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laudia Durastanti sta traducendo per Garzanti una sua versione del Grande Gatsby: tra le strade sperimentate, vorrebbe provare a usare il passato prossimo al posto del passato remoto, perché le pare che dopo questo decennio di libri più autobiografici e in prima persona la mente si sia abituata a processare il tempo in una maniera che ci allontana dal “feci”, “dissi”, “andai”. Nel caso di Gatsby, poi, abbiamo un narratore, Nick, che deve raccontare una persona che ha conosciuto. Tecnicamente sembra di stare nei territori della non fiction narrativa. Claudia si ritrova sui social a discuterne con Martina Testa e Tommaso Pincio – c’è anche un cameo di Ilide Carmignani: tutti e quattro sono traduttori bravissimi, sappiamo anche che scrittori sono Durastanti e Pincio, la loro conversazione è un tesoro da isolare dal feed e mettere da parte: mimare una lingua con un’altra richiede una quantità di operazioni, di funzionare su diverse frequenze; un libro non è tradotto bene o tradotto male da solo, deve respirare la lingua, soprattutto quella italiana, facendo continuamente il punto su dove ci troviamo, cosa possiamo dire, cosa ci suscita una parola, un grumo di consonanti, un tempo verbale. Abbiamo chiesto di poter pubblicare lo scambio perché le questioni che combinano solo conoscenza della lingua e del costume, sensibilità, senso delle proporzioni, inclinazioni poetiche finiscono spesso schiacciate da quelle ideologiche, da una parte, e da argomenti più estrinseci e accessibili (trama, personaggi, argomento del romanzo), dall’altra. Guardare a lungo le possibilità di una lingua – per giunta alla luce di un’altra – intontisce e seduce. Noi siamo come lo stalker nella Zona e ci pare di vedere lo spirito ovunque.
Francesco Pacifico
Claudia Durastanti: Oggi Nick Carraway non racconterebbe mai di Jay Gatsby al passato remoto. Si può far vivere un classico cambiando la coniugazione verbale della malinconia? Se il modo in cui ci rapportiamo al tempo è diventato meno elegante, mi chiedo se l’eleganza riottosa di Francis Scott Fitzgerald non vada cercata altrove.
Martina Testa: A me sembra giusto usare il passato remoto. È l’unico tempo con cui l’italiano scritto/letterario indica un’azione conclusa nel passato, non mi pare ci siano alternative, perché ti dà tanto fastidio? Un romanzo tutto al passato prossimo suonerebbe totalmente innaturale, il passato prossimo ha senso usarlo per indicare anteriorità al tempo presente (per dire, se ci sono parti al presente e flashback) ma se una narrazione è tutta al passato per me va usato il passato remoto.
Il problema si pone se il romanzo è tutto in seconda persona, perché in effetti la seconda singolare del passato remoto con tutte le desinenze in –sti suona particolarmente arcaica. Ma i romanzi in prima o in terza a me suona del tutto naturale leggerli e tradurli al passato remoto. I libri di Selby Jr. che nelle traduzioni precedenti erano in gran parte stati spostati al presente io sia ritraducendo sia rivedendo li ho riportati al passato, e a me non sembra di aver tolto credibilità alla voce (magari ad altri sembra, ma nessuno me l’ha fatto notare).
CD: Lo so che è giusto ma mi suona posticcio! L’avrò letto dieci volte in vita mia, ma per me si sono proprio sfasati i tempi verbali con cui ricordiamo le cose e la distanza/vicinanza nel tempo, e mai questo passato remoto mi è suonato così faticoso. Poi tutto in Gatsby è chiarore e buio rispetto al ricordo e l’esperienza, io non riuscirei mai a dire che c’è qualcosa di concluso in quello che è successo nel passato, basta vedere il finale, la vaghezza di ogni azione, non mi pare finito niente! Non è per immaginare la traduzione “giovane” o svecchiare la patina, io credo sia profondamente cambiato lo spirito narrativo, la prima persona che si guarda indietro nel tempo. Insomma mi chiedo se abbiamo ancora una struttura cognitiva, e di conseguenza letteraria, per accomodarlo questo passato remoto senza che risulti insopportabile, soprattutto nel caso di un testo così. Però è appunto per sforzo di immaginazione, dato che esistono traduzioni stabili e intoccabili per tanti aspetti.
MT: Magari conta anche il fatto che ho origini siciliane: nella mia famiglia paterna il passato remoto si usa nel parlato, e io stessa parlando con un amico non è improbabile che dica: “Ti ricordi quella volta che andammo a presentare quel libro in quel posto assurdo e ci si fermò la macchina…”. Magari per questo il passato remoto non mi sembra mai così insopportabile.
È vero però forse, mi è venuto da pensare leggendo il tuo commento e partendo per una tangente tutta mia, che oggi meno narratori rispetto a tot anni fa (quanti? non saprei dirlo: anche solo venti, forse?) scrivono storie totalmente inventate, volutamente staccate dal piano della realtà; come dire, meno narratori narrano un “c’era una volta”; meno narratori provano rispetto alla storia che raccontano quel tipo di distacco che avevano che ne so i postmoderni, ma anche i K-mart realists, ma anche Salgari per dire; e allora rispetto a questa attitudine contemporanea in cui la pagina in qualche modo punta a suonare “vera” prima (o invece) che “letteraria”, il passato remoto che è il tempo verbale tipico della convenzione/tradizione letteraria può sembrare inadeguato. Chissà.
CD: Invece con questa tangente mi hai fatto capire da dove nasce il mio disorientamento e fastidio: rileggendolo nel 2019, da lettrice cambiata, ho la sensazione di non essermi rapportata a Jay Gatsby come personaggio di finzione, cioè Nick Carraway per quanto inaffidabile e tutto quanto sta raccontando una storia “vera”. E quindi la mia modalità di interpretazione è proprio segnata dalla literary non fiction, da tutto quello che mi intasa il cervello da anni. Ovviamente non è il caso, ma la mia disposizione d’animo automatica è quella.
MT: Ah, vedi! Mi chiedo anche se è un caso che questa intolleranza al passato remoto mi sembri di sentirla esprimere più dagli scrittori che dai lettori; forse chi scrive ha più la sensazione o l’urgenza di raccontare una storia “vera”, mentre da lettori siamo più abituati ai mille filtri della letterarietà. (Che ne so, magari è più una cosa da scrittori voler levare le virgolette nei discorsi diretti perché impacciano il ritmo e la spontaneità, mentre al lettore quelle virgolette non sembrano chissà quanto artificiose, sono una convenzione che diventa quasi trasparente.)
Ilide Carmignani: Martina Testa, non sei siciliana tu – che peraltro sei molto romana – succede anche a me che sono toscanissima, anche mia madre dice: la settimana passata andai, e io mi trovo a discutere regolarmente sull’uso passato prossimo/passato remoto con le redazioni milanesi, che ci sentono solo una differenza di registro, con il passato remoto come molto letterario/desueto. Lo dicono studi linguistici che il passato prossimo sta avanzando per l’influenza dell’uso settentrionale, che come sostrato/dialetto conosce solo il passato prossimo, e i grandi gruppi editoriali e le televisioni di Berlusconi sono a Milano. Claudia Durastanti, il problema della traduzione è che bisognerebbe tradurre per tutti i lettori italiani, visto che siamo mascherati da discorso diretto, ma non si può.
MT: Anche un’altra cosa mi viene da dire, Claudia, a proposito di quando scrivi “io non riuscirei mai a dire che c’è qualcosa di concluso in quello che è successo nel passato”: anche questo mi sembra un atteggiamento tipico del contemporaneo, ci ho pensato molto traducendo Ben Lerner che nel suo ultimo romanzo, The Topeka School (esce a marzo per Sellerio) non fa altro che cercare di riannodare fili e mettere pezzi a posto per spiegarsi chi è ora sulla base di chi è stato da ragazzino, chi sono stati i suoi genitori ecc., come se ogni esperienza che facciamo fosse parte integrante di quello che diventiamo e fosse importante non dimenticare, archiviare, ritirare fuori, ragionare di nuovo. A me sembra che anche i ricordi che Facebook ci sottopone ogni mattina ci spingano in questa direzione, a non dare mai il passato per remoto, della serie: ogni piatto di carbonara magnato è comunque parte di noi, non ce lo scordiamo. Che ovviamente è verissimo e innegabile, io sono frutto di ogni giorno del mio passato, ma la differenza è che per me questo processo è – e probabilmente voglio che sia – un accumularsi in gran parte inconsapevole: io non ho tanti ricordi del mio passato e ho pochissima nostalgia di qualunque cosa. Le cose che ci capitano mi sembrano spesso casuali, tanta roba random che finisce per costruirci, ma non sento mai che andare a rivisitare dieci cento mille singole esperienze sia fondamentale per fare i conti con me stessa.
Ecco, sono arrivata al punto: negli ultimi dieci anni mi pare che nello zeitgeist sia diventata sempre più forte l’esigenza di definirsi, di presentarsi, di dire cosa si è e non si è, e l’attaccamento alla propria storia vissuta come passato prossimo e mai remoto mi sembra almeno in parte collegato a questo, alla necessità di capire/sapere bene chi siamo e comunicarlo agli altri. Per come sono fatta io, invece, anche quello che è successo un mese fa lo potrei raccontare col passato remoto perché è un “c’era una volta” buttato alla rinfusa con un sacco di altre esperienze nel baule della mia vita, che è molto molto robusto, ha quattro cinque scomparti molto rigidi (che ne so, la sinistra, la Roma, amore/sesso, il lavoro, ecc.), e poi quello che ci butto ci butto, un ordine di massima ce l’ha. Il mio amico Nicolò Porcelluzzi mi ha parlato di questa differenza fra persone “episodiche” e “diacroniche” e io mi sento senz’altro più dalla parte degli episodici. Il passato remoto magari è un tempo più congeniale alle persone episodiche. Mentre la fase attuale del capitalismo secondo me ci spinge (a prescindere dall’indole di ciascuno) a essere diacronici, perché i diacronici tendono a costruirsi un’identità più consapevole, e meno l’identità di un individuo è vaga, randomica, in flusso perenne, ecc., più ha i contorni definiti, più è facile profilare e targettizzare l’individuo in questione e vendergli roba.
Il passato remoto, col distacco e la distanza che implica, mi sembra un tempo verbale meno “identitario”, per così dire, un tempo dove l’io di chi narra conta meno, in un certo modo si nasconde, scompare; in questo senso l’artificiosità della voce letteraria e tradizionale del “dissi/disse” per me è paradossalmente un po’ liberatoria e più aperta alle possibilità della fiction (quelle di cui parlava Zadie Smith in un pezzo ripubblicato di recente su Internazionale).
Chiudo con la pubblicità: A me puoi dirlo di Catherine Lacey, questo romanzo che è appena uscito per SUR, per me è interessantissimo proprio perché l’identità della persona che narra è totalmente indefinita (non sappiamo mai se è maschio o femmina) e per l’appunto gli antefatti della sua vita sono ignoti: i ricordi, nel corso del romanzo, sono pochissimi. Però questo a me non lo fa sembrare per niente un romanzo freddo o astratto, anzi è un romanzo che mi interroga e mi mette in crisi a livello profondo. Ed è scritto, o meglio, tradotto, al passato remoto.
CD: E qui si spalanca un mondo. È sicuramente una modalità del contemporaneo questa non finitezza del passato [e secondo me ha creato grossi deragliamenti nel gestire il concetto di chiusura nella propria vita sentimentale come altrove, con conseguenze che vanno ben al di là della letteratura], ma lì mi riferivo proprio a una qualità specifica del Grande Gatsby. È comunque indicativo che a essere considerato archetipo dell’inconscio americano sia un romanzo incentrato su un personaggio che è diacronico, probabilmente non sarebbe “eterno” se così non fosse, non riuscirebbe a cogliere quella dimensione [e qui avrei voglia di fare un confronto con i romanzi i cui personaggi principali sono decisamente episodici, per richiamare quel pezzo che ti ha segnalato Porcelluzzi… A occhio mi pare che nella tradizione europea ci sia più questo senso fantasmagorico, dei ricordi infestanti e della scansione temporale poco netta. Da Proust a Fisher diciamo, volendo andare di cliché i grandi romanzieri russi già mi paiono più ordinati]. Concordo sul fatto che sia un sentimento dilagante, ma non mi è ancora ben chiaro quanto indotto, dalla moda, dalla scarsa fantasia, dalla tara entropica o da Zuckerberg stesso. Se penso alla serialità televisiva, che comunque ha sconquassato la linea temporale dei romanzi (vedi Jennifer Egan), uno degli episodi più gatsbiani di sempre è quando Don Draper in Mad Men usa foto di famiglia per promuovere il carosello delle diapositive della Kodak, la nostalgia come valore di mercato. Però lì per me siamo ancora all’interno di una storia, non in preda a una sindrome collettiva, che invece viene fuori bene in Blade Runner 2049 quando appaiono gli ologrammi di Elvis: lì ho sentito tutta la stanchezza del presente conformista rispetto alla nostalgia. Tradurre Il Grande Gatsby non al passato remoto secondo me rientra più nella prima categoria, in una possibilità che sono la trama e il personaggio principale a incoraggiare, e non del tutto in una fame di prima persona del presente. O quantomeno sta in bilico, mi piace pensare che non sia solo la mia sensibilità legata a letture contemporanee (Ben Lerner, Mark Fisher, etc.) ad avermi radicalmente trasformata come lettrice, ma che ci sia qualcosa nel romanzo, una proprietà magica per cui oggi riesce ad apparirmi nuovo, fresco, e non con la patina d’ottone con cui viene spesso letto anche in lingua originale. Poi che questa fame di prima persona si sia indebolita molto lo penso sinceramente, altrimenti Cusk e Tokarczuk non avrebbero intercettato un sentimento inquieto che serpeggia, questa decentralizzazione da sé. Io penso che verranno anni belli per il romanzo non legato a un’identità troppo definibile (ho remore a dire “non identitario” che mi pare una fallacia in sé), o quantomeno là spingono i testi e le voci più interessanti già adesso.
MT: Mi sembra super interessante che a te Gatsby appaia così mentre quando Tommaso Pincio lo tradusse per minimum volutamente impiegò una patina di linguaggio un po’ desueto perché, se ben ricordo, diceva che il romanzo aveva conosciuto fortuna massiccia in America solo molti anni dopo l’uscita (all’epoca della seconda guerra mondiale) e quindi fin dal primo momento del suo grande successo era stato letto un po’ come un libro non “contemporaneo”. (Spero di non aver detto una cazzata).
Secondo me il fatto che tu la veda così e lui colà è una bella dimostrazione che sia un classico, questo Gatsby!
CD: Sì, lo ha scritto, l’ho riletto proprio l’altro giorno. Scoperta tardiva; tendenzialmente i lettori americani si dividono tra libro sciropposo e d’ottone e chi lo percepisce più elettrico (a me per sintassi e stramberie varie appare sempre moderno).
Tommaso Pincio: Testa, tu non dici mai cazzate. È anche vero tuttavia che mi presi certe libertà perché quel progetto editoriale affidava Fitzgerald a scrittori e queste libertà, quella patina fané, riguardavano più modi di dire e scelte lessicali, vedi “vecchia lenza” per “old sport”, che non i tempi verbali. Per come intendo il romanzo, la questione del passato prossimo – e spero Claudia non me ne voglia – non si sarebbe posta neppure per ipotesi, se l’atteggiamento fosse stato quello che tengo quando traduco da semplice traduttore. Diciamo questo, però, il GG conta ormai così tante traduzioni e per giunta tutte così recenti, a parte ovviamente quella di Nanda Pivano, che non ha tanto senso appiattirsi sul testo e rinunciare a un esperimento come quello pensato da Claudia. Lo chiamo esperimento perché il passato prossimo è a mio avviso azzardato per molte ragioni, alcune inerenti il senso profondo del libro, ragioni che riguardano sia la narrazione diegetica sia il tema centrale del romanzo, che è appunto l’impossibilità di replicare il passato. Ma ho perplessità più generali anche sul modo in cui nelle traduzioni va imponendosi il ricorso al passato prossimo. Su questo ultimo aspetto mi trovo molto d’accordo con quanto detto da te e Ilide Carmignani. Aggiungo soltanto un paio di considerazioni. Questa storia per cui il passato remoto sarebbe roba da meridionali ecc. è vera per il parlato, per l’italiano corrente, ma diventa molto fuorviante e credo anche impropria quando viene riferita alla lingua dei romanzi. Il passato remoto dei romanzi non è lo stesso passato remoto dei vari idioletti. È un tempo di servizio, un tempo narrativo che segue regole proprie, non sovrapponibile a quelle di certe consuetudini regionali.
Noi traduttori non dovremmo inoltre dimenticare che l’italiano è stato per secoli una lingua quasi esclusivamente testuale e di fatto mai parlata dalla gente comune fin quasi all’avvento della televisione. Ogni volta che – soprattutto maneggiando i classici – ci discostiamo da questa distanza che la pagina scritta aveva in passato con la lingua corrente, dobbiamo procedere con i piedi di piombo. Non dico che non ci si possa discostare, ma bisogna essere cauti. Il passato prossimo va maneggiato con estrema cura e abilità, evitando l’effetto Holden, facendo in modo che resti testo. Se ci si riesce, ben venga. Una quindicina d’anni fa, quando il passato prossimo non era la moda che è adesso, lo usai anche da scrittore ne La ragazza che non era lei, in modo straniante però, in terza persona, per determinare maggior distacco tra la dimensione allucinata in cui era ambientata la storia e quella del lettore. Rimasi così contento del risultato che per un po’ pensai di farne una mia cifra, visto che spesso le mie storie tendono allo stralunato. Quando mi misi al lavoro sul nuovo romanzo, Cinacittà, scoprii però che non funzionava più; impoveriva l’atmosfera proprio perché quel romanzo, diversamente dalla Ragazza che non era lei, era narrato in prima persona e il passato prossimo dava troppo la sensazione che il narratore si rivolgesse direttamente al lettore, che gli parlasse anziché raccontare, mentre era necessaria una certa distanza; bisognava cioè che l’io narrante restasse personaggio e non diventasse persona.
Questa distanza è necessaria per due motivi. Il primo è che se a parlarti è una persona, la persona deve parlarti davvero, usare cioè registri che appartengono al parlato e che sono per forza di cose ristretti. Non può cioè parlare, come spesso fanno i narratori in prima persona, in romanzese. O meglio: lo può anche fare, ma con il rischio di steccare. Il narratore personaggio può invece permettersi in alcuni momenti registri che non appartengono alla sua voce e variare la pagina, avere più mobilità narrativa. Il secondo motivo è che il narratore persona è costretto a restare sempre sé stesso; non può staccarsi da sé e manovrarsi come fa uno scrittore con un personaggio. Entrambi questi due motivi hanno a che fare con ciò che diceva Martina, definendo il passato prossimo come più identitario. Poi capisco ovviamente tutte le ragioni del contemporaneo, i social, l’Oggi Nick non racconterebbe così. Tutto ciò va benissimo, ma oggi appunto, in uno spazio in cui memoria, racconto e vita presente si manifestano simultaneamente in uno stesso continuum. In questo spazio va benissimo usare un tempo più parlato come il passato prossimo. Bisogna però che l’impianto narrativo preveda quel continuum. Se prevede uno scarto dimensionale tipico del romanzo, il rischio di ricorrere al passato prossimo è quello di appiattire il testo, di abbassarlo troppo, a meno di non addomesticarlo in maniera anche pesante, cosa che io come traduttore preferisco evitare.
Faccio l’esempio di una scrittrice contemporanea che a me piace molto e su cui ho lavorato, Gwendoline Riley. I suoi romanzi, sempre scritti in prima persona e sempre così ispirati alla sua vita personale da poter essere intesi come un diario a puntate, sembrerebbero un paziente ideale per il passato prossimo e difatti questa è stata la scelta di chi mi ha preceduto. Ho provato a usarlo anch’io ma mi sono reso conto che funzionava soltanto nelle pagine più prosaiche e viscerali. Appena lei si staccava dal quotidiano immediato – e dico quotidiano, non presente – e si soffermava a osservare il mondo da fuori, descrivendo una strada, le particolari sensazioni di un momento, una determinata luce, la pagina subiva un crollo vertiginoso e stonato. Lei era ancora lì con me, mi parlava come se avesse messo su il bollitore per il tè, quando in realtà stava altrove, nella sua testa, in uno spazio etereo e totalmente letterario; era testo e non persona pur seguitando a parlare in prima persona. Soltanto il passato remoto, in quei momenti, le restituiva l’incorporeità di cui aveva bisogno e in effetti, nell’originale, parlava in quella forma compiuta e non spuria di passato che è il past simple. Il problema non è dunque tanto e soltanto che l’azione raccontata sia chiusa e lontana nel tempo, quanto proprio di consistenza fisica del narratore. Nel romanzo di Riley gli eventi raccontati erano quasi tutti molto prossimi e quasi tutti in attesa di compiersi. A scegliere il passato prossimo non si faceva peccato e però si perdeva qualcosa, si perdevano i momenti in cui lei si stacca da sé. Alla fine sono giunto a una doppia scelta. Ho usato perlopiù il passato remoto, ma in certe pagine ho adottato il passato prossimo, quelle in cui lei si staccava in modo inverso, dalla narrazione e dal testo cioè, e era più prossima alla persona che diventa alla fine del romanzo. Insomma il romanzo comincia al passato remoto per finire con quello prossimo, con un paio di momenti alterni nel mezzo, benché il romanzo fosse tutto al simple past. Ovviamente se ne è discusso in fase di revisione, e devo dire che l’editore ha accettato senza problemi questa impostazione, una volta chiariti i motivi. Sono stato lungo una quaresima, lo so, quando bastava dire: passato prossimo ok ma con moderazione. Forse può valere anche per Gatsby, non lo so. Io ho già dato, sta a Claudia adesso.
CD: In questo esperimento mi sto imbattendo nelle stesse criticità che rilevi tu, ma ad animarmi è comunque la consapevolezza che esistono molte traduzioni di Gatsby e ognuna con un metodo e una visione, a cui mi sento più o meno affine. Nel caso di altri classici il passato prossimo non mi verrebbe così istintivo (è curioso che nel rapportarmi al Grande Gatsby tra 2019 e 2020 io mi sia sentita davanti a un testo di literary non fiction, per come Jay Gatsby è stato reso carne in migliaia di visioni successive, e di mitologie, e di ricorsi), e per quanto ci sia il rischio degli scivoloni e degli afflati letterari/lirici che lo rendono meno credibile, stonato, c’è un’altra componente di libertà e di euforia che spesso ha la meglio. Effettivamente non so cosa accadrà nella mia ultima stesura, continuo a trovare indizi tra le pagine tradotte che non me la fanno apparire come follia. Aver tradotto un libro diametralmente diverso come quello di Ocean Vuong che ha una lingua a tratti molto enfatica e con l’effetto “profumo che esplode all’improvviso in una stanza e crea mal di testa” (a volte lo si trova in maniera radicalmente diversa in FSF) ha forse contribuito a disinibirmi, è vicinissimo al lettore ed esortativo ma non si risparmia descrizioni preziose e anche un certo tentativo di epica. L’inglese ellittico lo aiuta, l’italiano spiegone rischia di mortificarlo e renderlo penoso, è un esercizio di equilibrio che mi è utile con Gatsby. Nelle traduzioni io trovo che ci sia anche la memoria di lavori recenti, di qualcosa di appreso altrove e che apre nuove strade, e se la struttura temporale resta coerente in qualche modo rimane trasparente in tutto il testo. Il vero dilemma è il conflitto istintivo tra vicinanza ed eleganza (l’amata Riley per me lo chiama il passato remoto, per stile quasi più che per posizionamento e movimento), ma se penso a Trimalcione, a una volgarità ridanciana congenita nelle folle sfocate e nelle feste in cui Gatsby si muove, allora sento che questo passato remoto si infrange meglio, si sabota da solo.
TP: Claudia, come sai, in questi giorni sono alle prese con 1984, purtroppo ritradotto recentemente da Nicola Gardini. Dico purtroppo non perché la traduzione non sia buona, tutt’altro, ma perché se le precedenti erano abbastanza lontane da favorire uno scostamento naturale, con questa si determinano spesso specularità di soluzioni e perdo più tempo a evitare coincidenze, a cercare sinonimi e giri di frase alternativi, che non a tradurre. Ciò per significare che tu fai benissimo a cercare una strada davvero alternativa, perché con dieci traduzioni recenti rischi lo slalom continuo. Non vorrei essere al tuo posto, insomma. Sono invece contento di essere nel mio e leggerti quando uscirà la tua versione. Per tornare a Gwendoline, citavo il suo caso più che altro come esempio di autore contemporaneo. All’apparenza la sua scrittura sembra tagliata per il passato prossimo, perché sembra più parlare che raccontare. In realtà, la sua scrittura è molto più sottile di quanto non salti a una prima lettura e benché lei sia ancora giovane e parecchio autobiografica, la sua sensibilità è decisamente più analogica che digitale. Tornando invece al tuo lavoro su Gatsby, mi chiedevo – e te lo propongo come spunto di riflessione – se non fosse possibile usare il passato prossimo in certi momenti chiave, come quello che giustamente tu citavi delle pagine finali. Lì, in effetti, si avverte uno scarto, un calore di voce, che risulterebbe forse potenziato passando dal remoto al prossimo. Insomma, ciò che volevo dire è che non bisogna necessariamente scegliere tra l’uno e l’altro. I due tempi si possono alternare. È una questione di equilibrio, ma tu puoi fare questo e altro.