C’ è un genere di romanzi che ho sempre amato, di autrici come Shirley Jackson, Jean Rhys, Flannery O’Connor, in cui la realtà prende vie di fuga più o meno esplicite verso dimensioni ignote o perturbanti. Non si tratta di puro fantastico, né di soprannaturale tout court, ma di una dimensione intermedia e ambigua ricca di possibilità. Ritrovo questa cifra nei romanzi con narratori inaffidabili, dove le bugie o i sogni del protagonista diventano la realtà del lettore, e lo sguardo ha il potere di trasfigurare il mondo famigliare. È una qualità che ultimamente mi sembra schiacciata tra gli estremi della distopia e del memoir; ma negli ultimi mesi è riapparsa in due romanzi distanti per area geografica e intenti letterari. Si tratta di Le Transizioni di Pajtim Statovci (Sellerio, traduzione di Nicola Rainò) – giovane autore nato in Kosovo e cresciuto in Finlandia; e di I cieli dell’americana Sandra Newman (Ponte alle Grazie, traduzione di Laura Berna): in entrambi il lessico della fiaba s’innesta in una realtà violenta o minacciosa, per provare a forzarne i limiti.
Le transizioni è la storia di un ragazzo che può diventare ragazza quando gli pare. Il ragazzo ha ventidue anni e si chiama Bujar; è albanese ma a volte dice di essere italiano, altre bosniaco oppure spagnolo. Fa innamorare uomini e donne, reinventa la sua vita per gli estranei, cambia pelle in ogni nuova città. Le transizioni segue due filoni narrativi. Il primo è ambientato nell’Albania di inizio anni novanta, reduce dalla dittatura di Hoxa – “la discarica d’Europa, il fanalino di coda dell’Europa, la prigione a cielo aperto più grande d’Europa”. Quando il padre muore, la famiglia di Bujar si disfa. La madre è depressa, la sorella sparisce – rapita, forse venduta dai trafficanti. Bujar scappa da casa con l’amico Agim.
Sono due adolescenti all’avventura, esaltati per la libertà che si spalanca davanti a loro: “mi sembrò che di quel viaggio lungo centinaia di chilometri avessimo fatto solo il primo passo”. Vogliono l’Europa, ma nella loro odissea devono prima superare gli scogli di Tirana e Durazzo. Tirana, dove i vecchi “ciondolavano per strada nei loro vestiti logori ingoiando semplici pezzi di pane bianco, o conditi con un sottile strato di cipolle tritate o crema di fagioli, pezzi di pane sui quali le dita sporche lasciavano strisce scure come piume di corvo”. Durazzo, dove gli zingari “chiedevano l’elemosina esibendo sui marciapiedi i figli piccoli avvolti così stretti in lenzuola lerce che sembravano nidi di vespe su cui era stata disegnata la faccia rugosa di un bambino”.
Le transizioni è una fiaba di maschere. Dopo qualche giorno di baldoria nella capitale albanese, quando a Bujar e Agim “sembrava davvero di essere le persone che fingevamo di essere”, i due finiscono a vivere per strada, dormire nei cessi, fare i venditori ambulanti. Il racconto in prima persona di Bujar aderisce alla realtà ma la trasfigura: le tracce delle dita sporche sul pane sono piume di corvo, i figli degli zingari sono nidi di vespe, le angosce degli abitanti di Tirana “si accumulano come cartaccia e pacchetti di sigarette vuoti agli angoli delle strade, vengono rigurgitate dai tombini e dalle fessure del pavimento, e invadono come un’alluvione le case della gente”. Questo sguardo intonso, che trasforma il mondo raccontandolo, è vivo e crudo nel racconto albanese.
C’è un brano nel libro che condensa in poche righe il movimento tra libertà immaginifica e attrazione alla realtà più marcescente:
Da bambino avevo sentito la storia di una ragazza che era diventata ragazzo. Era assurda e impossibile, come erano sempre le storie di mio padre, ma di tutte quelle che avevo sentito da lui questa era la più sconclusionata, una storia in cui volavano draghi e si brandivano spade, le ragazze indossavano vestiti da uomo e gli animali potevano parlare con gli esseri umani e viceversa, il racconto era così vivo che potevo sentire le scaglie del drago tra le dita dei piedi e lo schiocco della sua lingua biforcuta nell’orecchio.
La realtà è così sconclusionata da sembrare irreale; la fantasia è tanto palpabile da sibilare e schioccare e strisciare. Non a caso i due estremi coesistono in un racconto di folklore, un mito con ricadute sulle vita di Bujar. Nel secondo filone narrativo, sono passati molti anni e Bujar è solo. Si sposta di città in città, alla disperata ricerca di una casa: a New York, Roma, Berlino cambia genere e identità, vuole intimità ma si nasconde dietro a bugie. La carica utopica del travestimento si diluisce e il desiderio di trasfigurare il mondo attraverso lo sguardo è diventato un esercizio affabulatorio, cinico e disincantato. La maschera che indossa ha perso ogni tratto gioioso, il travestimento serve a proteggere l’outsider: “se la morte fosse una sensazione, sarebbe questo: l’invisibilità, vivere la tua vita in abiti scomodi, camminare con scarpe strette”.
Statovci alterna i due piani temporali nel libro, creando un movimento ondivago: le pagine albanesi bruciano di sogni giovanili e desideri, ma anche di una violenza affilata, mentre nel vagare occidentale si apre uno sconforto vuoto e annichilente – non meno violento. Lì, la possibilità di plasmare la propria identità perde ogni potenziale utopico, diventa una strategia di adattamento dell’escluso.
Ne I cieli il movimento tra favola, utopia e realtà è ancora più netto. Il romanzo si apre a New York nel 2000, Kate e Ben s’incontrano a una festa e s’innamorano. La città è animata da un brusio leggero, si vedono le stelle, c’è l’ebrezza dell’amore agli inizi ed è l’estate “in cui le emissioni di carbonio erano radicalmente diminuite”, “erano stati firmati gli accordi di pace di Gerusalemme” e “le Nazioni Unite avevano superato l’obiettivo del millennio di sradicare la povertà”. L’utopia di Newman ha connotati politici, ambientali, economici convenzionali ma prende una via di fuga nella dimensione onirica. Kate fa un sogno che la accompagna fin da piccola: il suo nome è Emilia e vive in una terra chiamata Albione. Il sogno è vivido e al risveglio Kate “sentiva una sorta di importanza particolare, sublime – come se il sogno fosse una missione segreta”, è così intenso che il suo vero mondo, New York nel 2000, pareva quasi “un sogno incantato che lei faceva in Albione”.
Il linguaggio fiabesco pervade narrazione e stile, s’infiltra nei meccanismi del racconto. Per esempio, quando Kate è innamorata il sogno diventa più intenso:
Così, dopo il primo bacio, sognò il letto su cui giaceva l’altra sé, le tende di velluto odorose di muffa che la circondavano. La notte in cui per la prima volta fece sesso con un uomo, sognò un gatto che le dormiva accanto, che si stiracchiava e le dava dei colpetti sulle costole con una zampa piccola, nitida. Quando il suo primo fidanzato la tradì, sognò il profumo di alloro delle ghirlande di Natale e seppe che aveva trascorso una lunga giornata a intrecciarle; si sentiva le mani rigide, irritate.
E via dicendo. L’utopia aderisce completamente alla fiaba, tanto che quando compare una minaccia all’orizzonte – “E per un istante i ceppi e le fiamme disegnarono la linea di un orizzonte spettrale. Era una città frastagliata di fuoco e cenere, l’apparizione contorta di un mondo di morti” – il discorso incantato si deteriora nel linguaggio della malattia mentale.
L’apocalisse presagita è il crollo delle torri gemelle? Il grande incendio di Londra? Quale città deve salvare Kate? Non è veramente questo che conta, quanto piuttosto il lento dubbio che s’insinua nella percezione della realtà fino a quel momento armonica. Piccoli scarti dal mondo conosciuto, “anomalie, discrepanze e momenti di jamais vu”. Ogni intervento compiuto da Kate nel sogno, ogni decisione presa per cambiare il corso degli eventi e allontanarlo dalla città di fiamme e cenere, ha ricadute sul mondo reale. Niente accordi di pace, nessuno sradicamento della povertà. Persino l’esistenza di Kate, un mondo sereno e protetto, ricco di affetti, si sfalda; mentre termini come “schizofrenia”, “patologia”, “malattia” diventano sempre più insistenti.
I romanzi di Statovci e Newman vibrano di libertà. La fantasia viscerale di Le transizioni è un istinto di sopravvivenza; mentre ne I cieli l’incanto fatato si trasforma in un’angosciante cappa di fatalismo. In entrambi i casi, il lessico utopico della fiaba e del mito si deteriora a contatto con le storture del mondo; non prima però di averlo contaminato con il potenziale dell’immaginazione, quasi avessero bruciato un varco nella trama del reale. A volte la commistione tra fantastico e realtà diventa una carica trasfigurante, altre rimane un’emulsione immiscibile. L’impressione però, è che questo sguardo sfumato possa essere uno strumento prezioso per saggiare gli estremi del realismo tanto quanto della realtà, e provare a leggervi qualcosa di nuovo.