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el ventunesimo secolo, sulle ceneri dello scontro fra il Nuovi Argomenti moraviano e il Gruppo 63, si è combattuta, a colpi di indifferenza reciproca, una silenziosa guerra fredda per l’anima della letteratura italiana. Lo spesso sipario che divide i due schieramenti è ricalcato per molti versi sulla cortina di ferro e sulla divisione Moravia/Sanguineti: da una parte ci sono le Ferrante, i Veronesi, gli Starnone; dall’altra i Pecoraro e le Laure Pugno.
È una metafora grossolana ma la scrivo soprattutto per costruire un complimento ad Andrea Gentile e un’analisi del suo ultimo libro, Apparizioni (Nottetempo, 2020). L’immagine della guerra fredda mi serve per dire che da quello che vedo e leggo, c’è una letteratura che si muove definendo e ridefinendo i termini della vita borghese e sperimentando al suo interno con lingua e codici; e c’è una letteratura che si muove in delle zone autonome di disinteresse per la narrazione borghese (ossia quella su declino/ascesa, perdita dell’innocenza, maturazione del giovane protagonista o riscoperta di una libertà interiore di un protagonista di mezza età) per scegliere invece di abitare il capannone letterario abbandonato alla Petrolio oppure le vie traverse fra il magico e lo psichedelico in chiave politica.
Gentile appartiene alla seconda scena: oltre ad aver scritto I vivi e i morti per minimum fax, romanzo decisamente non di interni e di psicologie ma del tipo magico, è direttore editoriale del Saggiatore, una delle case editrici protagoniste del mondo editoriale alternativo contemporaneo. Pur appartenendo a questo mondo, Gentile se ne discosta per un aspetto fondamentale. Di norma, questa fazione, quanto più sfrutta i registri di magico, weird, eerie tanto più si rivela materialista; lui invece sta cercando di fare una letteratura spirituale, concentrata sulla morte. Quel che sta facendo quindi non sta bene neanche nella scena di cui fa parte. Per certi versi, questo scrittore sembra uno che ha ascoltato un alter ego di Woody Allen parlare di Kierkegaard e si è fermato a dialogarci ma senza l’ironia perbenista di Allen, e senza, quindi, la comedy of manners: “La vita si manifesta su un oceano di morte… La letteratura vive negli spazi indefiniti, nei luoghi dove non giunge la parola, negli spazi ignoti generati dal poetico. La parola ci porta oltre la parola, nell’indicibile, ed è così che l’ora sfugge di mano, secondo dopo secondo, mattina, mezzodì, di sera, a notte”.
C’è una letteratura disinteressata alla narrazione borghese, che abita il capannone letterario abbandonato alla Petrolio oppure le vie traverse fra il magico e lo psichedelico in chiave politica.
Gentile scrive in modo da dare una sponda al suo percorso spirituale, e oggi pubblica un libro che non fa attualità, non entra in una tendenza, non è davvero consumabile, rimane lì come un oggetto indigesto e discontinuo, né memoir né narrazione né saggio, ma non tanto per le caratteristiche formali quando per lo scopo: Andrea Gentile è un Florenskij, cerca la trascendenza nel metallo delle icone, nel tasto pausa di Youtube; se sceglie di posizionarsi in quel secondo mondo che dicevo, e non nel mondo borghese, è perché in questo momento sembra più possibile avere una vita letteraria spirituale stando in compagnia dei materialisti che in quella di chi racconta sempre del marito in crisi galvanizzato da un successo professionale e dalla tresca con una manic pixie dream girl, come in tanti romanzi della corrente moraviana. Gentile si è posizionato nello scenario tarkovskiano della parte sanguinetiana della letteratura italiana di oggi per compiere certi viaggi nella parola allo scopo di indagare il rapporto tra la vita e la morte: le apparizioni che racconta nel suo libro gli servono a capire a che distanza siamo dal senso perduto e dall’infinito.
Il suo viaggio comincia quando rimane scioccato dal video snuff di due ragazze che fanno un incidente mortale mentre si riprendono in macchina col cellulare: “Le due amiche bevono alcol, urlano, scherzano. Una grida ‘hi boys’ alla camera. Dasha fa il segno della vittoria, indice e medio, con entrambe le mani”. Autorappresentazione come la facciamo tutti, ma poi: “Un altro sorso. Urlano. Rumore di ‘tremendo impatto’. Buio. Silenzio”. Gentile trova il video sul sito di un quotidiano italiano: “Ucraina, morte in diretta su Instagram: due ragazze si schiantano in auto”.
Ma non usa l’aneddoto per meditare su dove stiamo andando come società: anche se comincia con del delillismo di terza generazione – “La guardo mille volte. Prima esploro, tra un pause e un play, l’istante in cui tutto cambia. Il passaggio tra la vita e la morte. Quale l’ultimo respiro? … Poi mi soffermo sulle ragazze…” – il finale di questa prima scenetta apre in una direzione inaspettata, deliberatamente insensata: “Cerco di studiare ogni singolo dettaglio del viso di Dasha, ma è buio, fuori è notte, e lei si muove continuamente. … Ne sono certo. … Nessun dubbio: conosco quella ragazza”.
È un inizio stranissimo. Cosa vuol dire? Perché ha la sensazione di conoscerla? Che tipo di libro vuole fare? Quindi non è un saggio “sul contemporaneo”? Comincia l’indagine, il tentativo montaignesco di riflettere su questioni importanti: come funziona la nostra mente rispetto al senso della morte, cioè come si dispongono i sensi e le capacità cognitive quando l’io, questa formazione spettrale e sfarfallante che funziona a malapena, cerca di allungare un braccio per afferrare il senso della propria insensatezza e insieme il senso del viaggio della vita. La passeggiata in città di benjaminiana memoria, con cui Gentile va a caccia di apparizioni per capire se stesso, diventa la porta dimensionale per questo viaggio, purché si ragioni sulle circostanze: “le apparizioni però sono, inconsciamente, boicottate dall’essere umano, che talvolta cerca di monitorare il proprio cammino, in quanto per natura inadeguato alla flânerie. Inadeguato ad andare incontro all’ignoto, ignaro che prima o poi sarà l’ignoto ad andare incontro a lui: c’è bisogno di contemplazione, c’è bisogno di quiete. ‘Ma acquietarsi’, scrive Jerzy Grotowski in un intervento pubblicato su Dialog, ‘non vuol dire stare immobili’. … Molto spesso, per ritrovare la quiete bisogna correre. … Si tratta allora di porsi la domanda: ‘Come essere se stessi?’”
Gentile scrive in modo da dare una sponda al suo percorso spirituale. Apparizioni non fa attualità, non entra in una tendenza, non è davvero consumabile, rimane lì come un oggetto indigesto e discontinuo.
La fiducia di Gentile nella letteratura è entusiasmante. Mentre da un lato ammicca alla modalità dei libri alla Oliver Sacks quando cerca di capire cosa sia la coscienza – spiegando questo o quel risvolto delle nostre attività cognitive –, dall’altro propone ben altro che la divulgazione da coffee table che si cerca oggi quando si consuma quel tipo di saggio: nel suo libro splende la fiducia che mettersi a pensare per iscritto alla propria ricerca esistenziale possa generare qualcosa che sia letteratura anche se non assomiglia a un prodotto editoriale né del tipo pedagogico divulgativo né del tipo moralista. (È grande quindi anche la fiducia dell’editore Nottetempo, che già aveva fatto un lavoro affine con In territorio selvaggio di Laura Pugno, riaffermando la letteratura come vuoto, vuoto commerciale e morale, puro baluginio estetico esistenziale.)
Gentile gira per il mondo, ma soprattutto per Milano, in una ricerca di se stesso quasi dovesse un giorno aprire la porta del bagno di un bar e trovarci un altro Andrea Gentile che si lava le mani. “È possibile affrontare la città con contemplazione. Camminare in centro, a due passi dal caos delle vie commerciali, e vivere, sentire, diverse apparizioni. Poche su tutte: osservare gli esterni di una villa e scovarvi, in pieno centro, la lucentezza di decine di fenicotteri rosa. Trovare un palazzo, progettato da Giulio Ulisse Arata, che fonde romanico, liberty e gotico…” Più questa ricerca si approfondisce più sembra demenziale, ma Gentile, che non è uno di quei discendenti degli illuministi che pensano che le cose possano avere solo un senso pragmatico, riesce a mantenere una serietà che lo fa sembrare un Buster Keaton del ragionamento. Il libro è un pullulare di scene che stanno tra il primo Michel Gondry e i secondi Beatles:
Al pomeriggio, in centro – dopo un pranzo da Jollybee… imprescindibili, per una distorsione di percezione, gli spaghetti di ketchup alla banana, oltre a fegato e würstel rossi, dolcissimi, studiati per le papille gustative dei popoli del Sud-Est asiatico, che amano lo zucchero nei pasti salati –, si passa presso la chiesa di San Bernardino alle Ossa. … La chiesa barocca custodisce un ossario. … Ogni parete, nicchia, singola sporgenza di questo piccolo ambiente è ricoperta di ossa umane, che arrivano dall’ex ospedale accanto, con annesso un cimitero. Quando, nel 1622, il cimitero si dimostrò insufficiente ad accogliere i cadaveri, i teschi, le tibie, i femori, gli stinchi, le mandibole divennero materia prima architettonica…
Mentre leggo di femori e stinchi sto ancora mormorando fra me: “ketchup alla banana…”
È che vuole coinvolgerci nella sua contemplazione: “Altra condizione affinché la percezione viva è la disponibilità alla contemplazione. “Contemplare”, “contemplari”: attrarre nel proprio orizzonte; osservare (il volo degli uccelli) entro uno spazio circoscritto detto templum. … Non c’è vita umana senza apparizioni. Per essere però consapevoli di più apparizioni possibili non si può che rovesciare tutto: per contemplare non basta stare fermi, immobili. È necessario costruire uno spazio interiore e rimodellarlo giorno dopo giorno. Andare incontro allo shock dell’ignoto…”
Questo libro risponde a una questione che ho avuto in mente negli ultimi mesi. Penso al senso di grande pragmatismo e signorilità che hanno i lettori quando si fanno recensori e dicono: “Mi è piaciuto, sì, peccato per…” e citano le parti di un libro che non “funzionano” – certi finali, certi intervalli, certe situazioni troppo lunghe – come se stessero lamentandosi della difficoltà di orientarsi dentro una Asl, o del manuale di una stampante. Apparizioni è fatto per non “funzionare” nel suo insieme, come libro, come prodotto, perché è strutturato come una città dove poter ricevere le proprie rivelazioni. È un libro pieno di vuoti, che lascerà ciascuno intontito o indifferente a modo suo, consegnandogli però il suo cortocircuito personale.
Per un ipocondriaco come me, rimane impressa la mini storia di quando Gentile ha l’impulso un po’ velleitario di iscriversi a un corso di violino e si ritrova terrorizzato di avere la tubercolosi perché un compagno di corso melodrammatico lo avvisa di averla e di essere contagioso. Gentile inizia dunque a vivere nell’apparizione della malattia, e intervalla questo momento di pathos proiettivo alla degustazione di certi cocktail milanesi il cui mixologist propone un ragionamento su come il senso del gusto sia talmente rozzo, rispetto all’olfatto, che due essenze diverse abbinate allo stesso cocktail sono capaci di produrre due esperienze completamente diverse. È uno dei tanti intrugli di esperienza e trivia di un libro felice e spudorato. La premessa di questo accumulo è il bisogno di rendere attiva l’esperienza: “Non sempre le esperienze coincidono con le apparizioni. Ogni esperienza genera un mutamento? Sì. Ogni esperienza genera un mutamento consapevole? No. Siamo fermi sul divano e ci sembra di non fare assolutamente nulla. Sta succedendo qualcosa? Sí”. Da lì all’apparizione qual è il passo? “Le molecole nel nostro corpo non sono immobili. A farci caso, un lontano prurito tocca il mignolo del piede. Se non ne siamo consapevoli, tuttavia – e se cioè non siamo attenti a quanto sta accadendo – la possibilità che quest’esperienza di mutamento non sia consapevole è piuttosto alta”.
Ci invita a esercitarci a trasformare le esperienze non solo in mutamento ma in mutamento consapevole. Se negli ultimi tempi si è molto parlato di come un’astratta proposta di meditazione mindfulness scevra di ogni critica al sistema non faccia che renderci schiavi più funzionali, qui possiamo fare invece l’esperienza di una penna spirituale che propone forme di consapevolezza non da pausa caffè ma da vita radicale attraverso l’arte.
È una fortuna che questo libro non finga di parlare di qualcosa di utile. Che mantenga quel sorriso da Buddha di chi non ha bisogno di dimostrare la maturità e l’intelligenza della propria proposta confezionandola per un pubblico che la vuole predigerita (il predigerito è uno dei problemi principali dell’ultima stagione di saggistica e memorialistica, i libri dove tutto scorre perfettamente). Gentile muove la penna come uno muove il corpo nei primi anni di Yoga: perdendo le inibizioni proprio per la consapevolezza di non poter condurre il gioco, di dover lasciarsi portare verso qualcosa dalle circostanze e non dalla volontà, come se la volontà dovesse diventare ancella della consapevolezza invece che dell’azione. Perché in fondo la ricerca di apparizioni come si può raccontare? Goffamente, illustrando goffamente un periodo della vita fatto di ricerche. Queste ricerche assomigliano alle azioni sconclusionate di un investigatore pasticcione. Nel libro, dicevo, Gentile si iscrive a un corso di violino: magari lo fa per diventare un pessimo violinista come Sherlock Holmes.
Non sempre l’apparizione si presenta come tale. Talvolta è più sottile, emette qualche vibrazione e stop: qualcosa, dentro di te, ti dice che forse, per qualche ragione, questo momento ritornerà, ciò che hai visto riapparirà nella tua mente: è come un grande testo letterario, questa vita. Accade e basta. È contemplazione più che narrazione.
A forza di provocare il cosmo in cerca di quei frammenti luccicanti capaci di mostrargli la via, Gentile si ritrova, con il libro quasi finito, in mezzo alla pandemia, e la accoglie subito chiamandola “grande irradiatore di apparizioni”. La pandemia è capace di moltiplicare le apparizioni: “I pensieri della mente che dicono colpirà mia madre, arriverà l’apocalisse, perderò il lavoro, non andrò mai più al cinema e via dicendo”. Ma “a differenza del digitale” (da cui era partito il libro: il video snuff delle due ragazze), “una pandemia ci proietta, nella sua natura più intrinseca, in una molteplicità possibile di apparizioni senza sovraccarico”. Senza cioè il sovraccarico dello scroll, della slotmachine emozionale-neurale-economica dello scroll.
Mi piace pensare che qualcuno, davanti a un pezzo che gli consigli questo libro, si dica: questo libro è fuffa, sono solo chiacchiere, non mi pare che parli di niente. Lo scrivo perché negli ultimi anni, insieme alla moda del memoir e all’espansione dell’autobiografico, si è diffusa in certe nicchie di lettori forti l’idea che la letteratura debba essere qualcosa di molto tangibile, spendibile, libri modulari che non sembrano innestarsi in nessun grande pensiero dell’umanità e si possono quindi combinare insieme in delle reti di facile consumo: se ti piace leggi anche… Oggi, specie nella controcultura, un libro in vendita parla di questo o quello, dev’essere chiaro, non ci deve far perdere tempo, non ci deve far viaggiare. È un libro new weird? Be’, che lo sia in un modo perfettamente predigerito. Chiaramente, il tipo di lettore soddisfatto di questo stato di cose si sta precludendo la possibilità di incappare in qualsivoglia apparizione letteraria, e si aspetta dal libro la stessa affidabilità che un tempo i signori nei caffè si aspettavano dai quotidiani. “Dovremmo dunque parlare ora dell’apparizione in letteratura”, scrive a un certo punto Gentile, proponendo di trattare la letteratura come esperienza artistica. (Non, aggiungo io, come la versione psichedelica di una lenzuolata di Scalfari d’annata. Ma come esperienza artistica in costante flirt con il vuoto.) Perché i testi “sono singhiozzi, mormorii, sono fatti di voci e ombre, di attimi e di respiri. Ogni respiro è identico all’altro e infinitamente diverso al tempo stesso. Anche i testi, come i respiri, si sfilacciano, cedono, dicono addio, vanno in un’altra direzione”.
Per dirlo ancora meglio, Gentile si affida all’asfittica Favoletta di Kafka sul topo che dice “il mondo diventa ogni giorno più stretto. Prima era così largo che mi faceva paura, correvo ed ero felice di vedere finalmente muri a destra e a sinistra in lontananza, ma questi lunghi muri si avvicinano tra loro così in fretta che sono già nell’ultima stanza e lì nell’angolo c’è la trappola nella quale cadrò”. Allora il gatto, che lo segue, gli propone di invertire la rotta, cambiare direzione, il topo ascolta e gli finisce in bocca. “La scrittura”, dice Gentile, “è quell’altra direzione”. La scrittura è finire in bocca al topo pur di non finire schiacciati dalla trappola.
Cosa significa, per noi, oggi, questa favoletta?
Assolutamente niente, il niente più completo.