Un’intervista a Frédéric Pajak, premio Goncourt 2019 con il suo Manifesto incerto, un ibrido tra saggio e disegno.
Matteo Moca si è laureato in Italianistica all’Università di Bologna con una tesi su Landolfi e Beckett. Attualmente è dottorando in letteratura italiana e studia il surrealismo tra Bologna e Parigi. Collabora, tra gli altri, con Gli Asini, Blow Up, Alfabeta2, minimaetmoralia. Il suo ultimo libro è "Un' esigenza di realtà. Anna Maria Ortese e la dipendenza dal fantastico" (LiberAria, 2022)
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oland Barthes in La camera chiara, riflettendo sullo statuto gnoseologico dell’immagine, scrive: “l’essenza dell’immagine è di essere tutta esteriore, senza intimità, e ciononostante più inaccessibile e misteriosa dell’idea dell’interiorità; di essere senza significato, pur evocando la profondità di ogni possibile senso; non rivelata e tuttavia manifesta, possedendo quella presenza-assenza che costituisce la seduzione e il fascino delle Sirene”. Nelle immagini secondo il critico francese si rintraccia quindi un desiderio ineludibile di tracciare l’indicibile, di andare oltre il valore della parola scritta per spalancare nuovi e ulteriori universi di senso. L’opera di Frédéric Pajak, nato in Francia nel 1955, può essere situata nel solco di questa definizione, anche se si tratta di un lavoro così poderoso e sfuggente a qualsiasi definizione che si corre il rischio di sminuirne o travisarne il valore che supera qualsiasi etichetta. Scrittore e artista visivo, Pajak è autore di Manifesto incerto, un libro unico diviso in nove volumi (in italiano sono stati pubblicati per ora i primi due da L’orma, entrambi con la traduzione di Nicolò Petruzzella, Con Walter Benjamin, sognatore sprofondato nel paesaggio e Sotto il cielo di Parigi con Nadja, André Breton, Walter Benjamin), un’impresa letteraria e artistica illuminante nella quale si incrociano i libri, i pensieri e le opere di importanti intellettuali del XIX e del XX secolo con il vissuto autobiografico dello scrittore, un lettore che guida un altro lettore tra i sentieri della storia del pensiero e delle idee del Novecento. Ciò che rende straordinaria quest’opera, vincitrice del Prix Médicis nel 2014 e del Goncourt per la biografia nel 2019, è la sua forma ibrida che mescola testo scritto e disegni in bianco e nero: si tratta di un materiale che vive in un rapporto simbiotico e vicendevolmente totalizzante, dove l’immagine non è al servizio della scrittura, così come il testo non si presta alla didascalia. Proprio attraverso l’incontro – non sempre pacifico – tra questi due mezzi artistici, Pajak prova a evocare “ogni possibile senso” della realtà, per usare le parole di Barthes, e lo fa situando pienamente il suo lavoro all’interno del contemporaneo, dove l’immagine è elemento imprescindibile e onnipresente. Dalle pagine di Pajak si svela la complessità dei segni e la fatica di un’opera che, davvero, risulta tra le più importanti imprese artistiche contemporanee. Manifesto incerto parla dell’Europa del Novecento, di Walter Benjamin e di André Breton, di Marina Cvetaeva e di Fernando Pessoa, dell’Italia degli anni di piombo e della Parigi dei surrealisti ma, soprattutto, è un’opera in grado di parlare del presente attraverso il passato, delle tragedie dell’esistenza umana e di quelle della Storia, dell’uomo, e della sua felicità, attraverso l’esistenza del suo autore.
Nella Premessa al primo volume di Manifesto incerto, ricordi di come da bambino sognasti “un libro fatto di parole e immagini”, e di come prima dell’uscita del volume che ha inaugurato la serie tu abbia provato a inseguire questo libro-sogno che però pareva volerti in ogni modo fuggire. Scrivi anche che questo lavoro è il tentativo di “rievocare la Storia cancellata e la guerra del tempo”: si tratta quindi di due storie cancellate e a fatica ripercorse, una afferente al tuo sentire, l’altra invece riguardante personaggi straordinari come, tra gli altri, Walter Benjamin e André Breton. Cosa significa provare a far riemergere queste storie, e da dove nasce questo desiderio?
Nei miei libri mi presento innanzitutto come lettore, e quindi mi sembra necessario dire che genere di lettore io sia, che cosa mi emoziona. Non ci si imbatte mai in un autore per puro caso: se accade è perché era scritto, bisognava solo scoprirlo, leggere i suoi libri, conoscerne la vita. C’è sempre una coincidenza tra la propria esistenza e quella degli autori che ci commuovono. Per esempio, il fatto che io sia orfano di padre ha fatto sì che mi interessassi alla condizione dell’orfano in Nietzsche, o in Cesare Pavese. Nel mio libro su Torino, L’immensa solitudine (pubblicato in Italia da Graphot), ho voluto indagare come esprimessero questo dolore nelle loro opere – o meglio, come ne parlassero solo a mezza bocca. Più in generale, sento la necessità di raccontare la mia storia, di confrontarla con quella di un autore o di un artista, e al contempo con la Storia, quella con la S maiuscola, che ci avviluppa e ci dimentica.
Sempre nella Premessa scrivi anche del periodo che hai trascorso in Italia e parli di Roma come del luogo dove è nato il titolo di quest’opera. Ricordi che erano gli anni delle ideologie, che l’Italia era “colpita da una serie di attentati attribuiti agli anarchici” ma che poi si è scoperto essere opera di “gruppiscoli neofascisti”, citi anche la bomba del 1980 alla stazione di Bologna. Che ricordo hai di quell’atmosfera? Credi che la lotta contro il terrorismo di quegli anni abbia segnato il tuo immaginario e, più in generale, un certo modo di leggere e ripercorrere la storia del Novecento?
Ricordo le strade deserte di Milano, le serrande di ferro abbassate sulle vetrine dei bar e dei negozi subito dopo il tramonto. Una città fantasma, un po’ come Parigi negli ultimi mesi di pandemia. Non mi sono mai sentito a mio agio con le ideologie totalitarie, e in quegli attentati ciechi e mortali vedevo l’ovvia conseguenza di questi credo disperati e disperanti. Da bambino trascorrevo l’estate da uno zio napoletano, nei pressi di Terracina. I nostri vicini erano Aldo Moro e la sua famiglia, delle persone simpatiche. L’assassinio di Moro mi colpì profondamente. Perché proprio lui? Non era il politico più intollerante d’Italia; auspicava un compromesso storico, e questo non mi sembrava un crimine. Se per cambiare il mondo si ricorre a un omicidio forse si è intrapreso il sentiero sbagliato.
La tua opera ha vinto il premio Goncourt per la biografia, ma la definizione di biografia è oggi alquanto complicata, attraversata com’è dalla presenza decisiva dell’autore. Una situazione simile si presenta anche nel tuo libro e l’esempio più semplice, ma che potrei ampliare anche ad altri personaggi, riguarda la vita di Walter Benjamin (che non a caso ha scritto, come tu ricordi, di avere “l’idea che la vita sia un romanzo”). Nella tua opera l’esistenza del filosofo tedesco si incrocia con la tua esperienza biografica e con i tuoi ricordi, come se tu volessi raccontare la figura e il lavoro Benjamin attraverso la tua vita, ma anche viceversa.
Walter Benjamin, come quasi tutti gli “eroi” dei miei libri, mi è estraneo. Non ne sottoscrivo le opinioni, né le posizioni marxiste, né tantomeno la verbosità “dialettica” o l’oscuro misticismo. Ma è proprio in virtù di questa estraneità che mi interessa. Non bisogna mai cercare nell’altro un doppio di se stessi. Ovviamente se ne possono condividere i sentimenti, qualche opinione o una certa visione del mondo, ma l’essenziale dimora nell’estraneità che ci separa. Questo implica un reale rispetto dell’altro, al quale ci si deve approcciare con la più grande cautela possibile, senza tuttavia scadere nell’agiografia.
Di Manifesto incerto mi sembra particolarmente interessante l’unione dei tuoi percorsi di scrittore e artista, come testimoniano le pagine occupate allo stesso modo dal testo e dai tuoi disegni. Quello che sorprende leggendo è che la tua scrittura, acuta e limpida, si bilancia con la parte visiva senza mai creare una gerarchia. Non c’è infatti né un rapporto di dipendenza né un intento didascalico, ma un connubio leggero e persistente in cui gli elementi si incastrano in maniera autonoma nella costruzione della storia. Come sei arrivato a questa forma, e quali sono le fasi del tuo lavoro?
Ho cercato a lungo una forma in grado di conciliare scrittura e disegno, i miei due linguaggi, ma l’ho trovata solo molto tardi, all’età di quarantacinque anni, prima con L’immensa solitudine e poi con Manifesto incerto. Non si tratta né di un fumetto, né di un libro illustrato, e neppure di una graphic novel, tutti generi che ricorrono invariabilmente a mezzi assai limitati e convenzionali. Io invece volevo far coesistere in uno stesso libro da un lato la biografia, l’autobiografia, la narrativa, la filosofia, la poesia, e dall’altro il disegno dal vero, l’illustrazione fatta a partire da una fotografia o un documento, e le immagini frutto della mia immaginazione. Quando comincio la stesura di un nuovo libro per prima cosa passo in rassegna le biografie dell’autore che rievoco, la sua corrispondenza, il suo diario personale e, va da sé, la sua opera letteraria. Leggo e annoto scrupolosamente migliaia di pagine, poi trascrivo questi appunti che costituiscono una sorta di supporto documentario. Nel frattempo riempio interi taccuini con scorci delle mie esperienze, pensieri intimi, impressioni di viaggio e altro. Solo dopo mi concentro sui disegni, che di solito mi impegnano per due mesi di lavoro ininterrotto. Quando infine questi diversi elementi sono pronti inizio a montare il libro, allo stesso modo in cui si monta un film. Per arrivare alla forma definitiva, però, passo attraverso svariate versioni, e questo può richiedere parecchio tempo.
Ma vorrei aggiungere che non mi considero né uno scrittore né un disegnatore: obbedisco a un solo maestro, il libro. Vivo, penso, respiro con e per il libro. Non finisco, come Mallarmé, per confondermi anonimamente con esso, ma sono in tutto e per tutto il suo servitore. In questo senso Manifesto incerto non è la successione di nove volumi, ma uno stesso e unico libro che, inizialmente, volevo non finisse mai.
La tua esperienza biografica mi sembra segnata da una ricerca che raramente si è concessa momenti di quiete. Hai fatto molti mestieri, l’operaio, il grafico, il cuccettista sui treni notturni, hai lavorato in un macello e hai anche conosciuto il significato della povertà e delle difficoltà più elementari che l’esistenza può presentare a un uomo. Questo vissuto come ha influito sulla tua scrittura e sul tuo progetto Manifesto incerto? Il riconoscimento della tua opera con due dei più importanti premi letterari francesi, il Médicis nel 2014 e il Goncourt nel 2019, cosa ha significato all’interno del tuo percorso personale e intellettuale?
Come ho detto, ci ho messo molto a trovare la mia forma. Sapevo di non essere pronto e che la ricerca sarebbe stata lunga, tuttavia non volevo scendere a compromessi. Cercavo qualcosa che assomigliasse al libro ideale. Nell’attesa, per guadagnarmi da vivere, ho fatto ogni genere di lavoro. Accettavo di essere un artista senz’arte, ma non senz’orgoglio. Quando ho vinto il mio primo premio letterario, in Svizzera, il primo sentimento è stato lo stupore, ma subito dopo ha prevalso la fierezza. Ero stato l’ultimo della classe, ho lasciato la scuola a quattordici anni: ricevere questo genere di riconoscimenti rappresenta, in un certo senso, una sorta di rivincita. E significa soprattutto che ho la possibilità di essere libero, di scegliere i miei editori, di imporre la mia idea di impaginazione, di pubblicare, insomma, il libro esattamente come l’ho immaginato. Curo ogni aspetto della lavorazione dei miei volumi: scansioni dei disegni, ritocchi, impaginazione, scelta della carta e progetto della copertina.
Il primo volume è fin dal titolo incentrato sulla figura di Walter Benjamin, anche se poi in realtà la narrazione e le immagini portano anche in luoghi limitrofi; nel secondo volume alla figura di Walter Benjamin si aggiunge, tra gli altri, André Breton. Mi sembra evidente il ruolo fondamentale che Walter Benjamin ha nella tua opera, dove ne tratteggi con attenzione pensiero ed esperienza biografica fino alla sua tragica morte. Chiudi infatti il secondo volume soffermandoti proprio negli ultimi giorni di Benjamin: “Il 9 marzo 1938 Walter Benjamin invia un sollecito al Ministro della Giustizia per il rilascio della cittadinanza francese. La giustizia non gli risponderà mai”. Mi pare che Manifesto incerto sia anche un modo per provare a restituire a Benjamin la giustizia che – come scrivi – gli è mancata in vita, e sottolineare il ruolo centrale del suo pensiero anche nella società contemporanea.
Lo ripeto ancora una volta, Walter Benjamin mi è estraneo, ma il suo destino tragico suscita in me una certa emozione. E questa tragedia la ricollego ai suoi scritti oscuri e profetici. Però è vero: ripercorrendo e raccontando nel dettaglio i suoi ultimi giorni di vita mi sforzo di rendergli giustizia. Hannah Arendt, sua amica, vedeva in lui un uomo impacciato, sfortunato. Ma la sfortuna c’entra fino a un certo punto: Benjamin è morto per colpa degli agenti della Gestapo, che tiranneggiavano anche in Spagna. Più precisamente, è stato vittima di un funzionario francese, un imbecille che, in modo del tutto arbitrario, si rifiutò di concedergli l’autorizzazione per attraversare il confine nonostante fosse in possesso del visto per viaggiare in Spagna e in Portogallo e di un passaporto che gli avrebbe garantito l’accoglienza negli Stati Uniti. Ma probabilmente Benjamin era al corrente dell’esistenza dei campi di concentramento francesi sui Pirenei, e soprattutto del campo di Gurs, dove venivano deportati gli ebrei di Strasburgo e dell’Alsazia – la maggior parte di loro sono morti di malattia, altri sono stati trasferiti ad Auschwitz. La famosa “zona franca” non era affatto franca, per gli ebrei. Walter Benjamin è stato uno sconfitto della Storia, proprio lui che degli sconfitti, dei perdenti e dei senza patria era uno strenuo difensore. È anche per questo che mi colpisce. La maggior parte dei personaggi dei miei libri sono dei “perdenti” agli occhi della società. Nietzsche, Benjamin, van Gogh, Emily Dickinson, Marina Cvetaeva e Fernando Pessoa sono tutti diventati celebri solo dopo la morte. Questo mi ha portato alla convinzione, propria dello stesso Benjamin, che nessuna esistenza sulla terra debba essere dimenticata. Che poi in fondo è anche l’auspicio di Tolstoj.
L’altra protagonista della tua opera è – ovviamente – Parigi, e questo diventa ancora più lampante con il secondo volume dove la città viene vissuta e attraversata non solo da Benjamin, ma anche da uno scrittore come Breton, che nel suo Nadja si è totalmente immerso tra le sue pieghe, provando a scrutarne i misteri e assecondandone i segreti. Anche in questa scelta si trova, immagino, una tua fascinazione personale, e la necessità di confrontarsi con quello che è forse il luogo centrale nell’Europa novecentesca. Cos’è rimasto oggi della città che definisci come quella che “ha stremato di gioia e dolore migliaia di anime”?
Sono nato a Parigi e ci ho vissuto più di vent’anni. E d’altronde, se non volevo restare un signor nessuno di un qualche angolo della Svizzera o della provincia, ero costretto a vivere lì. Ma pubblicare i primi libri per le prestigiose Presses Universitaires de France o per Gallimard mi ha dato una certa libertà, e da allora ho potuto vivere dove mi pareva e pubblicare con chi mi pareva, anche con una piccola casa editrice. Così ho lasciato la capitale e mi sono trasferito nel Sud della Francia, ad Arles. Parigi è diventata una città di piccolo-borghesi in monopattino, che mangiano biologico e votano per Macron. Nei miei libri mi sforzo di demistificare la sua fama artata di patria di artisti e letterati. Anche perché, con quanti dall’estero arrivavano in città attratti dal mito della ville lumière, Parigi si è sempre dimostrata indifferente, per non dire ostile. La ristretta cerchia dei letterati, Breton in testa, non si è nemmeno accorta di Benjamin o di Cvetaeva: li ha ignorati completamente, nonostante i loro scritti fossero mille volte superiori ai prodotti di quel piccolo mondo gretto e benpensante. Oggi più che mai Parigi è una città morta. I suoi veri abitanti – operai, artigiani, commercianti – l’hanno abbandonata perché non possono più permettersi di viverci. Nei suoi musei si espongono solo artisti commerciali, i suoi editori pubblicano un mucchio di autori mediocri e per niente originali. La stampa d’opinione non esiste più, e televisione e radio si guardano bene dal raccoglierne lo scettro. Il perbenismo e il conformismo dettano legge.