L’ora inquietante, che la parola metafisica deve essere riportata al suo significato filosofico e trascendentale: al soggetto rappresentabile, esplicito e narrativo protagonista di tutta la pittura, la nuova arte decide di sostituire una realtà “metafisica”, un soggetto inattingibile e dallo spirito enigmatico, che la pittura è chiamato a tirare fuori.
Trova poi spazio, nell’arte metafisica, un meccanismo che unisce la realtà e il sogno. Ancora una volta è una poesia a mettere bene in luce la natura di questo legame, Una vita, scritta originariamente in francese:
Vita, vita, grande sogno misterioso! Tutti gli enigmi che mostri; gioie e lampi… Visioni presentite… / […] Portici al sole. Statue addormentate. / Ciminiere rosse; nostalgie d’orizzonti sconosciuti… / E l’enigma della scuola, e la prigione e la caserma; e la locomotiva che fischia la notte sotto la volta ghiacciata e le stelle. / Sempre l’ignoto; il risveglio al mattino e il sogno che abbiamo fatto, oscuro presagio, oracolo misterioso…
Sembra che in questa poesia, de Chirico individui nel sogno, e nel luogo ad esso predisposto, la notte, la natura di “oracolo”. Siamo quindi ancora nel campo semantico più profondo e originario del termine metafisica: de Chirico situa la sua scrittura, come la sua pittura, in una zona di passaggio, una soglia, tra l’esistente e la fantasia, tra la luce e il buio, rintracciando proprio in questo spazio liminare il luogo privilegiato di analisi e di creazione.
I soggiorni a Parigi di de Chirico in compagnia del fratello sono certo importanti anche per la messa a punto degli aspetti specifici della metafisica, soggiorni durante i quali de Chirico entrò in contatto, oltre che con André Breton, anche con Apollinaire, Picasso e Jacob. Fu durante il secondo soggiorno parigino, iniziato nel 1924, che de Chirico frequentò il gruppo dei surrealisti e sulla città francese, e sulla sua importanza per la sua arte, ebbe modo di scrivere:
La modernità – questo gran mistero – abita ovunque a Parigi: la si ritrova ad ogni angolo di strada, accoppiata a ciò che era un tempo, pregna di ciò che sarà. Come Atene ai tempi di Pericle, Parigi è oggi la città per eccellenza dell’arte e dell’intelletto. È lì che ogni uomo, degno del nome d’artista deve pretendere il riconoscimento del suo valore.
Nel suo Memorie della mia vita, altra nuova recente pubblicazione della Nave di Teseo, si possono seguire tutti i movimenti e gli avvenimenti più importanti della vita di de Chirico raccontati da lui stesso, con particolare attenzione ai momenti decisivi e agli snodi fondamentali dell’arte metafisica. Come giustamente annota Franco Cordelli nella sua introduzione al volume delle Memorie (un’altra è firmata da Elisabetta Sgarbi, che racconta l’imprescindibilità della lettura di questo libro nella sua famiglia e tra gli amici, tra Vittorio Sgarbi e Giorgio Bassani), le numerose persone che appaiono in questo libro “diventano sempre e immediatamente personaggi” perché a de Chirico bastano poche righe per tratteggiarne il carattere e metterne in scena i tic e le idiosincrasie.
Meritano menzione le pagine strazianti e commosse che de Chirico dedica alla morte del fratello minore, nel 1952: il ricordo della tragica notte tra il 4 e il 5 maggio (de Chirico arrivò dal fratello che questi era già morto: “con il braccio destro piegato e con la mano destra poggiata sul petto, mentre il braccio sinistro era disteso lungo il corpo”), riporta alla mente la morte del padre, ma soprattutto è occasione per un fratello amoroso, più ricco come scrive, ma allo scuro della gravità della situazione del fratello (“io avrei potuto venire in aiuto a mio fratello, moralmente e materialmente e forse, facendo così, avrei potuto prolungargli la vita”), per rivendicare onestamente la grandezza, riconosciuta da pochissimi, dell’opera di Savinio, come scrittore, pittore e musicista.
Se le Memorie sono allora il tentativo di de Chirico di mettere in fila gli avvenimenti della sua vita, questa regolarità non si rintraccia invece né in Ebdòmero né nelle sue poesie. Queste ultime sono infatti contrassegnate da un carattere ondivago e rabdomantico, in continua ricerca di un centro da cui però nello stesso momento si trovano costrette a fuggire, nell’impossibilità di mettere ordine alla materia psichica e a un’ispirazione esplosiva. La poesia Scura foresta della mia vita, scritta nel 1927, rappresenta bene questo percorso, con il buio che funziona nello stesso tempo come elemento che crea confusione e che rassicura:
Ti ho sempre amato scura foresta della mia vita.
Foresta più tetra
di una notte tetra
al polo tetro…
Volta del cielo, al polo, una notte…
notte senza vele,
ma senza stelle
né aurore boreali…
Volta del cielo, al polo, questa notte…
Nei miei slanci e nelle mie ebbrezze,
nelle mie fatiche e nelle mie bassezze,
nelle mie folli speranze, nelle mie dolci tenerezze,
nei miei pesanti dolori, nelle mie buone saggezze,
nei miei grandi coraggi, nelle mie stanchezze,
nelle mie viltà, nelle mie turpitudini,
nelle mie astrazioni, nelle mie quintessenze,
nelle mie solitudini, nelle mie grandi dissolutezze,
nei miei vani appelli, nelle mie pesanti confidenze,
in tutte le voci
che cantano in me
i grandi turbamenti innumerevoli…
Ti ho sempre amato scura foresta
della mia vita.
Questa è la natura del viaggio personale, letterario e artistico di de Chirico, un cammino di rigenerazione e acquisizione della realtà che non può però seguire la retta via di una logica narrativa lineare ma che invece deve ricorrere a una trasmissione intermittente, “correndo all’impazzata lungo un filo spezzato, spettrale, sotterraneo, cioè metafisico” come ha notato Cortellessa. Manganelli ha scritto, parlando di Ebdòmero, che nella scrittura di de Chirico “l’originario delirio che ancora si indovina si dispone ordinatamente in un racconto che non procede di avvenimento in avvenimento, ma trascorre da un’immagine a una parola ad un’analogia ad un’altra”: così allora la fenomenologia del racconto e del ricordo trova la sua consistenza narrativa a fatica attraverso le impervie strettoie dell’esistenza.