N el 1993 Richard Dawkins pubblicava un saggio, “Virus della mente”, in cui sosteneva che le idee si propagano come agenti patogeni: si diffondono per contagio e raggiungono il successo evolutivo quando si stabiliscono nella popolazione senza provocare rigetto. Il biologo britannico derivava la suggestione dalla sua teoria memetica, esposta per la prima volta nel saggio del 1976 Il gene egoista. Come frammenti di codice genetico interessato unicamente a perpetuare sé stesso, le idee colonizzano la coscienza collettiva indifferenti agli effetti della loro azione sui soggetti che usano per propagarsi.
Quasi trent’anni prima, nel 1965, Isaiah Berlin sosteneva qualcosa di simile quando dal podio della National Gallery of Art di Washington iniziava la prima delle sue Mellon Lectures con una lunga giustificazione: che senso aveva, si domandava, parlare ancora di Romanticismo? Con quale diritto poteva farlo lui, che non era nemmeno uno storico dell’arte? E cosa sperava di cavarne visto che il problema di cosa sia stato il movimento romantico è “come la grotta di Polifemo: chi vi entra sembra non venire più fuori”? Subito dopo si rispondeva: aveva senso perché il Romanticismo rappresenta “il maggior mutamento singolo verificatosi nella storia dell’Occidente”, al confronto del quale “tutti gli altri mutamenti intervenuti nel corso dell’Otto e Novecento appaiono […] meno importanti”.
Le idee colonizzano la coscienza collettiva indifferenti agli effetti della loro azione sui soggetti che usano per propagarsi.
Berlin non conosceva Dawkins, ma a ben guardare la sua idea non era così diversa da quella di “Virus della mente”: anche per lui le grandi trasformazioni della coscienza collettiva sono punti di svolta da cui non si può tornare indietro. Nelle lezioni, poi raccolte in volume ne Le radici del Romanticismo, si sente forte la convinzione che ci sia un prima e un dopo la rivoluzione romantica. A un certo punto un’idea è nata, e niente è più stato come prima.
Dalle lezioni di Berlin è passato più di mezzo secolo, eppure il problema di cosa sia stato il Romanticismo e in che forme sopravviva ancora nella cultura contemporanea è più attuale che mai. Quando oggi usiamo il termine “romantico”, di solito lo facciamo per riferirci all’amore, e l’uso sembra aver inglobato qualsiasi altra estensione del termine. Pochi di noi pensano all’origine del vocabolo, che risale alla letteratura cavalleresca (la radice è la stessa di “romanzo”), e ancora meno sanno che il primo a usarlo nel senso moderno è stato Friedrich Schlegel nel 1793. Sappiamo che tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento è esistito un movimento chiamato Romanticismo, ma tendiamo a considerarlo una questione accademica. Cos’hanno a che vedere le idee di filosofi tardo settecenteschi con il mondo di oggi?
In realtà, molto: gli effetti della rivoluzione romantica ci influenzano ancora in maniere profonde e tanto più pervasive perché non sempre siamo consapevoli della loro influenza. Per usare la metafora di Dawkins, potremmo dire che siamo ammalati senza sapere di esserlo. Il virus romantico ha avuto successo: guardiamo il mondo con i suoi occhi, in un certo senso siamo diventati indistinguibili da lui. Per capire da dove venga questo agente patogeno, in quali forme sopravviva ancora nel nostro corpo collettivo, e con che effetti, non possiamo quindi che tornare dove tutto è cominciato.
L’origine del Romanticismo
La nascita del Romanticismo è stata raccontata nel dettaglio da un libro tradotto di recente in Italia da LUISS: Magnifici ribelli di Andrea Wulf. Quello ricostruito da Wulf è il racconto di una congiuntura irripetibile nella storia del pensiero, uno di quei momenti in cui le energie si focalizzano e, come per magia, nasce una scintilla dove prima non c’era niente.
Tutto capita in un arco di tempo ristretto, in un luogo circoscritto e per molti versi periferico: la cittadina universitaria di Jena negli ultimi anni del XVIII secolo. Da qui passano tutti o quasi i principali pensatori tedeschi dell’epoca: Goethe, Schiller, i fratelli Schlegel, i fratelli Humboldt, Novalis, i filosofi Fichte e Schelling e, poco più tardi, Hegel. Questa concentrazione di menti eccezionali produce tutte le idee chiave del movimento romantico: nuove idee di individuo e libertà, di natura, amore, creatività. Queste idee, ci ricorda Wulf, sono ancora ben vive in Occidente, al punto che spesso le diamo per scontate.
Il Romanticismo rappresenta “il maggior mutamento singolo verificatosi nella storia dell’Occidente”, al confronto del quale “tutti gli altri mutamenti intervenuti nel corso dell’Otto e Novecento appaiono meno importanti”.
Uno dei corollari della teoria di Dawkins è che, se le idee sono virus, allora devono venire dall’esterno del corpo che infettano. Gli esseri umani insomma non producono idee in senso stretto, ma ne sono piuttosto ricettori passivi. A generarle deve essere stato qualcos’altro, una sorta di “accumulatore energetico” capace di produrre la scintilla. La generazione di Jena ha potuto beneficiare di ben due di questi accumulatori energetici, due rivoluzioni la cui azione è stata amplificata dalla vicinanza temporale: quella industriale e quella francese.
La seconda, soprattutto, è stata un evento il cui peso nella formazione della sensibilità moderna è impossibile sottovalutare: è con il sangue versato a Parigi che, da tanti punti di vista, nasce l’epoca moderna. C’è un prima e un dopo: ci approcciamo alla storia culturale del Settecento ed è il passato, un mondo meccanicistico di uomini in parrucca e poteri assoluti; leggiamo i diari di Novalis, seguiamo le vicende sentimentali di Byron, ed è il presente, una soap opera dei giorni nostri. Qualcosa è cambiato. Una luce si è accesa. Tutto a un tratto, gli esseri umani sono diventati persone.
La rivoluzione dell’Io
Cosa abbia acceso questa luce, però, non è immediatamente chiaro: in fondo, il Romanticismo è stato molte cose, spesso inconciliabili tra loro. Berlin stesso dedica buona parte delle sue lezioni a chiedersi quale sia stato il minimo comune denominatore presente in tutte le forme del Romanticismo storico e nelle sue future evoluzioni. Alla fine si risponde così: l’essenza, dice, è stata la nascita dell’Io.
È un punto di fondamentale importanza. A partire dal Romanticismo, l’Io individuale diventa il centro del cosmo. Meglio ancora, il cosmo viene riassunto dall’Io individuale: il concetto rinascimentale di individuo (ciò che è “indiviso”) assume una volta per tutte il significato moderno. Il soggetto è al centro del mondo; in un certo senso, è il mondo: i suoi confini non sono solo quelli del conoscibile, ma anche dell’esistente. Se non esiste altro al di fuori dell’Io, ecco che diventa improvvisamente importante tutto ciò che questo Io percepisce, esperisce, patisce; ecco che diventa importante il fatto che l’Io sia fedele a sé stesso; ecco che l’Io si scopre sovrano: come la folla parigina, esso può plasmare il mondo a proprio piacimento, può ghigliottinare i propri sovrani, edificare universi. Esso può creare: da qui deriva l’importanza assunta dall’arte nel movimento romantico.
A partire dal Romanticismo, l’Io individuale diventa il centro del cosmo.
Da questa intuizione fondamentale discendono molte cose. Ad esempio, l’esperienza assume un significato che non aveva mai avuto in passato, sia essa l’esperienza della passione amorosa o quella prodotta dagli stati mentali alterati; diventa importante un concetto fino a quel momento del tutto marginale nel ventaglio della morale tradizionale, quello di sincerità; nasce l’ironia, possibile solo nel momento in cui si apre uno scarto riflessivo tra l’azione e l’adesione intima alle ragioni di quell’azione; l’individuo entra in conflitto con la società in cui vive, che improvvisamente scopre limitante e repressiva. In questo nuovo contesto, la libertà individuale acquisisce un ruolo capace di riassumere tutti i valori elencati sopra: libertà di esperire, di cercare il proprio Sé più autentico, di definirsi come eccezione rispetto all’uniforme della società. Libertà, insomma, di essere ciò che si vuole, di seguire sé stessi. Se vi suona familiare, non è un caso.
Trasformazione di un’idea
Se il Romanticismo fosse rimasto quello di Jena, tuttavia, è probabile che oggi le sue innovazioni non ci influenzerebbero in maniera così profonda e pervasiva. Questo perché c’era un problema con il Romanticismo delle origini, almeno se lo guardiamo dal punto di vista evoluzionistico con cui Dawkins si approccia alle idee: non era molto adatto a diffondersi su larga scala.
La ragione è semplice, e cioè che l’opera di “romanticizzazione del mondo”, come la chiamava Novalis, era per sua natura destinata al fallimento. Facciamo un esempio: l’amore romantico. Nella sua forma originale, l’amore romantico era sempre infelice; se non fosse stato infelice, avrebbe anche smesso di essere romantico. Immaginiamo ad esempio che Werther finisca davvero per sposare Charlotte. Immaginiamo che i due vadano a vivere insieme, abbiano tre figli, debbano scegliere l’arredamento di casa – tutte cose che oggi assoceremmo a un happy ending. Non è difficile prevedere che in uno scenario del genere la vita quotidiana della coppia non sarebbe stata imbevuta dello struggimento e delle passioni che trasudano dalle pagine del romanzo di Goethe. Novalis ha riassunto il problema scrivendo che, perché l’opera di romanticizzazione del mondo sia possibile, è necessario “tenere la ferita aperta”: “possa Dio preservare questa indescrivibile sofferenza per sempre”, scriveva nel diario del 6 giugno 1797 in relazione alla morte dell’amata Sophie.
Non è un caso che alle soglie del movimento romantico si trovino due suicidi, quello di Werther e quello del poeta adolescente Thomas Chatterton. Chi non moriva scivolava nella bigotteria religiosa, nella convenzionalità o nell’irrilevanza. I più fortunati, come Hölderlin, impazzivano.
Questa è la ragione per cui la morte assume un ruolo così importante nel progetto romantico: perché le ferite, nel tempo, guariscono – a meno che non ci si tolga di mezzo prima che possa capitare. È noto che i romantici morivano giovani: tubercolosi, oppio, naufragi, rivoluzioni in Paesi stranieri erano tutte buone maniere di lasciare la scena con un tocco di stile. Quando niente di tutto ciò funzionava, si uccidevano, e non è un caso che alle soglie del movimento romantico si trovino due suicidi, quello di Werther, appunto, e quello del poeta adolescente Thomas Chatterton. Chi non moriva scivolava nella bigotteria religiosa, nella convenzionalità o nell’irrilevanza. I più fortunati, come Hölderlin, impazzivano.
Non è difficile comprendere come un’idea che non prometteva alcun happy ending, anzi offriva la certezza di una “indescrivibile sofferenza”, non era destinata a un successo di massa. Certo, poteva accendere gli animi dei giovani, ma prima o poi quei giovani sarebbero diventati adulti e, come Goethe, avrebbero finito per rinnegare il proprio passato di ribelli. Difficilmente avrebbero trasmesso il “gene romantico” ai loro figli, per continuare nella metafora.
Ci imbattiamo così nel secondo corollario della teoria di Dawkins, quello per cui le idee, per diffondersi, devono adattarsi. La vita naturale delle idee diventa anche la ragione della loro banalizzazione: nient’altro che un meccanismo evoluzionistico di sopravvivenza. I cerchi nell’acqua si fanno più flebili man mano che ci si allontana dal punto in cui il sasso ha colpito la superficie, ma l’onda che producono è sempre più ampia; ora tutto lo stagno, un tempo calmo, è in movimento. È così che il Romanticismo è andato incontro a ciò che, citando in maniera infedele Denis De Rougemont (che parlava di amore), potremmo chiamare la “degenerazione del mito” romantico.
La degenerazione del mito
Magnifici ribelli si ferma alle soglie del secolo romantico per eccellenza, l’Ottocento. Quando il termine “romantico” comincia a diffondersi nei salotti francesi con la pubblicazione di De l’Allemagne di Madame de Staël, e da lì dilaga in tutta Europa, il circolo di Jena si è dissolto da quasi un decennio: Novalis è morto, Schiller è morto, Caroline Böhmer, moglie prima di Wilhelm Schlegel e poi di Schelling, è morta, Friedrich Schlegel e Fichte sono caduti in disgrazia, persino la stella di Schelling è stata oscurata da quella di Hegel.
Il movimento insomma ha già perso gran parte della sua carica propulsiva, e proprio per questo può finalmente dilagare: nel corso dell’Ottocento tutti vorranno definirsi romantici. Man mano che il Romanticismo perde terreno in settori specifici (pensiamo all’arte figurativa, che del misticismo di un Caspar David Friedrich si era già stufata negli anni Venti), si diffonde capillarmente come idea generale. Pensare che tra le due cose ci sia una contraddizione è frutto di un fraintendimento su come nascono e si diffondono le idee: il corpo collettivo rigetta il virus a livello microscopico quando a livello macroscopico l’idea si è ormai radicata. Possiamo permetterci di dirci “anti-romantici” (o “anti-postmoderni”, “anti-illuministi” eccetera) solo quando il DNA di ogni nostra cellula è stato ormai irrimediabilmente trasformato.
Il corpo collettivo rigetta il virus a livello microscopico quando a livello macroscopico l’idea si è ormai radicata.
In cosa consista la degenerazione del mito romantico lo sappiamo anche se pensiamo di non saperlo, perché da molti punti di vista è il mondo in cui viviamo. Nel corso dell’Ottocento, il nuovo capitalismo industriale comprenderà rapidamente come un movimento che ruota intorno all’esperienza e al culto della libertà individuale offra ampi margini di sfruttamento commerciale. Quando Timothy Morton scrive, in Ecology Without Nature, che “il Romanticismo è consumismo; il consumismo è Romanticismo” non sta facendo il solito détournement da critical theory, almeno non solo: sta dicendo che oggi non esisterebbe una cultura consumista se il Romanticismo non avesse inventato l’idea stessa di consumo, che è prima di tutto un consumo dell’esperienza.
Jean Starobinski ha indicato nel Settecento il secolo della “invenzione della libertà”, ma leggendo i suoi saggi ci accorgiamo che la libertà settecentesca era un artificio, un gioco di corte, uno svolazzo rococò: è quando la folla parigina infila su una picca la testa del direttore della Bastiglia, e concepisce per la prima volta l’inconcepibile del regicidio, che quella libertà diventa reale. Da lì al Just Do It della Nike il passo è più breve di quanto sembri. Pensiamo alle maniere in cui il capitalismo ci vende prodotti che dovrebbero renderci noi stessi, nel più classico dei double bind (“diventa te stesso facendo quello che ti dico io”): impensabili senza la rivoluzione romantica delle menti. Quando nel 1956 Eric Fromm descriveva, ne L’arte di amare, un amore diventato luogo di consumo, non stava solo raccontando il presente e il futuro dei sentimenti nel capitalismo avanzato: stava anche dibattendo le ovvie conseguenze di una degenerazione del mito dell’amore romantico già diffusa in Occidente da oltre un secolo.
Dunque non è necessario andare lontano: quando guardate in televisione la pubblicità di un uomo che guida un’auto nella natura selvaggia, e nel farlo si sente libero, e sente che quella libertà lo definisce come individuo separato e diverso da tutti gli altri individui, state guardando la degenerazione del mito romantico. Quando vi iscrivete a una dating app per incontrare l’amore della vostra vita, perché siete convinti che senza amore non si possa vivere, o meglio che non si possa vivere senza quella specifica configurazione della nebulosa di sentimenti che vanno dall’eros all’agape chiamata amore romantico, state partecipando attivamente alla degenerazione del mito. Siete complici di questa degenerazione quando provate una nuova droga per vedere che effetto fa, per trovare voi stessi o per aprire la mente, quando sentite il desiderio di proteggere la natura dall’avanzata degli umani, quando ammirate un uomo o una donna di genio e il suo (necessario, vi pare) trovarsi a disagio nella società. In una parola, siete sempre complici, lo siamo tutti.
Quando Timothy Morton scrive che “il Romanticismo è consumismo; il consumismo è Romanticismo” non sta facendo il solito détournement da critical theory.
Romanticismo insostenibile
Eccoci allora tornati al presente e alla vera materia del contendere. Perché questa influenza del Romanticismo dovrebbe essere un problema? Se tutto si riducesse al fatto che la versione degenerata del mito romantico ha dato al capitalismo nuovi modi di estrarre valore dalle nostre emozioni, verrebbe da dire poco male: di qualche forma di mercificazione, in questa società, bisognerà pur morire. La situazione però è più complicata, e per capirlo bisogna tornare al problema della morte e al suo ruolo fondamentale nel Romanticismo delle origini.
Il Romanticismo storico, come abbiamo visto, non era interessato al raggiungimento di un equilibrio: nella sua essenza era una tensione irrisolvibile, una fame che non poteva essere saziata. In questo senso è stato un movimento molto diverso da altre grandi trasformazioni del pensiero, come l’Illuminismo o la rivoluzione scientifica secentesca, che proponevano modelli di società sostenibili nel corso del tempo, almeno sulla carta. Al contrario, il Romanticismo era destinato a consumarsi nel momento estatico, nell’esperienza trascendente, nella vita eccezionale e irripetibile. Anche per questo i grandi romantici, come rockstar moderne (di cui sono le prime incarnazioni), vivevano intensamente e bruciavano in fretta.
Quando Lord Byron morì, trentaseienne, a Missolungi, dove era andato a liberare la Grecia dall’Impero Ottomano con interi bauli di abiti in raso ed elmi con incisa l’effigie della dea Atena, sul suo cadavere fu condotta un’autopsia: pare che le suture del suo cranio si fossero fuse, una condizione che di solito si riscontra nelle persone morte in tardissima età, tanto intensa era stata la sua vita e tanto violente le esperienze che aveva attraversato. Ma Byron, era, appunto, Byron: la cosa più simile sia esistita nella storia delle lettere a Napoleone Bonaparte. Era unico e irripetibile. Se tutti vivessimo come ha vissuto Byron, oggi, non ci sarebbero abbastanza esperienze da esperire, abbastanza imprese in cui lanciarsi, abbastanza corpi da violare.
La libertà settecentesca era un artificio, un gioco di corte, uno svolazzo rococò: è quando la folla parigina infila su una picca la testa del direttore della Bastiglia che quella libertà diventa reale.
Il vero problema con la degenerazione del mito romantico, insomma, è che ci mette in situazioni insostenibili. Ancora una volta, l’amore è un buon esempio. Nel 2016, Alain De Botton teneva alla Sydney Opera House una lunga talk su tutte le maniere in cui l’idea romantica dell’amore ci rende infelici. Bella scoperta, diremmo noi: che l’amore renda infelici i romantici lo sapevano già nel XVIII secolo. Ma allora, come abbiamo visto, nessuno di auspicava che arrivasse l’happy ending: l’infelicità, piuttosto, era l’obiettivo ultimo. Siccome però un amore infelice è insostenibile (e, tangenzialmente ma poi nemmeno tanto, non vende), la nostra società pseudo-romantica ci promette i benefici dell’amore romantico cercando di risparmiarci i dolori. Il che ci fa soffrire per davvero: ce ne stiamo accorgendo, ma trovare una via d’uscita dalla trappola è tutt’altro che semplice.
Potremmo fare molti altri esempi. Seguendo il discorso di Timothy Morton (che non per niente prima di diventare il filosofo per eccellenza della crisi climatica è stato uno studioso di letteratura romantica), potremmo parlare di come l’idea di natura nata con il Romanticismo, che rimane ancora in gran parte l’unica con cui riusciamo a pensare all’ambiente, ci stia rendendo difficile rispondere in maniera efficace alle sfide poste dal riscaldamento globale. Oppure potremmo tracciare l’origine romantica del nazionalismo identitario tornato tanto in voga negli ultimi anni, o addirittura spingerci a sostenere che la perdita di una realtà condivisa che polarizza sempre di più le nostre società sia una conseguenza, estremizzata, dall’individualismo e del soggettivismo nato con il Romanticismo, la prima corrente di pensiero a celebrare il fatto che esistessero tanti mondi quante menti a pensarli.
Ma in fondo il punto centrale, quello più scottante, rimane ciò che per Isaiah Berlin ha costituito la vera essenza della rivoluzione romantica: l’Io. Quell’Io bulimico che desidera senza confini, quell’Io che non tollera limitazioni alla sua libertà, quella fame che non si sazia e che richiede sempre nuove esperienze, nuovi stimoli, nuovi orizzonti. Quell’Io che proietta sé stesso su tutto ciò che incontra, riducendolo in fondo alla sua asfissiante dimensione. Quell’Io che è un buco nero in cui tutto precipita e scompare.
La nostra società pseudo-romantica ci promette i benefici dell’amore romantico cercando di risparmiarci i dolori.
Ecco, se il Romanticismo ci ha lasciato qualcosa di duraturo è proprio questo: l’idea che ciascuno di noi sia il centro del mondo, che di quel mondo sia sovrano, che la cura e il mantenimento di quel mondo sia lo scopo principale di questa vita. Ci ha convinti che ogni esperienza capace di arricchire quell’Io, di nutrirlo, possa e in un certo senso debba essere esperita. Ci ha convinti, in fondo, che non ci dovrebbero essere limiti al nostro desiderio, non ci dovrebbero essere confini alla nostra volontà.