M i è stato chiesto spesso quale fosse il rapporto tra la mia attività di scrittura e quella di traduzione, quanto le due cose si influenzassero e modificassero a vicenda. Mi sono resa conto che le mie risposte sono cambiate nel tempo, come è cambiata la percezione di questo rapporto. Oggi mi è difficile confrontarmi su questa necessaria compenetrazione in un modo che riguardi solo il mio lavoro. Non si scrive e non si traduce fuori da un contesto. Il contesto, però, non è dato solo dalla realtà in cui si è immersi ma anche dalla relazione con altri scrittori e altri traduttori. Il confronto con gli altri, in questo senso, non riguarda semplicemente soluzioni stilistiche, ma mette in gioco pratiche attive – politiche, etiche – che hanno a che fare con la nostra vita e il nostro agire all’interno di una comunità e di una lingua. Le cose si complicano e si densificano ulteriormente se si somma una questione di bilinguismo – quindi un ulteriore rapporto dialettico tra due lingue – al rapporto tra scrittura e traduzione.
Inizialmente avevo pensato di provare a riflettere su questi argomenti con Livia Franchini, di cui avevo tradotto in italiano il romanzo Gusci, edito in originale in inglese col titolo di Shelf Life. Perché aveva deciso di affidare a un’altra persona la traduzione del suo libro invece di autotradursi? Cosa significava questo tipo di investimento? Qual era il confine tra traduzione e riscrittura? Abbiamo davvero bisogno di questo confine? Come si è ampliata nel tempo la metafora della traduzione?
Con Livia abbiamo pensato di allargare il discorso ad altre scrittrici e scrittori che si sono confrontati con questo genere di domande. Per dare una forma coerente al flusso di interventi, Livia ha proposto una struttura ricalcata dal renga giapponese, una poesia a catena di tipo collaborativo. Questo è il risultato.
Veronica Raimo, che ha curato il dialogo insieme a Livia Franchini
Livia Franchini
1) Tra il teorizzare una certa pratica di traduzione liquida e il praticarla si introduce un sottile senso di ansia, di inadeguatezza. “Ah! Se non avessi tradotto sarei una scrittrice peggiore, ho imparato tanto dal tradurre!”: questa in realtà è una bugia leziosa, dato che la traduzione, almeno per me, è la condizione essenziale dello scrivere. Traduzione come pratica (al netto della teoria) come atto necessario del condurre materiale di significato da un luogo all’altro senza la pretesa di risalire al dato originale. Anzi la convinzione crescente, empirica, che forse una materia primaria non esista; lo sviluppo di un’etica del riciclo in un certo senso, un umile cavare materiale dall’esperienza per riformularlo in qualcosa di significativo per qualcun altro.
2) Faccio del mio meglio (quando traduco, quando scrivo) e la maniera è la stessa: usare il materiale disponibile con addosso l’ansia di trasportarlo in una forma che possa essere compresa. So che nonostante il mio impegno qualcosa in traduzione andrà perso, ma mi metto al lavoro lo stesso, conscia dei limiti della mia conoscenza. So che il testo mi pre-esiste, che mi sopravvivrà, e questo in un certo modo rimpicciolisce il mio ruolo, mi tranquillizza, mi mette in condizione di lavorare.
3) Tradurre mi ha insegnato soprattutto a fare pace con la mia limitatezza, con il mio senso di perdita: prima di farci pace, non riuscivo a scrivere. Quindi è una cosa buona l’ansia?
Veronica Raimo
1) Mi piacerebbe pensare che esista un’ansia non solo invalidante ma anche validante. Quando ho cominciato a lavorare sul libro di Livia Franchini quel “sottile senso di ansia” tra la teoria e la pratica equivaleva più o meno al genere di conflitto di alcune coppie aperte, dove la condivisione della libertà reciproca si trasforma in un elemento altamente vincolante, come se la ricerca di una propria autonomia al di fuori di quel rapporto aperto comportasse un’implicita approvazione da parte dell’altro/a. Più è alto il fattore di libertà, più si ha paura di un tradimento – etico, estetico – ovvero si ha paura di una scelta sbagliata, di qualcosa che mini quella condivisione.
2) Quando è stato tradotto in inglese il mio libro, il conflitto ha assunto invece questa forma: gli editori anglo-americani premevano per una lingua che perdesse ogni eco dell’originale, il mio traduttore premeva per mantenere una sorta di idiosincrasia di fondo che per lui equivaleva a un atto di fedeltà alla mia lingua. Voleva che si “sentisse” che fosse un libro tradotto. In un certo senso, ci eravamo dati meno libertà, e questo si è tramutato in un rapporto vischioso in cui rispetto alla possibilità di una scelta sbagliata, subentrava il tentativo di minimizzare la possibilità stessa di scegliere.
3) Che significa sentirsi liberi in una traduzione, e come si manifesta la “scelta”, quando si ha un rapporto con l’autore/autrice che si sta traducendo?
Francesco Pacifico
1) Chiara Barzini mi ha chiamato a tradurre il suo romanzo, scritto in inglese americano e ispirato alle sue esperienze di adolescente italiana a Los Angeles, dopo che avevo riscritto il mio romanzo Class in inglese, per un editore americano. (Tra l’altro dieci pagine di quel libro furono tradotte per una rivista inglese proprio da Livia!). Con il mio editor avevamo deciso che invece di tradurre il libro, di farlo tradurre, l’avrei riscritto, perché parlava dei rapporti di potere tra l’italiano e l’inglese americano e i rispettivi immaginari e culture, e bisognava che la satira del potere di lingua e immaginario venisse rovesciata al negativo, facendo trasparire l’italiano nell’inglese invece che l’inglese nell’italiano come succedeva nella prima versione. Quando ho tradotto Chiara è sorto un conflitto fortissimo tra noi, che riassumerei con la tenerezza con cui ci siamo parlati la prima volta che ci siamo visti dopo l’uscita del suo libro. Come dice Veronica, è un po’ una coppia aperta questo lavoro, e io e Chiara, penso, ci siamo guardati dopo aver combinato un pasticcio con i desideri e le fantasie. Io mi ero tuffato nel suo libro cercandoci tutti gli aspetti meta, come nel mio, ma la sua esperienza dell’inglese era più diretta e naturale della mia.
2) Per me l’inglese è il latino, per lei è la lingua dell’adolescenza. Io ho dovuto accettare questa differenza di desideri e di vissuti della lingua e tradurre la sua bella storia losangelina, la sua Valley e il suo Topanga Canyon, in modo più diretto e naturale (fosse stato per me avrei lasciato un sacco di inglese nella traduzione italiana, per esempio). Questo tipo di conflitto tra verità emotive collegate alla parola è il motivo per cui mi piace vivere dentro la letteratura. E vivere nella letteratura non è vivere in una piramide, in una classifica, ma vivere in una specie di guerra combattuta con una specie di parole crociate senza soluzione. Sono con Livia, tradurre è stare in un posto di amore puro per la lingua, proprio perché stai nel posto che nega la realtà oggettiva della lingua. Perché la lingua di tutti i giorni ci sembra oggettiva, e spesso anche la cultura alta finge che lo sia. I traduttori spacciano una lingua tagliata, c’è sempre il gusto del crimine nel farlo.
3) Però poi quando scrivo voglio conservare il gusto del crimine che mi dà tradurre. La lingua non esiste, la lingua alta è una truffa aspirazionale. È tutto un gioco mitomane. Gadda è il mio eroe perché sceglie le parole a caso. Sto scrivendo una novella in inglese, e sto tenendo un diario del Covid in inglese per una rivista americana. Scrivere in inglese mi permette di staccarmi dalle angosce che mi dà la consapevolezza dell’italiano. Si scrive per lo Strega, e per il domenicale e Alias, e per usare le parole di Arbasino e quelle di Manganelli. Non ne posso più di scrivere in italiano, perché è una scrittura del conformarsi. La scrittura per obbedire insieme a Nuovi Argomenti e al Gruppo 63, la scrittura prigioniera. Scrivendo in un’altra lingua (per farlo, in questo periodo leggo, Conrad, DeLillo e Claudia Rankine) torno a sognare associazioni mentali che non capisco ma riconosco. Chiara, è così per te? Com’è stato scrivere di adolescenza in inglese invece che in italiano?
Chiara Barzini
1) In effetti la storia della nostra coppia è stata particolare, un rapporto tempestoso e altalenante, ma è stato bello e interessante anche per questo. Ho conosciuto Francesco tramite Tim Small che è stato una grande ancora di salvezza quando sono tornata a vivere in Italia dagli Stati Uniti, uno dei primi della “nostra” generazione a giocare sulla trasversalità della lingua e della cultura anglosassone. Nel 2012 aveva fondato La Milan Review Of Literature, una sorta di Paris Review italo-americana che porgeva uno sguardo illuminante verso alcuni degli scrittori sperimentali americani che amavo di più: Nelly Reifler, Deb Olin Unferth, Amelia Gray, Amie Barrodale e Clancy Martin. Con Francesco sentivamo di far parte di un piccolo gruppo di insurrezionalisti. Avevamo scoperto che le riviste letterarie potevano prendere la forma di novelle, racconti, interviste, opere d’arte estemporanee al di fuori dall’establishment letterario. Lavorare a quattro mani per tradurre un romanzo insieme alla persona che lo aveva scritto originalmente è stata la sfida di Terremoto. Abbiamo scoperto che era come andare a letto con l’amante mentre la moglie ai piedi del letto ti stava a guardare. Francesco aveva in effetti quello che lui chiama “il gusto del crimine”, la voglia di rompere e irrompere, reinventare, mentre io avevo un bisogno materno che le cose arrivassero a suonare il più possibile come lo erano nella versione originale. Il verbo “tradurre”, come hanno sottolineato tante volte Jhumpa Lahiri e Francesca Marciano nelle loro conversazioni su questo tema, ha la stessa radice di “tradire”. In quel momento così fragile del passaggio da una lingua a un’altra, non ero disposta a fare il ruolo di moglie. Volevo essere io l’amante. Come tutte le coppie che funzionano però abbiamo anche imparato a concederci la libertà e questo regalo è rimasto.
2) Scrivere di adolescenza in inglese invece che in italiano è stato naturale perché l’inglese è la lingua della mia adolescenza. In inglese ho scritto i miei primi racconti, ho riempito diari ossessivi sui dettagli della vita di Johnny Depp con Kate Moss. In inglese ho dato i primi baci e commesso i primi grandi errori, le prime trasgressioni. Era la lingua che mi aveva aiutata a inventare un mondo nuovo. Scrivere in inglese era anche urgente. Se non lo avessi fatto, non sarei riuscita ad andare a scuola, ad assimilarmi. Voleva dire rompere con una parte di me che avevo dovuto lasciare alle spalle. È una lingua verso la quale sono molto protettiva poiché è la lingua che mi ha salvata nel momento in cui dovevo sbrigarmi a trovare una vita e un’identità nuova, ed è una lingua che mi parla di sopravvivenza. Riuscire a far parte di un sistema, entrare in un’università, cominciare a scrivere per dei giornali, diventare quindi la scrittrice che sono oggi, è stato un percorso che è nato proprio con l’abbandono dell’italiano, una lingua con cui ho ancora dei conflitti infantili.
3) E parlando del contrasto tra italiano-inglese e infanzia-vita adulta, non posso non pensare a Claudia Durastanti che ha fatto il percorso inverso al mio e a quello di molti espatriati: New York era il luogo dei ricordi dell’infanzia e l’Italia quello dove è approdata poi. Pochi giorni fa La Straniera, che tutto sommato parla anche di questo, ha vinto il Pen Prize per la traduzione. L’ultima volta che ci siamo viste alla tua presentazione con Veronica Raimo a Roma, mi dicesti che stavi pensando di tradurlo tu in inglese. Poi hai lasciato che lo facesse Elizabeth Harris. Vorrei chiederti il motivo di questa scelta e sapere se anche tu, come Francesco ed io, hai lavorato a quattro mani. Sei stata moglie o amante?
Claudia Durastanti
1) Forse sono la gemella cattiva, o quella che rimane intrappolata in uno specchio. Mi vengono in mente solo immagini saffiche midcult da The Black Swan a Mulholland Drive: non che io e la traduttrice abbiamo instaurato questo tipo di rapporto, ma sono l’italiano e l’inglese in me a comportarsi così. Ho appena ricevuto il manoscritto de La Straniera in inglese, dopo averlo aspettato un anno, e la prima cosa che ho fatto è stata mettermi a piangere: passato tutto questo tempo, non solo il libro italiano ha iniziato a perdere i contorni e a smaterializzarsi in tanti aspetti, ma adesso che torna a me nella sua prima lingua inconscia mi “suona” proprio come se non fossi stata io a scriverlo, pare ci sia stata quasi una mutazione genetica nel testo. Probabilmente l’ho fatto tradurre a Liz Harris per questo motivo, non volevo perdere l’occasione di avere una reazione del genere, di compiere un’ulteriore separazione. Ora ho precisamente la tentazione di difendere il suo talento ed estro, questa radicalità della distanza, mentre all’inizio ero convinta che sarei intervenuta molto di più, che sarebbe stato ovvio oltre che di buon senso optare per una traduzione assistita. Ma si perderebbe tutto il gioco che soggiace dietro la mia scelta. Più che tradurlo, lavorando sulla Straniera in inglese io avrei corso il rischio di riscriverlo, di farne un’opera aperta che non si sarebbe mai compiuta. Invece così riesco ad appassionarmi di nuovo alle storie che contiene, ma le leggo come quelle di un’altra autrice che ha scritto narrativa ibrida negli ultimi anni, in una dinamica quasi di “disconoscimento” che mi pare generativa: in qualche modo quel che scriverò adesso, le prossime riflessioni teoriche che metterò a punto sulla traduzione, si incisteranno in questa esperienza.
2) Scrivere di traduzione, oltre che scrivere influenzata dalla traduzione – come Livia non riesco a immaginare una pratica senza l’altra, si plasmano e decostruiscono a vicenda – è tutto sommato una novità degli ultimi anni per me, ho scoperto che è proprio un mini-genere che mi appaga molto. Ho una forte insofferenza verso i personal essay di qualsiasi tipo in questa fase, ma non se propongono ragionamenti sulla lingua e sulla trasmutazione della lingua, che sia offrendo una chiave di lettura diversa sui romanzi classici o contemporanei o proponendo un’interpretazione di altre arti. Mi rendo conto che per quanto consumata e sempre sollecitata, la metafora della traduzione si rinnova sempre per me.
3) Se scriversi in un’altra lingua mi fa pensare al travestimento, al teatro e ai giochi di ruolo, tradursi in un’altra lingua richiama inevitabilmente tutto un gorgo psicanalitico di scissione e di un sé che mai vuole finire. È talmente autoevidente come meccanismo che pare quasi una favoletta borgesiana in mano a un analista non troppo bravo. E però credo che per quanto identificabili e prevedibili dei meccanismi psicologici, ognuno di noi ha risposte di sfida, o illusioni di una soluzione privata a un dilemma comune. Per questo la domanda “com’è stato scriverti in un’altra lingua?” per me ha ancora senso. Per te, Ilaria, com’è stato?
Ilaria Bernardini
1) Scrivere in un’altra lingua ha scatenato una rivoluzione. Non mi ero mai confrontata così direttamente con il senso dell’altro, dell’altrove, dell’altrui, con tutti i cascami che autorizzarsi a usare qualcosa di altrui appunto porta, insieme ai temi del tradimento/ della traduzione (che poi a me capitava di farlo per un libro in cui il tradimento è al centro della trama, quindi ogni pensiero a riguardo mi è parso risuonare ). Ho anche provato a non farlo, perché ero terrorizzata ma quando ho attaccato con l’italiano mi sembrava di far finta, non credevo alle protagoniste, a nessuna frase e “il gioco mitomane” di cui parla Francesco non avrebbe funzionato: l’italiano sarebbe stata una traduzione, di un senso, di un suono, il tradimento di tutta una storia. Il ritratto si svolge infatti a Londra, le protagoniste e tutte le persone si parlano in inglese (l’inglese di chi arriva da tutte le altre parti del mondo, la lingua dell’essere stranieri, storta, con le pause più lunghe, gli accenti e gli intercalare che tornano sempre alla propria origine, alcune sfumature che mancano, gli scherzi lost in translation, una certa parte di sé lost in translation, la lingua imparata dai libri, dai film, dalle canzoni, dagli anni via). Quando ho cominciato non sapevo se avevo una voce letteraria in inglese. Esplorarlo, capirlo, ha preso molto tempo. Il tempo, ecco. L’inglese mi ha di certo obbligata ad andare più piano, a pensare i pensieri a un ritmo diversissimo da come sono abituata a pensarli: scrivo veloce, furiosamente, in italiano. Scrivo troppo, scrivo anche sapendo di saper fare certe cose che per fortuna non so per niente fare in inglese: questa lingua mi ha permesso quindi di non ascoltare la mia solita voce e di abitarne, usarne, un’altra per davvero. Ho anche notato che in inglese riesco a essere più sentimentale in un modo di cui non ho vergogna, a dire cose che in italiano non riuscirei mai a dire e scrivere. Mi chiedo se c’entri col fatto che nulla di terribile e bellissimo mi è successo in inglese: non è la mia lingua madre, non ho goduto o sofferto in inglese, neanche urlato credo. Non è il mio passato e nel presente non ho amato o detestato in inglese.
2) A differenza di Chiara e Livia che scrivono in inglese dopo aver abitato o abitando all’estero per davvero, per me l’Inglese non rappresenta una fase così netta della vita: è un continuo, è appunto l’altrove, resta altrove, ci si arriva sempre, si riparte sempre. Non è neppure l’unica altra lingua, sono cresciuta anche con il francese e abito molto tempo dell’anno in Spagna. Proprio per questo – perché è in più lingue che mi perdo e mi trovo – mi chiedo però se c’entri solo con l’inglese questa possibilità più vasta di fare da altrove emotivo, creativo, anche politico. Di un fare e un produrre e un ricevere cioè, che è la radice propria di un farsi/darsi collettivo. E cosa questo suo fare da ponte e da casa, fare da altrove quasi familiare, quasi comprensibile per molti, scateni. Mi chiedo se almeno alcuni dei pensieri che in questo nostro gioco a tre strofe riusciamo a condividere, si applichino soprattutto a questo circolare evidente, luminoso anche, della pratica di una lingua che da moltissimo tempo ormai ha anche il ruolo di far sì che ci si possa parlare se si viene da mille posti diversi, capirsi anche quando lontanissimi dalla propria mappa. Mi chiedo come cambierebbero le cose che abbiamo scritto e quali invece resterebbero valide, forse tutte ma non possiamo avvicinarci a saperlo (se non provando a immaginarci immersi nella traduzione in/da dialetti che sanno in 30 ormai sulla terra, culture lontanissime, cui non siamo mai esposti né in maniera alta, bassa, o media: un’alterità più brutale, un perdersi vero). Mi chiedo che differenze ci siano – se ci sono – tra il tradurre la lingua che sanno in moltissimi e il tradurre o scrivere una lingua che sanno in pochissimi di cui in meno sulla terra hanno letto, cantano canzoni e hanno visto film o video youtube e scritte sulle porte delle toilette.
3) Mentre scrivo in inglese, leggo solo inglese. Mentre scrivo italiano, leggo solo italiano. Mi sono accorta però, scegliendo cosa leggere durante The Portrait, di come certi libri che andavo a ripescare non avessero più il solfeggio cui ero affezionata e che volevo ritrovare: appartenevano alla versione che avevo letto, italiana. Appartenevano alla me che li aveva letti, quindicenne. L’esperienza di rileggerli in inglese ha comportato, insieme alle conquiste, quindi anche una perdita: qualcosa di affettivo, che mi aveva commosso e non ho più ritrovato. A parte la perdita di certe frasi ho perso quindi una parte di me, cui non ho più accesso (forse però è così con tutto, rileggere il libro anche nella stessa lingua e tradotto dalla mente dei quindici anni, tradotto da quella dei trenta e quella più vicina tipo alla morte porta un continuo scarto, una continua nostalgia). Quando ho riscritto il libro in italiano, la battaglia per ritrovare il solfeggio mio invece, per ritrovare la mia voce che non era più la mia voce, è stata violenta, claustrofobica: ero straniera a casa. E a casa ora c’erano delle regole nuove, delle costrizioni, e le regole e le costrizioni non mi aiutavano per niente: prima ero libera! Ho passato quasi un anno a non sopportare di usare il passato remoto per esempio – l’odio a scrivere “feci” – e solo rileggendo gli americani tradotti in italiano, fare pace col tempo verbale. Il passato remoto non mi dava nessun fastidio da lettrice italiana, mi dava fastidio solo se mi pensavo scrittrice italiana, solo se pensavo che aver scritto in inglese aveva distrutto la mia libertà in italiano. Il titolo porta temi simili in qualche modo e porta a perdersi/ o a trovare nuovi significati, in quello scarto tra l’intento originale, il cuore per noi della storia che abbiamo scritto, l’intento più mistico, segreto, la ricerca esistenziale affrontata e in qualche modo conclusa attraverso l’atto creativo. Penso a Shelf Life/Gusci. Anche a Things That Happend Before the Earthquake/Terremoto (ma quindi sono le cose successe prima del terremoto o il terremoto? Cambia in Italia e in America la cronologia di questo porre l’attenzione?) Penso a Miden/ The Girl at the Door soprattutto: il fuoco su una società/ il fuoco su una ragazza. Quale parte per il tutto si racconta lì, fuori dal libro, e in che modo la nostra esperienza della storia una volta che saremo invece nel libro verrà modificata da questo cambiamento nel titolo? Se ti rileggi con un nuovo titolo, cosa provi? La storia, con titolo diversi – magicamente – un poco cambia?
Veronica Raimo
1) Non ho mai amato il titolo inglese The Girl at the Door, mi sembrava ammiccare a libri che non avevano niente in comune col mio. Ho insistito per tenere Miden, ma a un certo punto è venuto fuori che in slang scozzese volesse dire “cesso”, cosa che in realtà non sono mai riuscita a verificare (se è stata una cazzata per farmi desistere, la trovo geniale). Comunque è vero, si è spostato l’accento dalla comunità a uno dei personaggi: quello che dà l’innesco alla storia ma che praticamente non ha voce per il resto del romanzo. E qui subentra l’altro aspetto problematico. Nel Regno Unito e negli USA il libro è stato venduto come “Il primo romanzo post-Weinstein” riprendendo una frase del Vanity Fair italiano. Io l’avevo finito di scrivere prima del caso Weinstein, quindi per me il rapporto dialettico con la realtà nel momento della scrittura era diverso da ciò che suggerisce quella frase. La ricezione nel mercato anglosassone del libro ha risentito di questo scarto cognitivo: il primo romanzo post-Weinstein in cui la “vittima” non ha voce, mentre si sceglie di dar voce al presunto “stupratore” è sembrata un’orrenda provocazione. “Non penso che abbiamo ancora bisogno di romanzi che ci ricordano quanto l’idea di stupro possa differire da una persona all’altra” scrive ad esempio una blogger, “questo aspetto non solo è disturbante, ma anche disgustoso”. Poi si interroga se ci sia un eventuale problema di lingua: “Non so come suoni in originale, ma le mie sensazioni rispetto alla versione tradotta sono di volgarità, scabrosità, e di un voyerismo sfacciatamente sgradevole. Mi sono sentita sporca (“dirty”) nel leggere The Girl at the Door, una sensazione che spero nessun altro dovrà mai più provare nel leggere un libro”. Potrei narcisisticamente compiacermi di aver provocato un tale turbamento, ma non ci tenevo a far sentire dirty nessuno.
2) Si dice sempre che una volta finiti, i libri non appartengono più a chi li ha scritti ma a chi li legge. Non sono così d’accordo, mi limito a constatare che la ricezione di Miden rispetto a The Girl at the Door è stata non solo diversissima, ma proprio contraddittoria. In Italia è stato è stato preso per un romanzo femminista che si interrogava sul problema del consenso, in UK e in USA per un romanzo ideologicamente ambiguo incline a mostrare empatia verso i colpevoli. Il punto è che la contraddizione faceva parte del libro stesso: ho provato a ipotizzare – con gli strumenti letterari – le conseguenze di una burocratizzazione del linguaggio e del desiderio in una società dove si cerca di azzerare il conflitto. In qualche modo quel conflitto mi è tornato indietro. La polarizzazione tra una correttezza politica prescrittiva e una scorrettezza politica libertaria mi sembra sia diventata oggi dannosa. Si è sdoganata nel dibattito sul consenso la cosiddetta “zona grigia”, ma è più difficile trovare una “zona grigia” tra quelle due retoriche, così come è difficile trovare un linguaggio per interpretare e raccontare la violenza. Questa possibile “zona grigia” differisce anche a seconda del contesto culturale.
3) Ci si domanda sempre se la letteratura possa o debba essere in grado di raccontare ogni punto di vista (con il repertorio classico: “E allora Lolita?”), ma quello che mi interessa è piuttosto con quale lingua si possa o si debba raccontare oggi la violenza. Quanto è pericoloso o legittimo il mimetismo? Il libro di Livia Franchini ha a che fare in parte con questo problema, e vorrei sapere come l’ha affrontato e se anche lei abbia avuto un tipo di ricezione diversa in Italia rispetto al Regno Unito.
Livia Franchini
1) Quello che scrivo, colpevole, o virtuosamente responsabile, la pratica di traduzione che ci sta dietro, non parte quasi mai da un’istanza di rappresentazione, ma, se vogliamo, di drammatizzazione, di scambio. Ci sono sempre, per me, due o più poli – chi parla, chi ascolta – e questi ruoli non sono fissi, non sono sempre io, l’autrice, che parlo e il lettore che ascolta. Il rapporto che ricerco – no, l’unico che sento possibile – è di carattere orizzontale: si compie insieme il raccontare, con uguale responsabilità. Per questo non mi interessa offrire un’istantanea del conflitto, quanto metterlo in scena, problematizzarlo, offrirlo a interpretazione, farlo dialogo. Questo costa uno sforzo creativo che mi aspetto venga ricambiato, come in ogni conversazione che si rispetti: mi piace il concetto inglese di meaning-making, ‘fare significato’, e sono convinta che si tratti di un processo collettivo. Voglio parlare di conflitto, in senso ampio, e non nella fattispecie di violenza di genere, nonostante ci sia un parallelismo su questo tema nel lavoro mio e di Veronica, perché credo che la domanda sia più pervasiva, che non si fermi al soggetto di un libro, ma che abbia a che fare con l’interazione umana tutta e con i rapporti di potere che la strutturano. Per raccontare il conflitto abbiamo a disposizione tecniche letterarie che esulano dal realismo: la rappresentazione è forse il modo più diretto tramite cui avvicinarci alla narrazione dei rapporti di potere che strutturano la (le) società in cui viviamo, ma non dobbiamo dimenticarci che il realismo contemporaneo è già passato per la cruna del postmoderno, non si affida più all’illusione di un narratore onnisciente, ma ha rivendicato la soggettività dell’esperienza e con essa la carica politica del soggetto marginalizzato. La slice of life contemporanea è più simile a una foto di famiglia che a una panoramica dall’alto. In questo contesto, se un’urgenza rappresentativa dei rapporti di potere contemporanei mi sembra assolutamente legittima, in particolare laddove si vadano a portare alla luce narrative storicamente messe a tacere da un establishment letterario che favorisce ciò che già gli assomiglia, per contro, imporre un quadro interpretativo che si ferma al realismo risulta frutto di una lettura che mette avanti unicamente la propria soggettività, la propria individuale percezione del reale. Nel caso di Miden, questa è una lettura insufficiente, dato che si parla di un romanzo di speculative fiction, genere che da sempre rappresenta un’arena privilegiata per ripensare il conflitto tramite la costruzione di mondi con regole differenti dal nostro. Nella fattispecie, la rappresentazione della violenza di genere si fa produttiva, in Miden, proprio nella collocazione del conflitto a cavallo di due società con approcci differenti alla regolamentazione del desiderio, e non a caso lo fa tramite due punti di vista equivalenti, con cui il lettore deve attivamente confrontarsi. Se mette a disagio: bene, mi preoccuperei se non lo facesse dato quello di cui parla e come ha scelto di farlo.
2) A questo punto entrano in gioco vari fattori complessi, e se non posso esprimermi sul contesto statunitense, posso provare invece a avanzare alcune ipotesi su quello britannico, che conosco meglio. Quello che viene promosso, in campo anglofono, è un interrogarsi sulla natura del conflitto di potere che mi pare, generalmente un’operazione urgente e sacrosanta, poiché implica una serie di riflessioni doverose su che cos’è che come scrittrici vogliamo ‘mettere in circolo’ nel mondo. Questo vuol dire, almeno per me, pensare bene agli spazi di cui appropriamo, a come ci viene garantito l’accesso a quegli stessi spazi e a quanto ci aiutano il potere e privilegio che abbiamo in qualche modo accumulato nel farlo. Questo processo per me è stato e continua a essere prezioso, perché promuove un senso di responsabilità politico nella mia pratica creativa, che sarebbe riduttivo assimilare a una politically correctness di superficie. Con le storie si costruisce il mondo: un romanzo sta in un rapporto mutuo con la realtà, la riproduce e contemporaneamente la produce tramite le sue forme, e quindi abbiamo la responsabilità di scegliere oculatamente per non riprodurre passivamente, acriticamente, i rapporti di potere che ci schiacciano e schiacciano chi ha meno potere di noi.
3) E però, come dimostrano i fatti intorno a The Girl at the Door, questa riflessione non può essere ridotta a linee guida virtuose applicabili a tappeto: la pretesa di sviluppare una best practice per la scrittura contemporanea a partire dal contesto anglofono rivela la hubris imperialista del contesto stesso. Una recensione che critica un romanzo in traduzione sulla base di una scelta di marketing che lo descrive come ‘post-Weinstein’ parte dal presupposto che quella scelta di marketing sia una verità assoluta che definisce la natura del romanzo stesso, ne cancella il mondo, il contesto, la naturale alterità, per assimilarlo al dibattito anglofono contemporaneo e ridurlo a un bene di consumo immediatamente fruibile. Questa istanza di marketing è pervasiva, nell’editoria inglese, e purtroppo, in senso più ampio nel dibattito politico britannico: il lettore prosumer si lamenta su Goodreads quando non ha capito il finale di un libro, l’elettore giovane ha la maglietta con il logo della Nike con su scritto Corbyn, in mezzo alla pandemia fioriscono i business di mascherine di lino ecologico su Etsy. È un approccio critico che si ferma, troppo spesso e anche con le migliori intenzioni, a una regolamentazione delle istanze individuali del conflitto perché non mette in discussione (come invece Miden fa) la superficie scivolosa del reale e delle sue possibilità di narrazione. Colpisce, nei movimenti di social justice contemporanei nati in contesto anglofono, la marginalizzazione del problema del linguaggio: l’illusione per chi parla soltanto inglese che la propria lingua corrisponda a realtà, anziché a una struttura della realtà ben situata. Non sto dicendo niente di nuovo: Wilhem Von Humboldt, duecento anni fa tondi tondi, teorizzava che la diversità delle lingue non fosse riducibile a una differenza di suoni e segni, ma segnasse una diversità di visioni del mondo. Esistere e scrivere in traduzione vuol dire farsi veicolo di questa diversità, e, per contro, ci tiene bene in mente l’importanza del contesto: siamo, per nostra natura, lettori più attivi e scrittori più umili, nella nostra consapevole limitatezza, nella nostra conscia soggettività. Forse migliori? Chissà. Un altro modo non lo conosco; non lo vorrei.